Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

21 aprile 2011

Immigrati, ok dei commissari al nuovo piano Ue
Proposta una diversa governance di Schengen sull'emergenza immigrazione. L’approvazione ufficiale ci sarà il 4 maggio.
Il Tempo, 21-04-2011
Maurizio Gallo
Via libera al nuovo piano Ue sull'immigrazione. Il collegio dei Commissari ha dato l'ok alla bozza di comunicazione sull'immigrazione preparata da Cecilia Malmstrom e anticipata ieri da Il Tempo. Il documento sarà approvato formalmente dalla Commissione europea il 4 maggio, per essere poi presentato al Consiglio e al Parlamento europeo. Tra i punti salienti della proposta c'è un nuovo modo di gestire l'accordo di Schengen, favorendo il movimento dei cittadini europei tra una frontiera e l'altra, controllando meglio l'immigrazione clandestina e rafforzando l'agenzia Frontex. Il meccanismo di revisione della governance di Schengen fa riferimento a un maggior ruolo della Commissione nella valutazione dei rischi alla frontiera esterna.
L'obiettivo è permettere all'Unione di «gestire la situazione quando uno stato membro non rispetta i suoi obblighi nel controllare il suo settore della frontiera esterna o quando una particolare porzione della frontiera esterna finisca sotto inattesa e pesante pressione dovuta a eventi esterni». I commissari hanno convenuto sull'idea di una frontiera esterna che possa «arretrare» quando un Paese di fatto dichiara di essere al «collasso» di fronte alla pressione di un flusso migratorio incontrollabile. Punto di partenza del dibattito è la questione, aperta da mesi, dell'opposizione franco-tedesca all'ingresso di Bulgaria e Romania nello spazio Schengen. Con la revisione della governance di fatto diventerebbe possibile la creazione di una «rete di protezione».
Un'altra iniziativa riguarda patti «più fermi e solidi» con i Paesi di provenienza delle migrazioni, legando aiuti e finanziamenti Ue alla conclusione di convenzioni non più bilaterali ma europee per la riammissione dei migranti e al varo di politiche di controllo dell'emigrazione clandestina. Attualmente l'Unione ha un accordo di riammissione con il solo Pakistan. È in fase di approvazione politica, invece, quello con la Turchia, per il quale è stata finalizzata già nel gennaio scorso la parte tecnica. Il documento prevede anche di avviare un programma per la redistribuzione nei Paesi europei dei profughi sfollati dalla Libia, bypassando i viaggi sui barconi dei trafficanti. Un po' quello che avvenne tra 2009 e 2010 per circa diecimila profughi iracheni sfollati in Siria e Giordania, che furono prelevati con mezzi messi a disposizione dall'Ue e distribuiti tra diverse nazioni del Vecchio Continente. Tutto ciò non coinvolge il fenomeno dei «migranti economici».
La Commissione guidata dalla Malmstrom e vicepresieduta da Antonio Tajani, infine, pensa di dare maggiore disponibilità e flessibilità ai fondi del bilancio europeo per aiutare Paesi che, come l'Italia, devono far fronte a migrazioni di massa. Intanto, due buone notizie. La prima è che, a parte quello massiccio di martedì a Lampedusa, si sono ridotti gli sbarchi in Sicilia e i rimpatri procedono senza intoppi. L'altra notte soltanto 36 migranti, tra cui una donna, sono approdati a Pantelleria. Fermati sulla terraferma dai carabinieri, gli stranieri sono stati trasferiti in nave a Trapani. Gli ultimi 25 minori che erano ancora a Lampedusa sono stati trasferiti in traghetto a Porto Empedocle.
Da qui, saranno destinati a case-famiglia in diverse località siciliane. Sulla più grande delle Pelagie, così, sono rimasti una settantina di tunisini in attesa di essere rimpatriati con i voli predisposti dal Viminale. Ciò significa che funziona l'accordo siglato dal ministro Maroni in Tunisia. La seconda è che si cominciano a svuotare alcune tendopoli. E, come dicevamo, è cominciata l'operazione di «alleggerimento» a Manduria. Nelle ultime ore 500 migranti hanno lasciato il maxi-camping pugliese, col permesso temporaneo e il titolo di viaggio in tasca, e sono stati accompagnati alla stazione di Taranto. La Questura conta di poter svuotare completamente la tendopoli entro Pasqua. Resta da capire cosa ne sarà della struttura, visto che sono stati portati a tremine anche i lavori di allacciamento idrico e fognario e la rete di recinzione.



Migranti, la Ue disposta a modificare Schengen Più sostegno per l'Italia
BresciaOggi, 21-04-2011
La difficile gestione dell'emergenza immigrazione di questi ultimi mesi ha dimostrato che le regole di Schengen non sono più efficaci. Per questo il collegio dei Commissari Ue ha dato via libera alla bozza sull'immigrazione preparata dal commissario agli Affari interni Cecilia Malmstrom. Tra i punti qualificanti il rafforzamento di Frontex, più vincoli tra aiuti Ue e accordi di riammissione con i Paesi terzi, e più flessibilità di utilizzo dei fondi Ue.
Il documento, che sarà approvato dalla Commissione europea il 4 maggio, è una «revisione della governance di Schengen». L'obiettivo di Bruxelles, spiegano fonti Ue, è infatti quello di creare una «rete di sicurezza» nel caso in cui un Paese «collassi».
Intanto, dopo il maxi sbarco, Lampedusa è tornata a svuotarsi: la nave traghetto Flaminia ha portato via un migliaio di persone, tra cui i 760 profughi sbarcati l'altro ieri pomeriggio sull'isola. Mineo, Crotone e Bari le destinazioni.
Sono così rimasti a Lampedusa soltanto una settantina di cittadini tunisini, in attesa di essere rimpatriati con i voli predisposti dal Viminale. Da segnalare invece un nuovo sbarco di cittadini tunisini a Pantelleria: i 36 migranti, tra cui una donna, sono stati abbandonati in mare dagli scafisti a poca distanza dalla costa dell'isola.



Sorpresa, sugli immigrati la gauche francese dà ragione al Cav: "Quei permessi sono giusti"
Per il direttore del "Nouvel Observateur" i permessi temporanei ai tunisini sono l’unica soluzione sensata. "Cosa bisognava fare con le circa 25mila persone giunte dalla Tunisia su imbarcazioni di fortuna? Cedere al panico o parlare d’invasione? No, quello che ha fatto l'Italia è giusto"
il Giornale, 21-04-2011
Roberto Fabbri
Berlusconi ha ragione. Una frase talmente rara se a pronunciarla è un giornalista di sinistra da meritare un approfondimento. L’autore di un’affermazione tanto impegnativa è un signore il cui pedigree gauchista è a prova di bomba: si chiama Laurent Joffrin, è stato direttore di Liberation e attualmente dirige Nouvel Observateur, settimanale i cui toni abituali ricordano quelli dell’italiano L’Espresso. Nessuno si sognerebbe di accusare Joffrin di ambiguità, meno che mai di simpatie per il vituperato Caimano d’Oltralpe. Eppure.
Sentiamo cosa ha scritto il direttore del Nouvel Observateur in un editoriale dedicato alla questione dell’immigrazione che ha visto e ancora vede contrapposti i governi di Parigi e di Roma.
«Al rischio di passare per un cattivo francese, voglio dire che nella vicenda degli immigrati tunisini di Lampedusa Berlusconi ha ragione». Il riferimento al «cattivo francese», va notato, rimanda a toni tipici della propaganda politica attuale di quel Paese, già proiettata sull’obiettivo di prima grandezza delle presidenziali dell’anno prossimo: in sostanza il presidente di destra Sarkozy sa che deve mantenere la promessa fatta ai francesi quattro anni fa di proteggerli da ondate migratorie indesiderate e di garantire la loro sicurezza e nella sua retorica un cattivo francese è chi non condivide questi obiettivi. Joffrin com’è noto sta dalla parte dei «cattivi» e con questa premessa dar ragione a Berlusconi assume un’altra valenza. Andiamo avanti.
«Cosa bisognava fare con le circa venticinquemila persone giunte dalla Tunisia o da qualche altro Paese nella minuscola isola di Lampedusa su imbarcazioni di fortuna? Allarmarsi, cedere al panico, parlare di immigrazione di massa o d’invasione?». Fare insomma come da noi fanno Sarkozy e la sua concorrente d’ultradestra Marine Le Pen? «No - continua Joffrin rimarcando la particolarità della situazione di crisi attuale -. Una volta eliminate le soluzioni umanamente pericolose o indegne, bisognava solo procurare a questi rifugiati a titolo eccezionale dei permessi di soggiorno temporanei, che consentiranno loro di raggiungere famiglia e amici in Francia, in Italia o altrove».
A questo punto il direttore previene la logica critica alle sue argomentazioni e arriva alla conclusione. «Soluzione lassista? No, soluzione temporanea. Al termine dei sei mesi, i detentori dei visti transitori ne dovranno chiedere altri, che potranno essere concessi o negati. Ecco perché Berlusconi questa volta ha ragione». Non facciamo drammi, dice in sostanza Joffrin: ne vengano pure quanti vogliono di tunisini da Lampedusa, la Francia dispone degli strumenti per liberarsene entro la fine di quest’anno e Berlusconi ha fatto quello che qualsiasi governante di buon senso avrebbe fatto al suo posto. Aggiungiamo noi che la strizzatina d’occhio al disprezzato (di solito) leader italiano fa anche un po’ comodo: perché permette a Joffrin di evidenziare che il «cattivo francese» in realtà è quel cattivone di Sarkozy. Che non vorrà mica rivincere le elezioni, no?



Vesco: «Caos a livello nazionale» Attesi in Liguria altri 55 migranti
Il Secolo XIX, 21-04-2011
Genova - «Se c’è un tetto massimo di permessi di soggiorno temporanei che la Questura in Provincia di Imperia può rilasciare ai migranti, allora chiediamo al governo, al ministro Maroni, di ampliare questo numero, di non rispedirli indietro, in Provincia di Savona». È la richiesta avanzata dall’assessore all’Immigrazione della Regione Liguria, Enrico Vesco, questa mattina a margine di un incontro a Genova. L’assessore aveva parlato di uno “sgambetto politico” sul fatto che fosse stata scelta la questura di Savona per accogliere le richieste per i permessi di soggiorno.
«Non ho un sospetto sulle questure italiane - ha detto Vesco - credo che ci sia una manovra politica a livello nazionale di una delle forze che esprime il ministro dell’Interno, che sta capitalizzando una campagna di tensione nei confronti degli immigrati. Nel vedere che i migranti vengono rimandati indietro da Ventimiglia, e che gli viene chiesto di presentarsi a Savona, creando lì delle difficoltà, nascono le mie preoccupazioni - ha osservato - se Maroni non aumenterà il numero di permessi a Imperia le mie preoccupazioni trovano un fondamento».
«Nell’incontro con le associazioni di Savona è stato difficile capire gli arrivi previsti, ma il piano d’accoglienza è già pronto», ha ribadito l’assessore.
«A Genova stiamo ancora aspettando l’arrivo programmato di 55 immigrati, ma ad oggi le notizie sono discordanti sull’arrivo, siamo pronti, la macchina della Regione Liguria è in funzione, mi pare che a livello nazionale perduri uno stato di grande confusione che non aiuta il lavoro», ha detto ancora Vesco. «I piani d’accoglienza sono già predisposti a Savona, così come a Cairo, La Spezia e Genova - ha aggiunto - il nostro lavoro lo stiamo facendo, l’associazionismo del terzo settore ha risposto in modo egregio, molte associazione hanno messo a disposizione spazi e servizi dignitosi».
«Il punto d’accoglienza di Ventimiglia funzionava - ha concluso - funzionava il lavoro celere svolto dalla Questura che rilasciava dopo pochi giorni i permessi, non capisco perché non si possa continuare lì, ci sono altri quattro commissariati prima di arrivare a Savona, non si può chiedere a loro di farsi carico delle pratiche? In caso contrario gli immigrati che sono già a Ventimiglia, dovranno sobbarcarsi altre spese e perdere altro tempo».
Tunisini diretti in Francia
Non si ferma il flusso dei tunisini diretti verso la Francia attraverso il confine di Ventimiglia. Nella notte, con il treno proveniente da Roma, sono arrivati nella cittadina ligure altri 150 immigrati, che hanno dormito in stazione. Il treno delle 23.32 per Cannes, via Nizza, non è infatti partito a causa di lavori sulla linea ferroviaria che hanno costretto le ferrovie francesi a sopprimere i convogli della notte.
Inutilizzabile, per i migranti, l’autobus sostitutivo del treno, perché si poteva salire soltanto se muniti di tagliando e, a quell’ora, la biglietteria era già chiusa. I tunisini hanno dovuto quindi attendere i primi convogli di questa mattina per riprendere il viaggio verso la Francia.
Ancora tutto esaurito anche il centro di accoglienza, dove hanno dormito 150 migranti.



Immigrazione: in Puglia migranti accolti anche per sanita'
Hanno diritto a medico di famiglia e assistenza sanitaria
(ANSA) - BARI, 21 APR - I migranti che arrivano in Puglia hanno diritto al medico di famiglia e all'iscrizione al servizio sanitario e gli stranieri possono iscriversi temporaneamente per un anno alla Asl in cui dichiarano di domiciliare. Lo ricorda l'assessore alla Sanita' della Regione Puglia,Tommaso Fiore, che ha inviato una nota ai Dg di Asl e Aziende ospedaliere. Per il migrante che arriva nei centri di accoglienza e' prevista l'iscrizione al servizio sanitario e va iscritto, insieme con i familiari, negli elenchi degli assistibili Asl del territorio in cui dichiara la dimora, anche se non ha fissa dimora.(ANSA).



Gifty, regalo della speranza per la neonata “figlia di Lampedusa”
Il Messaggero, 20-04-2011
LAMPEDUSA - L’hanno voluta chiamare Gifty, come un «regalo» della buona sorte che ha assistito la bimba partorita ieri nella Guardia Medica di Lampedusa subito dopo l’approdo del barcone con 760 profughi sul quale viaggiava anche la mamma della piccola, Viviane, una giovane nigeriana di 23 anni. La donna ha chiamato ieri sera il marito, rimasto in Libia, e insieme hanno deciso il nome da dare alla bimba. Questa mattina Pietro Bartolo, il responsabile del Poliambulatorio dell’isola che ha assistito Viviane durante un parto molto travagliato, ha iscritto Gifty all’anagrafe di Lampedusa.
Mamma e bimba sono adesso ricoverate nell’ospedale Cervello di Palermo e stanno bene, come hanno confermato stamani i medici del reparto di Ostetricia; la piccola è in osservazione presso la divisione di neonatologia.
Ha un sorriso timido e un paio di occhi neri carbone. Con il camice bianco cammina lentamente nel corridoio del reparto di Ginecologia dell’ospedale Cervello. Parla per la prima volta Vivian Akhimien, la nigeriana di 24 anni partita dalla Libia con il suo pancione di otto mesi. «Eravamo partiti da neanche 24 ore quando mi sono rotte le acque - racconta - è stato molto doloroso, perchè ho iniziato ad avere forti contrazioni. Ero terrorizzata, non tanto per me quanto per la mia bambina». Alla fine il miracolo si è avverato e la bambina è nata poche ore dopo lo sbarco a Lampedusa, grazie all’intervento del dottor Pietro Bartolo. «Per me la nascita della mia bambina è stato un regalo immenso - spiega - ecco perchè ho decido di chiamarla Gifty».
E riprendere a raccontare i momenti terribili vissuti sul peschereccio ammassata insieme ad altre 759 persone sistemate in ogni angolo del barcone che rischiava di cadere a pezzi. «Pensavo a mio marito che è rimasto in Libia - ha detto Vivian - non volevo che la bambina morisse». Per la giovane mamma è la prima gravidanza. «Il parto è stato molto difficile - prosegue il racconto - sentivo che la bambina stava per morire, ma per fortuna i medici sono riusciti a farla nascere viva».
Poi, il miracolo. Ad una sessantina di miglia da Lampedusa tre motovedette della Guardia costiera hanno raggiunto il peschereccio ormai quasi in avaria. Il barcone è stato scortato fino a Lampedusa. Vivian è stata tra le prime a scendere dall’imbarcazione. Barcollava e si teneva forte il pancione.
Del resto non ricorda molto: «Solo tanto dolore e paura - dice adesso a distanza di poche ore - ma adesso è tutto finito. Però vorrei lavarmi tanto i denti». Così, la caposala le promette: «più tardi di porto uno spazzolino, stai tranquilla».
Nel reparto è iniziata una colletta per comprare tutine e giocattoli per Gifty ma anche camice da notte e abbigliamento per Vivian. «I pazienti hanno raccolto davvero molte cose - spiega Walter Bertolino - ne sono felice, perchè noi dimostriamo sempre di avere un grande cuore». «Questo ospedale è rinomato per la sua ospitalità anche per i profughi - spiega Linda Pasta della direzione del presidio - e anche questa volta lo abbiamo dimostrato». Per Vivian è arrivato il grande momento, può andare a vedere la sua piccola Gift. Mamma e figlia si preparano ad una nuova vita.
Quella di Gifty è la seconda nascita in meno di un mese a Lampedusa, dove da anni non si registravano nuovi iscritti all’anagrafe perchè le donne sono costrette a partorire lontano da casa per mancanza di strutture. Questa mattina il responsabile del Poliambulatorio Pietro Bartolo, il ginecologo che ha assistito la donna in un travaglio particolarmente difficile e rischioso, ha aggiunto il nome della neonata a quello dell’altro bimbo partorito il 26 marzo scorso su un barcone da una donna eritrea che l’ha voluto chiamare Yeabsera, “dono di Dio”, proprio come Gifty. Due “figli dell’isola” accolti con entusiasmo dagli abitanti di Lampedusa, che hanno subito portato in regalo vestitini e biberon.
Viviane ricorda con commozione quei momenti e ringrazia tutti quelli che si sono prodigati per salvare lei e la figlioletta: «Dalle donne che mi hanno sorretto durante la traversata mentre avevo le doglie al medico che mi ha fatto partorire quando ormai sembrava che non ci fosse più nulla da fare». Come conferma il dottor Bartolo, che è anche commissario per l’emergenza sanitaria sull’isola: «La bimba - spiega il ginecologo - era in sofferenza: aveva difficoltà respiratorie e problemi cardiaci, anche a causa del cordone ombelicale attorno al collo». La tensione di quei momenti si scioglie sul viso finalmente disteso di Viviane che continua a chiedere notizie ai medici sulle condizioni della figlia, tenuta in osservazione nel reparto di neonatologia: «Sta bene ed è una bella bimba, vispa e piena di salute», la rassicurano.
Poi il pensiero della ragazza corre al marito Mohamed, 24 anni, un imbianchino disoccupato rimasto in Libia. Erano partiti insieme due anni fa dalla Nigeria, inseguendo il sogno di un futuro migliore. Una storia simile a quella di altre migliaia di disperati: l’arrivo a Tripoli, la guerra civile, la ricerca disperata di una via di fuga verso l’Europa. Il “biglietto” per Lampedusa, racconta Viviane, è costato 700 dinari. «Io e Mohamed dovevamo imbarcarci insieme, ma su quella carretta non c’era più posto. Lui mi ha detto di partire egualmente, promettendo che mi avrebbe raggiunto. Io e Gifty lo aspettiamo».



MMIGRATI: VIMINALE, RIMPATRIATI 18 EGIZIANI SBARCATI IN PUGLIA
(ASCA) - Roma, 21 apr - Nella serata di ieri, 18 cittadini egiziani sono stati rimpatriati a Il Cairo con un volo charter decollato dall'aeroporto di Bari-Palese. Lo comunica una nota del Viminale spiegando che gli stranieri facevano parte di un gruppo di 45 clandestini (19 maggiorenni e 26 minorenni) sbarcati lo scorso 18 aprile, in prossimita' del litorale di S. Margherita di Savoia (Barletta). Tutti gli stranieri, al momento del rintraccio da parte delle Forze di polizia territoriali, per evitare di essere rimpatriati, hanno omesso di dichiarare la loro nazionalita'. Tuttavia, su input della Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia delle Frontiere, la Questura di Foggia ha effettuato mirati accertamenti, che hanno consentito di appurare la reale nazionalita' egiziana dei clandestini. I 26 minori sono stati affidati alle idonee strutture indicate dalla competente Autorita' Giudiziaria, mentre un maggiorenne si trova ancora ricoverato in ospedale, dove era stato condotto subito dopo il suo rintraccio. Il rimpatrio dei 18 egiziani, avvenuto nell'immediatezza del loro sbarco, conferma, conclude la nota, ''l'eccellente livello dei rapporti di cooperazione che intercorrono tra la Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia delle Frontiere e la Rappresentanza diplomatica egiziana in Italia. Infatti, dall'inizio dell'anno, sono 183 i clandestini rimpatriati a Il Cairo nelle ore immediatamente successive al loro arrivo sulle coste siciliane''.



"Immigrati fuori da Roma" La linea dura del sindaco
Alemanno: "Ogni volta che arrivano altri migranti verranno spostati nell'hinterland". Ma Polverini frena: "No a trattenimenti coatti". Il Pd va all'attacco: "Dal Campidoglio l'ennesima prova di incapacità"
la Repubblica, 21-04-2011
MAURO FAVALE
Nella confusione generale, il messaggio che arriva dal Campidoglio è sempre lo stesso, dall'inizio dell'emergenza: fuori da Roma gli immigrati. Lo ripete di nuovo Gianni Alemanno dopo che, in serata, prende forma l'ennesima giornata di caos alla stazione Termini: "Siamo d'accordo con il prefetto che ogni qualvolta si presentano immigrati senza dimora alla stazione, questi ultimi vengano portati immediatamente fuori Roma. Vogliamo evitare assembramenti come a Ventimiglia". Parole che arrivano quando alla stazione Termini "l'assembramento" è già in corso da ore. Nonostante in mattinata il sindaco avesse specificato come, proprio in stazione, il Comune era "molto attivo e vigile".
In realtà, a Termini, la presenza del Campidoglio è ridotta all'osso: ci sono giusto due funzionari del V dipartimento, quello che si occupa dei servizi sociali, che provano a coordinare insieme alla questura le scarse informazioni che arrivano da Comune e prefettura. Il tutto mentre Alemanno continua ad avvertire: "Non permetteremo che Roma, e in particolare la stazione, diventi un luogo di stazionamento di persone che non hanno una residenza. Ho sempre sottolineato che la città è già molto carica e sta ospitando da tempo circa 8mila tra rifugiati e richiedenti asilo e 2.500 persone negli accampamenti abusivi. Non si può permettere un appesantimento di questo tipo. Faremo in modo che Roma non diventi lo sbocco di flussi migratori incontrollati".
Un avvertimento che, da parte della Regione Lazio che ha il coordinamento dell'emergenza (oggi dovrebbe riunirsi il tavolo inter-istituzionale anche con Province e sindaci), viene smorzato: "Queste persone sono coperte dall'articolo 20 - spiega la governatrice Renata Polverini - e quindi è evidente che l'impegno è di dare loro assistenza e, per chi lo richiede, anche accoglienza. Non si possono trattenere in maniera coatta, loro sono liberi di circolare in Italia e, in base agli accordi, anche nel resto d'Europa".
Sulla situazione dei tunisini, tra scarse notizie e poche certezze, il Pd va all'attacco. Obiettivo, il sindaco di Roma. "Alemanno dimostra tutta la sua pochezza e la sua ormai nulla capacità di governo della città", afferma il segretario dei democratici romani, Marco Miccoli. "Non riesce a gestire la situazione che, fortunatamente, non sta assumendo contorni emergenziali per l'intervento della Protezione civile e dei volontari. Ma il Comune targato Alemanno ha fornito l'ennesima chiara dimostrazione di incapacità, dilettantismo e pressappochismo". Sergio Gaudio, del Forum immigrazione del partito, poi, chiede che vengano predisposti "un sistema e una procedura chiara per risolvere questa situazione". Urge, insomma, una "soluzione sistematica per i prossimi giorni perché la capitale è snodo di arrivo di circa l'80% dei profughi e rifugiati che arrivano in Italia".



Sant'Egidio accusa il Comune "Da Roma risposta inadeguata"
"Preoccupazione e disappunto per le recenti scelte dell'amministrazione". In un lungo comunicato di denuncia, la Comunità "non intravede una 'politica' e di certo una 'politica di accoglienza e umanità all'altezza del ruolo della città e delle sue responsabilità nazionali e internazionali".
la Repubblica, 21-04-2011
Sant'Egidio accusa il Comune "Da Roma risposta inadeguata" I tunisini alla stazione Termini
La "preoccupazione" e il "disappunto" di Sant'Egidio "per le recenti scelte dell'amministrazione di Roma capitale nei confronti dei rom e dei profughi giunti in questi giorni dal nord Africa". In un lungo comunicato di denuncia, la comunità "non intravede una 'politica' e di certo una 'politica di accoglienza e umanità all'altezza del ruolo di Roma e delle sue responsabilità nazionali e internazionali".
"Molti rom sono stati sgomberati nelle ultime settimane e in questi giorni senza alternative (se non la proposta di dividere le famiglie) e sugli immigrati ci si è affrettati in più occasioni, non solo a mezzo stampa, ma nelle riunioni operative, a puntualizzare che 'a Roma non devono venire'", dice ancora la nota. "Come cristiani e come cittadini crediamo che questo non possa essere il volto di Roma. E' un segnale grave, di assenza di idee, di incapacità di visione, di errato messaggio inviato alla cittadinanza, che incoraggia chiusura e durezza immotivate".
"Mentre ad inizio aprile la Commissione europea varava un documento per l'inclusione dei rom - continua - in concomitanza con la giornata internazionale dei rom, sono iniziati a Roma sgomberi quotidiani e ripetuti di famiglie rom che vivevano in 'insediamenti spontanei'. Si è iniziato da piccoli insediamenti, ma negli ultimi giorni vi è stata un'escalation, sconosciuta all'opinione pubblica, ma non ai rom e alla comunità di Sant'Egidio, che ha riguardato insediamenti più grandi: da Lungotevere San Paolo a via Severini, all'ex Mira Lanza. Ieri, mercoledì, è stato sgomberato un campo con 270 persone a via del Flauto".
"All'indomani della morte dei 4 bambini bruciati sull'Appia- dice ancora Sant'Egidio- l'amministrazione aveva annunciato che si sarebbero chiusi i 'campi abusivi fatti di baracche', ma trasferendo contestualmente gli abitanti in luoghi di accoglienza idonei e degni: si è parlato prima di tendopoli e caserme, poi del centro assistenza rifugiati, il Cara di Castelnuovo di Porto. Non certo soluzioni definitive, ma un modo di garantire sicurezza almeno nel breve periodo.
Contrariamente a quanto annunciato, alle famiglie sgomberate non è stato proposto il trasferimento in una struttura, ma soltanto la possibilità di dividersi: donne e bambini al Cara, uomini in strada. E' una proposta già fatta in passato e di cui già si conosce l'esito: nessuna famiglia vuole dividersi (si ricorda che le famiglie rom sono formate da persone, madri, padri, bambini, e che a nessun cittadino non-rom, verrebbe mai proposta la divisione dei nuclei familiari come politica della sicurezza e dell'integrazione)".
"Come è ovvio- va avanti la denuncia di Sant'Egidio- ma non ai programmatori e responsabili delle politiche sociali nella nostra città - e purtroppo anche in altre parti d'Italia - nessuno accetta soluzioni che disperdono i nuclei familiari. Il rifiuto ha per conseguenza la dispersione degli interi nuclei familiari sul territorio cittadino, in condizioni ancora più precarie e insicure. E con l'interruzione del percorso di integrazione sociale e scolastica. Il risultato è che oggi più di 600 persone vagano già per la città senza un luogo dove dormire: tra loro molti bambini. Alcuni di loro, a seguito degli sgomberi hanno già interrotto - per l'ennesima volta - il percorso di inserimento scolastico a pochi mesi dalla conclusione dell'anno. A titolo di esempio si ricorda che la famiglia che ha subito la terribile perdita dei quattro bambini bruciati era presente sul nostro territorio da 10 anni e che aveva subito già trenta sgomberi, con i risultati che si possono immaginare per la scolarizzazione e l'uscita dalla marginalità".
"E' evidente che se la preoccupazione che ha spinto a fare gli sgomberi è la sicurezza degli abitanti e impedire nuove tragedie tra i rom e i bambini rom, oggi quei bambini sono più in pericolo di prima: vagare con le famiglie in cerca di un nuovo posto dove dormire  non migliora i problemi di ordine pubblico della città. Gli sgomberi continui e il 'gioco dell'oca' senza soluzioni con le famiglie rom rende anche più difficile l'azione di monitoraggio della legalità da parte delle forze dell'ordine che perdono contatto con nuclei abitativi consolidati. Con conseguenze negative talmente evidenti che è inutile spiegare più di tanto. Ma gli sgomberi, intanto, mostrano l'incapacità di Roma a svolgere un ruolo di guida in una politica dell'accoglienza e dell'integrazione. Sicuramente in contrasto con il carattere di capitale non solo nazionale, ma del cattolicesimo".
Sul versante dei migranti giunti in italia nelle ultime settimane dalla Tunisia e dalla Libia, "la risposta della capitale non è stata migliore- dice ancora il comunicato della comunità - mentre scorrevano immagini di bombardamenti e profughi, mentre ancora si piangevano i morti in mare, come è noto, si è creato un caso nazionale per due pullman in transito che hanno 'fatto scalo' a Grottarossa, per una notte, fino ad essere recintati e tenuti 'a vista' per le poche ore di permanenza. Al di là dell'esagerazione e del ridicolo, ancora una volta si è legittimato un clima immotivato di allarme nella popolazione e la convinzione che 'Roma è piena' in un momento in cui si attendono centinaia di migliaia di pellegrini e forse oltre un milione di persone. In questi giorni, ancora, la vicenda immigrati registra persone alla stazione Termini che, secondo l'amministrazione, 'appena possibile dovranno partire'".
La comunità di sant'egidio, quindi, chiede:
- Di interrompere gli sgomberi di rom dai campi informali se non si è in grado di offrire un'alternativa dignitosa e vivibile all'intero nucleo familiare;
- Di interrompere qualunque intervento sociale o di "inclusione sociale" che ritiene normale dividere i nuclei familiari, con pregiudizio dei processi educativi, formativi e di ordine pubblico;
- Che il comune gestisca l'attuale situazione degli immigrati nordafricani tenendo conto del contesto nazionale ed internazionale, ricordando che si tratta di profughi con regolare permesso di soggiorno;
- Di dotare la città di Roma (e il contesto metropolitano e regionale) di centri transitori di accoglienza con un'azione di orientamento e mediazione che permetterà poi di inviare i profughi in altre località in modo appropriato e in maniera mirata, nei tempi necessari a costruire percorsi intelligenti e non casuali.
"La capitale ha risorse umane, economiche, spirituali e culturali per rispondere a una fase - anche promettente
- Di cambiamento del mondo, senza rifugiarsi nel tunnel dell'emergenza perenne e nella logica spaventata della 'città chiusa' o di chi dice che 'la barca è piena'. Auspichiamo - conclude Sant'Egidio - con urgenza un ripensamento e un cambio di direzione perchè Roma sia all'altezza della propria storia, del proprio nome e della tradizione di accoglienza e universalità per cui è nota ed amata nel mondo".



Tunisini, sbarco a Termini E per oggi attesi altri 180
Caos alla stazione: in centinaia aspettano un biglietto per partire. Dopo la notte a Castelnuovo molti sono tornati in città a piedi: una marcia di trenta chilometri
la Repubblica, 21-04-2011
MAURO FAVALE
Quasi tutti vogliono andare a Ventimiglia. Qualcuno anche a Milano e Brescia. Ma l'obiettivo finale è la Francia, Parigi. Solo due vorrebbero tornare in Tunisia, da dove sono partiti diverse settimane fa, e chiedono a tutti come fare. Vogliono muoversi. E invece passano ore e ore, una giornata intera, fino a tarda sera, inchiodati, per il secondo giorno consecutivo, alla stazione Termini. Sono un centinaio di tunisini, quelli che hanno passato la scorsa notte nel centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto. Erano andati lì con la promessa che, il giorno dopo, avrebbero ricevuto un biglietto gratuito per salire su un treno e lasciare Roma.
In 143 hanno aspettato qualche ora, ieri mattina. Poi si sono divisi tra loro: 49 sono rimasti fiduciosi al Cara. Gli altri si sono incamminati verso Roma. Quasi 30 chilometri a piedi per tornare davanti a Termini e cercare di partire. Sono rimasti così, in attesa, in balia di informazioni che arrivano col contagocce grazie alla pazienza dei volontari, dei funzionari della questura, degli agenti di polizia che provano a fare fronte alla mancanza di un vero e proprio coordinamento.
Miracolosamente, nessuno perde la calma. Nonostante proprio l'impazienza di un centinaio di tunisini (sballottati da settimane, prima dalle onde del canale di Sicilia, poi da Lampedusa ai centri sparsi nel meridione) abbia contribuito a creare un senso di caos e di incertezza. Perché chi è rimasto a Castelnuovo di Porto, i biglietti per partire verso il nord se li è visti consegnare. Mentre è per gli altri, per quelli che sono voluti tornare a Termini, che si apre una girandola di voci che questura e volontari cercano di filtrare per cercare di far stare tutti tranquilli. Loro, i tunisini, hanno le facce stanche. Dopo la camminata da Castelnuovo, qualcuno si sente male. Arrivano due ambulanze, assistono un uomo che è svenuto. Hanno tutti fame. Due donne romene distribuiscono un po' di pane e un po' di pizza. Solidarietà improvvisata, accoglienza fai da te.
Ci sono un po' di volontari che fanno da raccordo tra tunisini e funzionari della questura. Spiegano le loro rivendicazioni. Soprattutto chiedono informazioni: "Con il nostro permesso di soggiorno, possiamo lavorare? Se oggi trovo un lavoro, tra sei mesi il permesso mi viene rinnovato?". Domande senza risposta. L'intervento della questura è scattato per "assembramento". Non era programmato, insomma. Chi arriva, però, si mette in moto per cercare di capire come fare fronte ai tanti che vogliono partire. Ci sono i 90 da Castelnuovo e i nuovi 60 arrivati in giornata. Per loro si stila una lista: nome, cognome, permesso di soggiorno e località che si vuole raggiungere. Si passa il tempo in attesa del pullman da Castelnuovo, quello che porta a Roma i 49 già provvisti di biglietto. L'ha pagato la Protezione civile che, come annuncia il sindaco Gianni Alemanno, "sta provvedendo per i biglietti ferroviari".
Quando arriva il pullman, sono quasi le 22. In tempo affinché i primi 49 prendano il treno che, a mezzanotte, li porterà a Genova e poi a Ventimiglia. Gli altri, gli "impazienti", più i 60 nuovi arrivi, devono tornare al Cara, grazie anche all'intervento risolutore della governatrice Renata Polverini e del prefetto Giuseppe Pecoraro. A Castelnuovo, oggi, verranno censiti e riceveranno anche loro il biglietto per lasciare Roma. L'emergenza, però, non è finita. Lo sanno tutti, gli stessi tunisini ricevono le telefonate dai loro connazionali che, ieri pomeriggio, sono partiti dalla Sicilia e dalla Puglia, da Trapani e da Manduria. Arriveranno stamattina, alla spicciolata. "Saranno 150, forse anche 180". No, l'emergenza non è ancora finita.
 


SENZA PATRIA NÉ DIRITTI
Eritrei: ecco l'andata e il ritorno dall'inferno
Avvenire, 21-04-2011
Paolo Lambruschi
Erano 250 eritrei colpevoli di inseguire un sogno di libertà. Fuggivano da un regime oppressivo, volevano raggiungere Israele. Invece sono stati rapiti per mesi nel Sinai da una rete criminale composta da clan di beduini Rashaida. Circa 85 di loro fuggivano dalla Libia, "chiusa" ai migranti dopo il trattato di amicizia con l’Italia, gli altri provenivano dal Sudan. La loro odissea è iniziata il 23 novembre, per la maggior parte è terminata tra Natale e febbraio con il pagamento del riscatto variabile dagli 8 ai 10mila dollari. Abbiamo seguito la loro tragedia – grazie anche alle denunce del sacerdote eritreo Mosè Zerai – con una lunga campagna giornalistica tra novembre e dicembre per rompere il silenzio di media e governi occidentali su questa nuova rotta del traffico di esseri umani.
Ora possiamo rivelarlo, la libertà di alcune donne povere in stato interessante è stata pagata anche da alcuni nostri lettori sdegnati dall’orrore, che non è stato fermato neppure dopo una risoluzione del Parlamento europeo a metà dicembre che sollecitava l’intervento del Cairo. Solo la società civile si è mossa. Ma il Sinai è terra di nessuno, anche dopo le rivolte, e l’industria dei sequestri resta fiorente. Dove sono, come stanno gli eritrei rapiti in autunno e liberati tre mesi fa? Siamo andati a Tel Aviv a scoprirlo e, per la prima volta, i profughi raccontano un’odissea infinita.
Zion tiene gli occhi bassi mentre entra nella sede di Ardc, associazione israeliana che aiuta i richiedenti asilo in Israele. È eritrea e sul volto porta i segni di un viaggio di andata e ritorno all’inferno. Ora vive in un limbo con poche prospettive per lei e la vita che porta in grembo. Ha 28 anni, è incinta di sette mesi. Indossa una tuta da ginnastica larga e porta il guardaroba in una borsa della spesa. Li hanno rilasciati a gennaio, dopo tre mesi di sequestro. «Ringrazio i benefattori italiani, devo loro la vita. La mia famiglia ha venduto tutto, ma non riusciva a coprire tutto il riscatto. Per me e mio marito sono stati pagati 11mila dollari a testa». Dopo la liberazione la coppia è stata un mese nel campo profughi israeliano di Saharonim, quindi è arrivata a Tel Aviv. Hanno un permesso provvisorio, ma Israele non ha una legge sull’asilo e i profughi non trovano lavoro facilmente. Dividono una stanza con altre sei persone e fanno letteralmente la fame. Chiedo della loro odissea.
«Siamo arrivati in Libia nel 2009, ma non potevano più restare: rischiavamo di finire in galera come clandestini. Non era più possibile partire per l’Italia a causa dei respingimenti. Ci hanno arrestato e abbiamo dovuto pagare per uscire. Allora ad ottobre 2010 un eritreo di nome John ci ha detto che ci avrebbe fatto arrivare in Israele con 2.500 dollari. Siamo partiti in 49, nel Sinai ci siamo uniti a un altro gruppo proveniente dalla Libia. Eravamo 85 in tutto. I beduini ci hanno tenuti nel deserto una settimana senza cibo. Poi si sono fatti consegnare soldi, cellulari, ci hanno messo delle coperte addosso e spinti dentro alcune caverne dove c’erano altri prigionieri, in tutto eravamo 250. Lì è cominciato il calvario».
Zion scoppia a piangere al ricordo della prigionia. «Ci tenevano incatenati, ci maltrattavano. Ci davano da mangiare solo pane e pomodori. Soffrivamo di diarrea e dovevamo fare i bisogni davanti a tutti. Non ci hanno mai fatto lavare né cambiare, bevevamo acqua sporca o le urine. Ci picchiavano con spranghe, poi chiamavano i parenti per sollecitare i pagamenti».
Conferma l’omicidio di sei eritrei. «A fine novembre hanno cercato di scappare. I beduini ne hanno uccisi quattro a fucilate, due li hanno ammazzati a bastonate. Si chiamavano John e Goitom, avevano 25 anni».
Durante il giorno gli uomini incatenati venivano impiegati come schiavi per costruire case. Alle donne andava peggio. «Eravamo nove e ci facevano pulire. Cinque le hanno stuprate davanti a tutti, io sono stata risparmiata perché ero malata. Eravamo prigionieri del trafficante Abu Khalid, i beduini avevano complici eritrei».
Conferma che oltre a lei, le offerte italiane hanno contribuito a liberare tre eritree in stato di gravidanza.
«Una è impazzita per le violenze subite e ha abortito come altre donne stuprate. Le altre due devono partorire. Non abbiamo neppure i soldi per mangiare, ma vogliamo andare fino in fondo sperando in Dio».
Al rifugio di Ardc, in un quartiere abitato da migranti africani, vivono in stanzette sovraffollate 20 donne e 25 bambini tra 0 e 16 anni. Trovo M., 22 anni, incinta al sesto mese. L’hanno rapita a ottobre. Era nel gruppo dei 250 sequestrati che abbiamo imparato a conoscere. Lei è stata liberata con il contributo italiano a dicembre.
«Sono fuggita da casa in agosto con un gruppo di amici e volevo lavorare in Sudan. I Rashaida mi hanno ingannata dicendomi che mi portavano a Khartoum, invece mi sono trovata nel Sinai dopo un viaggio infernale di una settimana. Ci tenevano stipati nei camion, sotto quintali di verdura e frutta. Alcuni sono morti soffocati. Eravamo prigionieri di Abu Abdel, per me sono stati pagati 8mila dollari».
M. sapeva di essere incinta del suo compagno quando era nel Sinai. Nonostante ciò è stata abusata da uno dei rapitori, un egiziano. Quando l’hanno liberata voleva abortire: per ignoranza temeva che il bambino fosse figlio anche dell’aguzzino. Quando medici le hanno spiegato che il padre era il compagno ancora prigioniero, ha scelto di partorire. M. è in miseria, ma, nonostante il dolore, non ha perso la speranza. Come tutti le donne e gli uomini eritrei che ho incontrato, il suo sogno di libertà non è stato spezzato nel Sinai.



E i giovani in fuga finiscono sulle carrette
Avvenire, 21-04-2011
Paolo Lambruschi
La generazione perduta d’Eritrea vive nelle strade pedonali di Neve Sha’anan, quartiere commerciale di Tel Aviv. Erano troppo piccoli per combattere quando c’era la guerra d’indipendenza dall’Etiopia nei primi anni Novanta e oggi sono esclusi da tutto. Vogliono riprendersi il proprio futuro e perciò hanno dato vita a un esodo silenzioso e costante dalla dittatura e dalla povertà.
Due terzi degli eritrei in patria vivono infatti in miseria e, sotto il regime di ferro di Isaias Afeworki, l’ex colonia italiana è diventata il Paese che, rispetto alla popolazione ha il più alto numero di migranti al mondo. Su cinque milioni di abitanti, il 20% della popolazione del piccolo Stato, tutti tra i 20 e i 30 anni, vive all’estero. I più vengono dal sud, sono cristiani e per fuggire hanno attraversato deserti, conosciuto le prigioni libiche, sono stati rapiti e torturati dai beduini nel Sinai, e oggi sfidano la morte sulle carrette nel Mediterraneo. Muoiono ovunque gli eritrei, fino in Australia e nei deserti messicani, nell’indifferenza dell’Occidente. Ma la morte è per loro meglio di una vita da schiavi.
I migranti africani finiti nella capitale israeliana per disperazione abitano i dintorni della stazione degli autobus. Quelli più fortunati, che trovano lavori occasionali e possono pagare un pasto e un affitto, dormono ammassati in tuguri. Si aiutano grazie al forte spirito comunitario. Gli altri si sdraiano sotto le stelle di Levinski Park, il giardino accanto alla stazione dei bus. E girano, come il giovane papà che tiene per mano la sua bambina sulla via profumata di spezie e costellata da botteghe e ristoranti africani. L’uomo e la piccola dormono dove capita, come unica compagnia hanno una bambola in una borsa di plastica. La piccola ha sei anni e una vistosa cicatrice sulla fronte. Lui ne ha trenta e la storia di una famiglia lacerata da raccontare.
«Mia figlia – mi dice – si è ferita nel Sinai. Insieme alla mamma viaggiavano su una jeep dei trafficanti che le portava in Israele. Le aspettavo al confine, ma la jeep si è ribaltata. Mia moglie si è ferita gravemente, l’hanno presa i militari egiziani e non so dove sia finita. I trafficanti hanno caricato mia figlia su un’auto e me l’hanno consegnata ferita alla testa. Abbiamo attraversato il confine, stiamo aspettando che mia moglie chiami, non so se e quando arriverà. Ho finito i soldi, la piccola dovrebbe andare a scuola, io a cercare un lavoro. Ma non posso lasciarla sola e non ho cibo da darle. Passiamo la notte ospiti di amici in stanze sovraffollate».
Una situazione disperata comune a molti dei 20mila eritrei finiti in Israele dopo la chiusura delle coste libiche.
«Qui – spiega Haile, 31 anni, a Tel Aviv da sei mesi – abbiamo libertà di movimento, ma non di lavorare. E dobbiamo risarcire le famiglie che ci hanno pagato viaggi e riscatti. Per costruirci un futuro vorremmo andarcene in Europa o in America, ma non possiamo farlo perché non c’è una legge sull’asilo in Israele e non abbiamo uno status ufficiale».
Haile è il leader della neonata associazione dei rifugiati eritrei nello Stato ebraico. La sua è una delle storie della generazione perduta. Figlio di un generale dell’esercito, ha un fratello minore in Italia. Non hanno voluto seguire le orme paterne.
«Con la scusa dello stato di guerra con l’Etiopia, la leva inizia a 18 anni e dura fino ai 45. Ma l’esercito viene usato come manodopera a basso costo per fare lavori forzati nelle miniere e nei cantieri. La paga è 10 dollari al mese, il regime ha sacrificato il nostro futuro per sopravvivere. Ci controlla ovunque con una rete di spie, ho ricevuto già due lettere di minacce da quando sono qui».
Anche Kidane, 26 anni, ha passato un anno in Libia. «Studiavo all’università all’Asmara, nel 2007 la polizia mi ha preso di mira perché mi aveva sorpreso in un Internet cafè mentre a loro avviso partecipavo ad attività sediziose. Sono riuscito a scappare altrimenti finivo in un campo di lavoro e sparivo. Da noi non esistono tribunali».
Prima meta, l’Etiopia. «Ho passato il confine di notte strisciando. Oltre 36 mila rifugiati eritrei vivono in cinque campi per rifugiati oltre frontiera. Poi ho pagato i Rashaida per portarmi in Libia attraverso il Sahara. Lì ho dato il denaro a un trafficante per attraversare il Mediterraneo, ma questo mi ha venduto alle guardie. Dalla prigione ho chiesto a mio padre di mandare 1500 dollari a un secondino. A ottobre 2010, lavorando in nero, ho messo insieme i soldi e sono partito per Israele. Mi è andata bene, non mi hanno rapito. Vi sono persone che per uscire dal carcere in Libia hanno venduto un rene ai trafficanti di organi. Ho visto le cicatrici».
Fitnan ha 19 anni ed è stato invece rapito in Sudan nel 2009. Ha passato un anno da schiavo nel Sinai prima di venire liberato a febbraio. Faceva parte del gruppo dei 250 che abbiamo seguito grazie alle denunce di don Zerai.
«Sono stato rapito vicino a Kassala dai Rashaida che mi hanno portato nel Sinai, a tre ore di auto da Rafah. Mi hanno venduto ai trafficanti di Abu Khalid. La mia famiglia è povera, non poteva pagare il riscatto. Ho lavorato come schiavo nel deserto per quasi un anno, mi tenevano incatenato in cantiere e pulivo la prigione. Chi non ha pagato, è stato venduto ad altri gruppi e ai trafficanti di organi».
Alla fine Fitnan ha messo da parte la somma e quando è stato liberato, ha organizzato un incontro di preghiera per i sopravvissuti del Sinai. Ciascuno ha portato una candela per accendere una luce su questa tragedia dimenticata del deserto.



Picchia la figlia: "Piace troppo" I pachistani vogliono integrarsi?
L'unica colpa della studentessa pachistana era quella di essere avvenente e piacere ai suoi compagni di classe. Per questi motivi, il padre l'avrebbe picchiata, dopo aver sentito le battute dei suoi compagni. L'episodio segue quello di Jamila, la ragazza pachistana costretta dai suoi tre fratelli a stare a casa per paura che la sua bellezza potesse provocare attenzioni esagerate da parte di altri ragazzi
ilGiornale, 21-04-2011
L'ennesima follia. Un uomo di origine pachistana ha picchiato la figlia tredicenne. Motivo? Semplicemente perché era al centro dell' attenzione di altri ragazzini, compagni di scuola in terza media nel Parmense. "Ti piace quello, ti viene dietro l’altro", le dicevano fuori dai cancelli, tra la solita confusione di ragazzi e genitori venuti a prendere i figli. Il padre ha ascoltato tutto e, una volta a casa, ha riempito di botte la figlia. Ad accorgersene sono state il giorno dopo, in aula, le insegnanti, che hanno visto i lividi. La Gazzetta di Parma, che riferisce la vicenda, aggiunge che è stata la stessa adolescente a confermare che era stato il padre a picchiarla, e che lo aveva fatto per quello che era successo alla fine delle lezioni, quando lei si era solo trovata al centro di scherzi e battute in un gioco da ragazzi.
Dirigente scolastico e docenti hanno affrontato la situazione parlando con i genitori: per ora nessuna chiamata alle forze dell’ordine, per non allontanare la bambina dai genitori, con la convinzione - si è appreso dalla scuola - che sia necessario, almeno in questo momento, mantenere un canale di comunicazione con la famiglia. A Parma ci sono almeno cinque studentesse che vivono forti tensioni in famiglia per il loro modo di vivere "troppo occidentale" e che sono seguite da psicologi ed educatori dello spazio giovani dell'Ausl. Ragazze che vorrebbero scappare dalla famiglia, o rifiutano di lasciare l’Italia per un matrimonio combinato nel Paese di origine, o che si scontrano per i troppi no dei genitori per le compagnie che frequentano o perché non hanno il permesso di uscire alla sera. "Il problema - spiegano gli operatori - non è legato alla religione musulmana delle famiglie, ma alle diversità culturali, che vanno affrontate". L'epidosio segue quello, avvenuto a Brescia, di Jamila, la ragazza pachistana costretta dai suoi tre fratelli a stare a casa per paura che la sua bellezza potesse provocare attenzioni esagerate da parte di altri ragazzi.
Il commento della Sbai “L’episodio di Parma è l’esempio lampante della gravità di certi atteggiamenti falsamente buonisti e potenzialmente criminogeni”. Lo dichiara in una nota l’On. Souad Sbai, Deputata Pdl, che aggiunge: “Non ci si vuole mettere in testa che i responsabili vanno puniti con la durezza che merita il loro becero integralismo domestico e che le giovani vanno messe al riparo da episodi del genere. Faccio appello ai servizi sociali affinché allontanino la ragazza dalla famiglia”



Da Lampedusa a Milano per stuprare due donne
Un tunisino la settimana scorsa ha ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi. Ora è accusato, insieme ad altri extracomunitari che erano con lui, di rapina, violenza sessuale e sequestro di persona di due ragazze romene. Lui si difende: "Scambiato per un altro"
il Giornale, 21-04-2011
Paola Fucilieri
Milano - La settimana scorsa ha ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi all’ufficio immigrazione della questura. Ne aveva pienamente diritto essendo di nazionalità tunisina ed entrato in Italia tra il 1° gennaio e il 5 aprile da Lampedusa, dove era stato regolarmente fotosegnalato. Purtroppo il permesso di soggiorno non tutela dal compiere azioni illecite e immorali, anche se chi lo possiede, soprattutto se per motivi eccezionali - come quelli previsti dal recente decreto governativo - dovrebbe comportarsi nel miglior modo possibile nei territori dove può circolare.
Invece il nostro tunisino, appena ottenuto il soggiorno, non ha esitato a infrangere la legge, a comportarsi da delinquente. Adesso, infatti, è in giro per Milano (si spera si trovi ancora qui) con una denuncia pesante. È accusato infatti, insieme ad altri extracomunitari che erano con lui, di rapina, violenza sessuale e sequestro di persona di due ragazze romene. E se non è ancora stato arrestato è perché la polizia ferroviaria di Milano, che l’ha fermato e poi rilasciato, sta cercando di accertare nei dettagli come si siano svolti realmente i fatti. Sui quali le giovani romene pare non abbiano invece alcun dubbio.
Questa brutta storia è accaduta martedì in uno scalo ferroviario milanese. Un gruppo di extracomunitari nordafricani ha adocchiato due ragazze romene e ha cominciato a importunarle. Dalle parole si è passati ai fatti, le ragazze sono state trascinate con la forza in una zona isolata dello scalo e qualcuno tra gli extracomunitari ha abusato di loro dopo averle rapinate di un telefonino. A quel punto il gruppo di giovani stranieri se n’è andato lasciando le due donne in preda alla disperazione. Le ragazze, dopo essersi riprese, hanno cercato la polizia nelle vicinanze dello scalo e, quando hanno trovato gli agenti della Polfer, hanno raccontato quel che era accaduto poco prima.
I poliziotti hanno cominciato a cercare il gruppetto di stupratori descritto dalle due donne e li hanno trovati e fermati. Tuttavia le ragazze, che hanno scagionato alcuni dei giovani nordafricani, avrebbero riconosciuto invece con certezza il tunisino e altri nordafricani che erano con lui come i loro stupratori.
Il ragazzo si sarebbe difeso, negando ogni tipo di responsabilità, sostenendo che le due romene lo hanno scambiato per un altro e mostrando proprio il permesso appena ottenuto, sul quale sono partiti immediatamente i controlli con la questura per avere riscontri sull’autenticità del documento rilasciato a Milano. E che è risultato essere proprio uno dei permessi di soggiorno che il governo ha deciso di concedere agli stranieri - profughi e migranti - sbarcati a Lampedusa nelle scorse settimane. Sarebbe la parola delle due donne contro la sua, visto che anche gli altri extracomunitari non hanno ammesso nulla. Così il tunisino, per il momento, è stato semplicemente denunciato. E nel frattempo è libero. E con un permesso di soggiorno valido sei mesi in tutto il territorio dell’Unione europea.

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