Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

18 aprile 2014

Nuove norme per i migranti
Vietate le operazioni di respingimento in alto mare
L'Osservatore romano, 18-04-14
STRASBURGO, 17. Con 528 voti a favore, 46 contrari e 88 astensioni, il Parlamento europeo ha approvato ieri le nuove regole per la ricerca e il salvataggio dei migranti in mare e per definre i modi in cui gli uomini in servizio nelle operazioni maritti- me della Frontex dovranno trattare le persone soccorse.
Le nuove regole, già informalmente concordate dai negoziatori del Parlamento e del Consiglio europeo, dovrebbero entrare in vigore prima dell'estate e rientrano nelle azioni indicate dalla task force dell'Ue per il Mediterraneo, istituita dopo la tragedia dei 3 ottobre dello scorso anno al largo delle coste di Lampedusa (366 migranti morti). «Di recente abbiamo assistito a troppe tragiche perdite di vite nel Mediterraneo — ha commentate il commissario Ue agli Affari interni, Cecilia Malmström — e avere norme chiare e vincolanti su individuazione, ricerca e salvataggio, e sbarco, aiuterà a prevenire altre tragedie». Secondo il relatore, Carlos Coelho, le norme approvate «permetteranno alla Frontex di reagire in maniera piú efficace per prevenire le morti in mare, conciliando cosi la necessita di garantire la sicurezza con il dovere di proteggere i diritti umani».
In base al regolamento, il piano operativo che disciplina le operazioni di sorveglianza alle frontiere coordinate dalla Frontex deve comprendere le procedure per garantire che le persone bisognose di protezione internazionale, le vittime della tratta di esseri umani, i minori non accompagnati e altre persone bisognose siano identificati e ricevano un'assistenza adeguata. Eventuali misure coercitive potranno essere adottate solo dopo l'identificazionc dei migranti (le norme d'identificazione sono obbligatorie, mentre quelle di esecuzione sono facoltative).
I parlamentari europei hanno inasprito le regole per garantire il rispetto dei principio di «non respingimento», in base al quale le persone non possono essere rimpatriate in Paesi ove sussiste il rischio di persecuzioni, torture o altri danni gravi.
Tutte le operazioni di respingimento in alto mare saranno vietate. Le guardie di frontiera potranno solamente avvertire il natante e ordinargli di non entrare nelle acque territoriali di uno Stato membro.
Ora il progetto di regolamento dovrà essere formalmente approvato dal Consiglio dell'Ue. Quando, il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, entrerà in vigore, sarà direttamente applicabile in tutti gli Stati membri.



Assegni familiari. Strasburgo condanna l’Italia: "Stranieri discriminati"
La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo accoglie il ricorso presentato da un immigrato tunisino e dall'Inca. “Non c’erano ragioni valide per distinguere tra italiani e stranieri”
stranieriinitalia.it, 18-04-14
Roma - 17 aprile 2014 - Non riconoscere una prestazione assistenziale a un immigrato solo perché non è italiano è una discriminazione. Quindi è illegittimo.
È uno dei punti forti di una sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo che l’8 aprile, dopo tredici anni di battaglie legali, ha condannato l’Italia a pagare quasi ventimila euro a Bouraoui Dhahbi, immigrato di origine tunisina. Padre di quattro figli, in Italia si era visto negare in tre gradi di giudizio il diritto all’assegno per i nuclei familiari numerosi, ora gli dovranno essere pagati gli arretrati,con gli interessi e anche i danni morali.
Dallo scorso settembre gli immigrati titolari di un permesso Ce per lungo soggiornanti possono accedere all’assegno, ma la sentenza potrebbe aprire scenari ancora più favorevoli. “Afferma in modo inequivocabile che il solo mancato possesso del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti non è un argomento sufficiente per negare ad un lavoratore extracomunitario le prestazioni di welfare” sostiene il patronato Inca, che insieme ai suoi legali di fiducia ha promosso il ricorso di Bouraoui Dhahbi.
“La nazionalità del signor Dhahbi è stato l’unico criterio usato per escluderlo dall’assegno” spiega la Corte Europea per i diritti dell’Uomo in un comunicato. “Quindi, dal momento che solo considerazioni molto pesanti possono giustificare una differenza di trattamento basata solo sulla nazionalità e nonostante le ragioni di budget avanzate dal governo italiano le restrizioni poste contro il signor Dhahbi sono state sproporzionate”.
Nella sentenza si legge che la differenza tra italiani e stranieri nell’accesso alle prestazioni assistenziali “è discriminatoria se non si poggia su una giustificazione oggettiva e ragionevole” e che “le autorità (italiane ndr) non hanno dato motivazioni ragionevoli che potessero giustificare la esclusione da certi benefici di legge degli stranieri legalmente inseriti in Italia”. Le preoccupazioni per la tenuta dei conti pubblici sono legittime, ma non bastano a giustificare una discriminazione.
Inoltre, va considerato che “il lavoratore tunisino non era uno straniero soggiornante sul territorio per un breve periodo, o in violazione delle leggi sull'immigrazione”. E “non apparteneva nemmeno alle categorie di persone che non contribuiscono al finanziamento dei servizi pubblici, per i quali uno Stato può avere delle buone ragioni per impedire loro di accedere ai servizi sociali pubblici, quali sono i programmi di sicurezza sociale, di prestazioni pubbliche e di cura”.
Di qui la decisione di condannare lo Stato Italiano, che con  il suo comportamento verso Dhahbi ha violato principi ribaditi dalla Convenzione Europea dei diritti umani, come il diritto a un giusto processo, il divieto di discriminazioni e il rispetto della vita privata e familiare.
Secondo l’avvocato Vittorio Angiolini, che ha curato il ricorso, la sentenza “censura una discriminazione che colpisce la famiglia e i minori e non fa male solo a chi la subisce, ma anche alla società che la infligge o la tollera, coltivando nel proprio seno, con la disuguaglianza, il germe della divisione”.
“La decisione di Strasburgo conserva integro il valore di un’affermazione del principio di uguaglianza che difficilmente potrà essere ignorato dalle nostre istituzioni” sottolinea Claudio Piccinini, coordinatore degli uffici immigrazione dell’Inca. “Porta con sé la conseguenza che in materia di immigrazione lo Stato italiano non può mostrarsi reticente di fronte ad una domanda di tutela delle persone straniere che chiedono semplicemente più integrazione e maggiore coesione sociale; che sono i principi fondanti dell’Unione europea”.



Vogliono andare in Europa, ma da Israele li portano in Cambogia, Thalilandia o Vietnam
Pubblichiamo questo articolo tratto dal giornale on line Popoli, il mensile internazionale dei gesuiti italiani. Le restrizioni del governo di Gerusalemme. Nelle mani dei trafficanti israeliai, eritrei, sudanesi. Sei mila dollari a persona per chi fugge da Eritrea, Somalia e Sudan
la REpubblica, 17-04-2014
ROMA - Sempre più profughi che cercano di fuggire da Israele verso l'Europa e l'Australia, vengono dirottati da trafficanti senza scrupoli in Cambogia, Thailandia e Vietnam. A denunciarlo è Alganesh Fessaha, eritrea naturalizzata italiana, responsabile dell'Ong Gandhi, che da sempre si occupa dei flussi migratori che dal Corno d'Africa si dirigono a Nord. "Il fenomeno è ancora limitato, ma sta velocemente prendendo piede - spiega Alganesh - e va bloccato prima che assuma dimensioni incontrollabili".
La nuova legge israeliana sui migranti illegali. La nuova rotta è stata "inaugurata" da pochi mesi, subito dopo l'approvazione della nuova legge sull'immigrazione da parte di Israele il 10 dicembre 2013. La normativa prevede l'incarcerazione per un anno per gli immigrati illegali e, al termine della detenzione, il rimpatrio. La legge ha messo in allarme gli stranieri presenti nel Paese. E, in particolar modo, gli eritrei, per i quali il rimpatrio significherebbe ritornare sotto il controllo di un regime particolarmente duro, con il rischio di essere deportati in campi di concentramento e di subire torture.
Seimila dollari ai trafficanti israelliani. Così una cinquantina di loro, in Israele da alcuni anni ma senza permesso di soggiorno, hanno deciso di affidarsi a trafficanti israeliani. Questi hanno promesso agli immigrati (che hanno pagato circa seimila dollari) di portarli in Europa o in Australia. Invece li hanno imbarcanti su voli verso Cambogia, Thailandia e Vietnam. "Se Cambogia e Thailandia li hanno accolti - continua Alganesh -, il Vietnam li ha espulsi e ora si trovano all'aeroporto in attesa di sapere dove possono essere mandati. Io continuo a chiedere ai Paesi occidentali di creare corridoi umanitari che permettano a questi ragazzi di emigrare senza rischi. Ma su questo fronte non succede nulla e i ragazzi continuano non solo a essere ingannati da trafficanti senza scrupoli, ma anche a rischiare la vita".
Lungo la rotta classica migliaia di morti. Intanto, dal Corno d'Africa eritrei, somali, etiopi e sudanesi continuano a fuggire. La maggior parte di essi segue la rotta classica che, attraverso il Sudan, li porta in Libia e poi in Italia. "È una rotta molto battuta - continua Alganesh - e i trafficanti sono perlopiù eritrei in combutta con sudanesi e libici. Moltissimi migranti muoiono nella dura attraversata del deserto. Altri nel tratto di mare tra la Libia e Lampedusa. Non ci sono stime dei morti, ma sono nell'ordine delle migliaia".
Sembra arrestarsi il flusso verso il Sinai. A scoraggiare i migranti, più che il muro costruito da Israele al confine con l'Egitto, è il pericolo del rimpatrio e il rischio di cadere nelle mani dei trafficanti beduini. "Negli ultimi mesi - spiega Alganesh - l'esercito egiziano ha condotto operazioni su vasta scala per riportare l'ordine nel Sinai. Al Cairo non interessava reprimere il traffico di esseri umani quanto contenere la minaccia del fondamentalismo islamico. Le operazioni hanno portato al bombardamento di alcune basi dei beduini e all'arresto di molti di essi. Quindi anche il traffico di esseri umani ne ha risentito parecchio. Attualmente non più di una trentina di migranti sono nelle mani dei beduini. Mentre 150 sono nelle carceri egiziane con l'accusa di immigrazione illegale".
Le alternative: dalla Nigeria in Sud America o negli Usa. Chiuse le porte del Sinai, rischiosa la rotta verso la Libia, i migranti cercano alternative. Piccoli gruppi si stanno spostando dall'Est verso l'Ovest dell'Africa. L'obiettivo è raggiungere la Nigeria e da lì il Sudamerica e poi gli Stati Uniti. "Sono ancora piccoli gruppi - conclude Alganesh -, ma stanno tracciando un nuovo percorso. La disperazione non può essere arginata. Chiusa una rotta, se ne cerca un'altra".
* Articolo tratto da Popoli il mensile dei gesuiti italiani


 

«Espulso», ma è nato in Italia
il Manifesto, 17-04-14
Carlo Lania
Ma che ci vado a fare in Bosnia? Lì non conosco nessuno, non parlo neanche il bosniaco. Mi sentirei perso. L’unica cosa che potrei fare è cercare di tornare al più presto qui, in Italia». Parla bene la nostra lingua Jovanovic, e non potrebbe essere altrimenti. Il nome, Jovanovic Dali­bor, è infatti l’unica cosa che lo identifica come uno straniero, perché per il resto è italianissimo. E’ nato 23 anni fa ad Aversa, da genitori bosniaci fuggiti in Italia. Da dicembre scorso, però, è rinchiuso nel Cie romano di Ponte Galeria, in attesa di essere espulso in Bosnia. Una decisione che non riesce a capire, visto che è nato qui da noi, ma che soprattutto lo spaventa molto. «Davvero non conosco nessuno, non saprei proprio da dove cominciare».
Il caso di Jovanovic è un paradosso, una delle tante assurdità che è facile trovare nei centri di identificazione ed espul­sione in cui vengono rinchiusi gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno e in attesa di essere rispediti come pacchi nel proprio paese. Già, per chi ce l’ha un paese dove tornare. E non è il caso di Jovanovic. Intendiamoci. Non che lui i suoi errori non li abbia fatti. Nel 2011 la polizia lo ha sorpreso mentre cercava di svaligiare un appartamento a Villaricca, grosso centro di 30 mila abitanti in provincia di Napoli. I due anni successivi li ha passati a Poggioreale, da dove è uscito il 17 dicembre dell’anno scorso. Con un biglietto di sola andata per la Bosnia, frutto di un ordine di espulsione deciso dal tribu­nale di sorveglianza di Napoli. Nel frattempo, la tappa intermedia in attesa di essere imbarcato, è il Cie Ponte Galeria, dove si trova rinchiuso ormai quattro mesi. «Un’assurdità», commenta l’avvocato Serena Lauri che assiste Jovanovic. «Fa paura pen­sare che ha decidere l’espulsione sia stato un tribunale di sorveglianza: dove dovrebbe essere espulso visto che è nato qui?», è la domanda che si pone anche il legale. «La corte di Strasburgo ha più volte condannato gli Stati che hanno espulso gli stranieri residenti da lungo tempo e gli immigrati di seconda generazione, anche a seguito di reati», prosegue l’avvocato. Il principio seguito è quello che l’esigenza di tutelare la società da un presunto pericolo non è tale da giustificare la lesione del diritto di mantenimento dell’unità familiare. «Tanto più nel caso di Jovanovic, visto che la sua famiglia risiede in Ita­lia», conclude l’avvocato Lauri.
A complicare ulteriormente le cose ci si è messa nei giorni scorsi l’ambasciata bosniaca a Roma. Alla richiesta di identifi­care Jovanovic in modo da poter poi procedere con l’espulsione, l’ambasciata ha dato la sola risposta possibile: ha negato che il giovane sia bosniaco, come infatti è, e reso impossibile di conseguenza il rimpatrio.
A questo punto la situazione, già paradossale, si è bloccata. Che fare di Jovanovic? La risposta più sensata sarebbe quella di rimetterlo in libertà, tanto più che ha già pagato il suo conto con la giustizia e quindi non avrebbe alcun motivo per essere trattenuto ulteriormente. Già, ma così sarebbe troppo semplice per la burocrazia che governa i Cie. E così pochi giorni fa il giudice di pace ha prorogato di altri due mesi il trattenimento di Jovanovic a Ponte Galeria. Privato della libertà per altri sessanta giorni.
E’ chiaro che in questo modo, di proroga in proroga, Jovanovic rischia di passare a Ponte Galeria fino a un anno e mezzo, vale a dire il tempo massimo che per legge uno straniero può essere trattenuto in un Cie prima di essere liberato. Una carcerazione dal sapore oltremodo ingiusto.
L’avvocato Lauri ha chiesto al giudice di pace una sospensiva dell’espulsione, che se accettata consentirebbe a Jovanovic di raggiungere Napoli, dove vive la madre. Nel frattempo è stata anche avanzata al tribunale di Roma una domanda di riconosci­mento dello status di apolide, cosa che permetterebbe a Jovanovic di poter finalmente regolarizzare in maniera definitiva la propria situazione. «Sarebbe una cosa bellissima», commenta il giovane. «Con il passato ho chiuso. Il carcere mi ha cambiato, mi ha fatto capire i miei errori e adesso l’unica cosa che voglio è trovarmi un lavoro. Se solo riuscissi a uscire da qui».



Jules: “Mi chiamavano negro, ero pieno di rabbia. Poi ho scoperto la breakdance”
Corriere.it, 18-04-2014
Massimo Andreozzi
Jules è un tipo determinato, molto curato e dal look originale. Un giovane senegalese istruito e dai modi gentili, che, tra mille difficoltà, è riuscito a conquistare una posizione e a realizzare il suo sogno nel cassetto, dando così valore alle sue radici.
    Jules Dossou è nato a Dakar nel 1983.
La madre, sarta, separata dal marito e soprannominata “la bianca” per il suo stile europeo e poco conforme, in seguito alla tragica morte del secondo figlio in un incidente decide di lasciare il Senegal: assieme al piccolo Jules, nel 1989 si sposta a Roma con regolare permesso di soggiorno. A dispetto delle previsioni, la vita nella capitale non si rivela facile. La madre lavora di rado nelle sartorie, trovando più facilmente impiego come colf o badante e venendo il più delle volte retribuita in nero. Jules viene dapprima mandato in un collegio, per poi cambiare continuamente quartiere e scuola.
I soldi sono pochi, la madre è spesso esausta e la scuola per un bambino “di colore” può essere una dura prova.
    «Alle elementari venivo chiamato “negretto”. Alle medie e alle superiori invece erano continue scazzottate. Se non avessi mostrato di essere forte mi avrebbero messo i piedi in testa. Ero sempre io il “diverso”».
C’è stato un episodio in particolare che ha fatto scattare in Jules la molla.
    «Avevo 13 anni e dopo gli allenamenti di calcio stavo tornando a casa con un mio amico. Ci stavamo dirigendo verso la macchina nel parcheggio quando due skinhead, alticci, mi si sono avvicinati. Avevo il borsone sulle spalle e il più ubriaco dei due mi ha dato senza motivo un forte schiaffo dicendomi “sporco negro, che cosa sei venuto a vendere qui?”. Ero sotto shock e il mio amico mi ha difeso, ma ne ha prese talmente tante che si è rialzato con il volto tumefatto. Siamo saliti in macchina e il più aggressivo dei due, prima che potessimo andarcene, si è lanciato sul parabrezza, sfondandolo con un calcio».
Jules non dice nulla alla madre, né denuncia l’accaduto. Dentro di lui però inizia a crescere la rabbia. Non riesce a giustificare tutto quell’odio.
    «Capii che era importante farmi rispettare, che non potevo stare zitto e subire. E soprattutto che non potevo aggiungere preoccupazioni a mia madre. Me la dovevo cavare da solo».
Così Jules tira fuori il meglio di sé. Si diploma come grafico pubblicitario e, dopo aver lavorato in diverse tipografie, viene assunto a tempo indeterminato dall’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato.
    «Mia madre, quando ha saputo della mia assunzione, ha pianto. Dopo tante sventure finalmente anche io, straniero, potevo avere un posto fisso ed importante. Questo l’ha ripagata di tante sofferenze. Sono 13 anni che lavoro lì. È stata una grande fortuna, anche perché ho così potuto fare la domanda per la cittadinanza italiana».
Ma la vera passione di Jules è la breakdance.
    «Ho scoperto la breakdance in TV quando ero adolescente e me ne sono subito innamorato, frequentando corsi per imparare. Quando avevo 21 anni ho conosciuto Fabio, un breaker che è divenuto mio maestro ed uno dei miei più grandi amici. Lui mi ha introdotto alla vera cultura hip hop, che è entrata nella mia vita in modo prepotente. Ha trasformato la mia rabbia in stimolo creativo e il ragazzo introverso e pessimista che ero in un ballerino di livello. Ho avuto la possibilità di fare tante esperienze e di viaggiare grazie a lui».
Jules inizia così a lavorare per eventi di breakdance, poi si esibisce in vari teatri italiani ed in tv, viaggiando e trasformando la passione in professione.
    «Oggi ho dodici allievi. Loro sono il risultato di cui vado più fiero nella mia vita. Insegnare ti arricchisce come nessun’altra cosa».
Due sono stati i viaggi più importanti nella vita di Jules, entrambi necessari nel processo di valorizzazione della sua identità. Il primo è stato il suo ritorno in madrepatria, nel 2011. «Non ero mai tornato in Senegal prima di allora. In quei 15 giorni ho ripreso contatto con le mie origini. È stato emozionante. Ero un bambino quando ho lasciato il paese, ma ho riconosciuto gli odori. Ricordavo però uno stato più florido. Ho trovato invece tanta povertà, igiene scarsa e corruzione ovunque. Ma è stato comunque un viaggio della memoria e della coscienza. Un’esperienza che ha lasciato un segno indelebile». Jules sente dentro di sé quella “pulsazione africana” che lo ha naturalmente condotto all’interno del mondo hip hop. Diventa quindi fondamentale per lui fare un altro viaggio, questa volta verso la città in cui la cultura hip hop ha visto i suoi natali: New York.
    «Ho sentito la necessità di andare lì per toccare con mano il contesto in cui tutto ciò che ho imparato nel corso degli anni aveva preso forma. Ho girato per Harlem e per il Bronx».
Jules, a ottobre scorso, ha camminato per la prima volta sugli stessi marciapiedi dove negli anni ’80 tutto è iniziato.
    «È stato molto emozionante stare a contatto con i breakers afroamericani che vivono lì, ascoltare le loro storie difficili che ti fanno sentire meno solo nelle tue sfortune. Il mio viaggio a New York ha chiuso il cerchio iniziato con il mio viaggio in Africa. Un viaggio unico dalle mie radici alle mie passioni».



Fuggito dalla fabbrica che lo sfruttava, ora Rashid rischia di finire in strada
La storia di un giovane del Bangladesh costretto a lavorare gratis in un’azienda tessile del vesuviano. Compirà 18 anni il 6 maggio e non potrà più vivere con l’associazione che lo aveva accolto. I tutori scrivono un’istanza al comune di Portici
Redattore sociale, 18-04-14
NAPOLI - Il Comune di Portici può salvarlo, ma dice che non ci sono fondi. Rashid (nome di fantasia) originario del Bangladesh, 18 anni a maggio, fuggito dallo sfruttamento in una fabbrica tessile del vesuviano gestita da italiani e bengalesi, rischia di ritornare nella spirale dell’abbandono e dello sfruttamento se i servizi sociali del comune di Portici, che hanno attualmente in carico il minore straniero (in Italia senza genitori), non decidono di continuare ad ospitarlo nel Gruppo Appartamento Grecale, sito in Napoli, al compimento del diciottesimo anno d’età, ovvero il prossimo 6 maggio. Lassaad Azzabi, tutore legale del minore e Edlir Sina, coordinatore Gruppo Appartamento Grecale, paventano il peggio poiché l’assistente sociale del comune di Portici, che si sta occupando del caso, ha detto loro che non ci sono i fondi necessari per ospitare ancora Rashid.
Azzabi e Sina, entrambi impiegati presso la cooperativa sociale Dedalus, specializzata nei programmi di inserimento per minori stranieri non accompagnati, hanno presentato un’istanza al dott. Raffaele Cuorvo, assessore Politiche Sociali del Comune di Portici per richiedere il prolungamento dell’accoglienza del minore. “E’ fondamentale sostenerlo in questa delicata fase di inserimento lavorativo, anche solo per alcuni mesi, in modo da fargli completare il percorso intrapreso e raggiungere gli obiettivi prefissati (licenza media e inserimento lavorativo), scongiurando il pericolo di fare ritorno in un contesto di sfruttamento e precarietà esistenziale”, si legge nell’istanza.
E’ emblematica la storia di Rashid: giunto dal Bangladesh a Napoli nel giugno 2013 è stato intercettato da alcuni connazionali che gestiscono, insieme ad italiani, una fabbrica di tessile nel vesuviano. “Ci ha raccontato Rashid che lavorava 12, 14 ore al giorno - spiega Lassad Azabi - senza percepire alcuna paga, in cambio di cibo e di una brandina. Con lui lavoravano 15 bengalesi, tra cui altri minorenni (la fabbrica è ancora aperta). Rashid è fuggito e ha vagato per alcuni giorni, per poi rivolgersi alla polizia che l’ha affidato ai servizi sociali. È stato tradito dagli adulti già troppe volte: nel suo paese da cui è fuggito per la povertà estrema, qui in Italia, sfruttato in fabbrica, e dove rischia di esserlo nuovamente e definitivamente. Il minorenne, accolto nel Gruppo Appartamento, grazie al sostegno economico del comune di Portici, ha intrapreso con grandi risultati il percorso di inserimento sociale. Abbiamo lavorato tanto in quest’anno per fargli acquistare fiducia nel prossimo e nel futuro, ma è un ragazzo fragile e non è ancora pronto per essere lasciato solo”.
Il percorso scolastico di Rashid è caratterizzato da un ottimo apprendimento della lingua italiana e da un inaspettato rendimento complessivo. Inoltre ha già avviato un primo tirocinio lavorativo finanziato da Italia Lavoro presso una nota pizzeria a Pozzuoli, che si concluderà il 2 maggio 2014 e i risultati sono stati tanto positivi che Italia Lavoro ha già finanziato un nuovo tirocinio che partirà il giorno successivo e si protrarrà fino a novembre 2014. Ma il tirocinio prevede solo un rimborso spese, insufficiente al ragazzo per vivere da solo. A fine giugno, Rashid conseguirà la licenza media, a novembre concluderà il suo secondo tirocinio presso la stessa pizzeria a Pozzuoli e nei successivi 4/5 mesi i mediatori sono convinti che riuscirà a raggiungere una piena autonomia abitativa ed economico-lavorativa.
La storia di Rashid squarcia il velo di un fenomeno sempre più grave: lo sfruttamento in fabbrica dei ragazzi stranieri non accompagnati e l’aggravamento della loro condizione al conseguimento della maggiore età. “Quest’anno, solo tra i minorenni non accompagnati che ho seguito personalmente - continua Azabi - ne ho incontrati, una volta diventati maggiorenni, una quindicina a vendere fiori in strada, e so di alcuni che sono tornati in fabbrica dai loro sfruttatori. Dopo tutto l’impegno profuso da parte dei ragazzi e degli operatori sociali e i soldi spesi da parte dello Stato nell’accoglienza dei minori non accompagnati, è un assoluto fallimento non continuare a sostenerli, benché maggiorenni, finché il loro percorso di inserimento lavorativo sia concluso. Col rischio che finiscano nelle maglie della malavita e che rappresentino in futuro una spesa ancora più onerosa per tutti”. (Alessandra del Giudice)

 

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