Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

16 marzo 2010

Quei figli incappucciati e la crisi dei padri
Corriere della sera 16-03-2010
di ERALDO AFFINATI
Alla Magliana, a Roma, nel punto in cui il Tevere da secoli disegna la sua curva stretta a gomito verso il mare, i ragazzini che per passatempo, noia o disperazione malcamuffata, vallo a capire, colpiscono i bengalesi, li conoscono tutti. Nati nei primi anni Novanta, cresciuti fra Villa Bonellì e il vecchio Cinodromo, frequentano, senza infamia e senza lode, le scuole della zona; il pomeriggio si riuniscono in Piazza Fabrizio De André, proprio dietro il bar «Brothers», nomi antifrastici quant'altri mai, dove è avvenuto il raid di domenica scorsa, l'ultimo di una brutta serie. Non sono più i tempi del Freddo e del Dandi, le cui gesta hanno contribuito a illustrare la storia del quartiere: quelli erano rapinatori veri e propri, animati da un delirio di potenza che a un certo punto li isolò dal consorzio, alla maniera di diavoli scaltri. Al contrario, questi adolescenti incappucciati che agiscono in gruppo, vigliaccamente,quindici contro uno, quasi avessero paura di misurarsi con se stessi, sono, in tutto e per tutto, figli nostri. Ce li dovremmo prendere in carico, sapendo che la soma è pesante perché ce la siamo meritata. Sarebbe troppo facile liquidarli alla stregua di teppistelli di periferia, schegge impazzite di chissà quali cataclismi, come se fossero androidi caduti dal cielo. Forse dovremmo chiederci se dietro le violenze di cui si fanno vanto non si nasconda una crisi di valori etici che riguarda tutti noi: nell'aria, inutile negarlo, esiste un'ostilità nei confronti di chi, in quanto straniero, sembra minacciare le fragili identità nelle quali ci crogioliamo. L'adolescente armato di bastoni che oggi assalta il fast food o il phon center gestito dagli immigrati, oltre a riportarci indietro nel cuore di tenebra del Novecento, è anche il frutto bacato, ma conseguente, dei mugugni sotterranei che numerosi adulti riservano alle presenze extracomunitarie. Conosco molti ragazzi bengalesi: sono venuti in Italia per sfuggire alla povertà delle campagne intorno a Dacca e trovare un lavoro che possa  ripagare il prezzo dei sacrifici sostenuti dalle famiglie. Hanno una grande voglia di imparare. Assomigliano a spugne secche pronte ad assorbire acqua. Fra qualche anno faranno il pane e la pizza, venderanno ombrelli e fiori. Adesso molti di loro hanno paura a camminare in strada da soli. Spezzare il sorriso che li alimenta è un crimine forse grave quanto quelli di cui si rese protagonista il Libano, il famigerato capobanda della Magliana. Eppure questi Rashedur, questi Robayet, questi Shomran, prima ancora di diventare grandi, stanno paradossalmente indicando il lavoro umano che noi dobbiamo ancora compiere: il confronto autentico con loro. Troppo spesso restiamo qui, al palo, frenati dal timore di perdere chissà quali privilegi, in nome di una sicurezza che sempre più si configura nella patetica «filosofia del condominio» i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti.


Bengalesi e residenti, ora è scambio di accuse

Corriere della sera, 16-03-2010
Rinaldo Frignarli
«C'è chi gira con le spranghe». «Gli stranieri ci scippano». Il sindaco invitato al corteo
Per qualcuno del quartiere «si è trattato solo di una lite, con i soliti ragazzini. Il razzismo non c'entra. Sono quelli che si vedono a piazza De André». Per altri invece il raid alla tavola calda dei bengalesi in via Murlo è solo «l'ultima azione di un gruppo che terrorizza la Magliana». Voci contrapposte di abitanti e commercianti della zona, mentre qualcuno mugugna proprio in via Murlo quando i colleghi dei tre immigrati feriti a bastonate domenica sera da un gruppo di teppisti attacca lo striscione con la scritta «No al razzismo». «È un'istigazione - dicono alcune residenti - sono gli stranieri che ci aggrediscono, ci scippano, che di notte girano ubriachi». Ieri mattina via Murlo è stata anche teatro di un battibecco fra bengalesi e romani. Strascichi dell'assalto sul quale indagano i carabinieri. Intanto per oggi il prefetto Giuseppe Pecoraro ha convocato un comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza «per valutare con attenzione quanto accaduto alla Magliana e adottare eventualmente misure». Gli investigatori hanno compiuto numerose perquisizioni e una decina di giovani del quartiere, sospettati di aver preso parte all'azione, sono stati condotti in caserma e interrogati fino a notte fonda. Fanno parte di quella che loro stessi chiamano «a' commitiva». Anche i bengalesi feriti, Aminul Islam, 32 anni, il più grave con 20 giorni di prognosi per la frattura del naso, Faruk Hossein e Miah Mahbub, di 34 e 42 (guariranno in 15 e 10 giorni), sono stati ascoltati nuovamente dai carabinieri della
compagnia Eur. Non si esclude che la banda di teppisti responsabile del raid in via Murlo possa aver commesso altre aggressioni sempre ai danni di cittadini stranieri alla Magliana. Alcuni immigrati  ad esempio, si sono presentati dagli investigatori raccontando di non aver mai denunciato rapine e intimidazioni per paura di ritorsioni Lo stesso presidente del XV Municìpio, Gianni Paris, ha ribadito che «una banda terrorizza gli stranieri. Si tratta di giovani che frequentano alcuni locali e girano di notte con le spranghe inneggiando a ideologie del passato», aggiungendo che nella zona c'è una sorta di «omertà degli abitanti». «Ma questo non è un quartiere xenofobo, il raid è stato un episodio odioso ma evitiamo strumentalizzazioni
politiche che potrebbero agevolare qualche malavitoso abituale», ha risposto il vicesindaco Mauro Cutrufo, mentre per la candidata del centrosinistra alla presidenza della Regione, Emma Bonino «l'assalto ai bengalesi è una spia allarmante. Dobbiamo reagire». Oggi alla Magliana, alle 17, si svolgerà un corteo dei bengalesi: «Mi farebbe piacere - ha detto il proprietario della pizzeria dove è avvenuto il raid - se partecipasse anche il sindaco Gianni Alemanno».


Comunità Dal Bangladesh a Roma per lavorare e integrarsi

il Giornale,16-03-2010
La comunità bengalese di Roma è perfettamente integrata nella città, così come avviene in altre realtà italiane e in generale nel resto del mondo. Non c'è ancora un censimento preciso, ma gli immigrati provenienti dal Bangladesh sono circa diecimila e svolgono abitualmente lavori di assistenza domestica, oppure, sono riusciti ad aprire una loro attività, come quella fiorente dei call center per stranieri. Un gruppo di bengalesi poi è conosciuto come «aiutista» dei risciò che fanno il giro turistico della città. La comunità non ha mai dato problemi: praticamente nessun caso di criminalità, così come mai a Roma s'è registrato un caso di razzismo reale nei confronti di un bengalese. La loro integrazione, infatti, ha annullato anche la possibilità che gli italiani più intolleranti li abbiano presi di mira. Neanche la religione ha mai rappresentato un problema. La gran parte dei bengalesi pratica un islam (sunnita) moderato. A Roma, tuttavia, ci sono anche diversi cattolici. Una comunità nella comunità: duecento persone che vivono perfettamente a loro agio con i connazionali islamici e altrettanto perfettamente con i cristiani.


Vendono borse finte, ma li trattano come trafficanti

il Fatto Quotidiano, 16-03-2010
di Federico Gorini e Paola Zanca
Roma, quartiere Magliana. Sabato scorso, una ventina di incappucciati, armati di mazze e bastoni distruggono un bar gestito da Mohamed Masumia, originario del Bangladesh. Flashback: maggio 2008, un altro quartiere di Roma, il Pigneto. Un gruppo di italiani distrugge tre negozi, sempre gestiti da bengalesi. Quella volta il colpevole si trovò quasi subito, stavolta ci sono solo dei sospetti. A guidare la banda che assaltò le attività commerciali era Dario Chianelli, che si difese mostrando un Che Guevara tatuato sul braccio: non sono razzista, l'ho fatto per un portafogli rubato. Storie che raccontano una faccia di Roma, dove uno su dieci è straniero, ma si ha ancora paura del diverso. Ma c'è un'altra città, che ha imparato a guardarsi dentro. Quella che vi raccontiamo è la storia di tre senegalesi. E del quartiere che li ha difesi. Siamo sempre al Pigneto, periferia est di Roma. Dice lo stesso Chianelli: "Li hanno trattati come bestie. Decideranno i giudici, ma questi non danno fastidio a nessuno. Lavorano per vivere". Per sopravvivere vendono borse contraffatte. Da vent'anni vivono al civico 16 di via Campobasso. Pagano l'affitto. Ma per la Guardia di finanza sono pericolosi criminali. Sono le 14 del 5 ottobre scorso quando due agenti in borghese fermano un cittadino straniero  all'angolo di via Campobasso. Un normale controllo anti-abusivismo, sostengono. Il verbale di quel fermo, però, non esiste. Il fermato è riuscito a scappare: nel giro di pochi minuti, gli agenti raccontano di essere stati circondati da senegalesi armati di coltelli, mazze e bastoni,  che hanno permesso all'uomo di fuggire. Ma quelle armi non sono mai state ritrovate. "Non c'erano armi e bastoni - racconta Antonella Del Pinto, che abita di fronte al civico 16 - Ho visto i senegalesi accerchiare la macchina "civetta" e dare pugni sopra. Ho pensato: 'Si suicidano'". Chissà se per l'umiliazione subita,  alle  16 scatta la rappresaglia. Chi c'era - e l'ha  fotografata   -racconta di blindati, di una ventina di agenti   in   assetto antisommossa,    di caschi e manganelli.  La Gdf dice di aver solo fermato le persone trovate all'angolo    della strada senza documenti. La gente, invece, li ha visti entrare nelle palazzine e portare via tutti i senegalesi che incontravano. "Sono entrati in casa - prosegue Antonella -Ho sentito 'crash' e poi li ho visti uscire con i borsoni". Alla fine finiscono in caserma in 26, ma solo tre di loro vengono arrestati con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Ancora aspettano una sentenza: dovrebbe arrivare il 24 marzo. "Al di là di come si concluderà il processo - spiega l'avvocato Fabrizio Preziosi - il problema è la legittimità di questo tipo di intervento. E come se per gli immigrati esistesse un altro codice di procedura penale: la legge dice che le perquisizioni avvengono su mandato del pm. Esistono casi di urgenza, dove la perquisizione può avvenire su iniziativa della polizia giudiziaria, ma riguarda casi estremi, le armi, la droga: se la uso per le borse contraffatte significa che di quella norma sto facendo un uso strumentale".
Il comitato di quartiere ha presentato un esposto sulle modalità di quell'intervento. Anche alcuni senatori del Pd e dei Radicali hanno presentato un'interpellanza parlamentare e scritto una lettera al prefetto, per fare luce sul comportamento delle forze dell'ordine. Il pubblico ministero Marcello Cascini, che indaga sul caso, ha evidenziato ipotesi di reato, ma l'inchiesta al momento è pendente perchè le parti lese - nonostante abbiamo testimoniato e raccontato la loro versione dei fatti - non hanno sporto querela. Resta comunque aperta la possibilità che alcuni reati vengano perseguiti d'ufficio. Due settimane fa, le forze dell'ordine sono tornate in via Campobasso. Cinque volanti, un furgone e un'unità cinofila. Questa volta è un'operazione antidroga, ma di nuovo si traduce in porte sfondate, borse sequestrate e controlli a tappeto. Di droga neanche l'ombra. Il quartiere anche stavolta ha reagito. Domenica ci sarà un'assemblea pubblica con i ragazzi senegalesi. "Facciamo gli ambulanti, chi per scelta, tanti per necessità - dicono - Non siamo né ladri né spacciatori, cerchiamo solo di tirare avanti onestamente".



L'odio alla Magliana è un romanzo criminale

il Giornale,16-03-2010
Andrea Cuomo
Roma Il nome evoca bande criminali da tenebrosa fiction, odore acre di polvere da sparo, paura, intimidazione: Magliana. Ma oggi il quartiere sotto al livello del Tevere teatro dell'assalto di domenica all'internet point bengalese di via Murlo è una periferia come tante della sterminata altra città. Quella dove tra il bene e il male passa un sospiro, e spesso nemmeno importa a nessuno. Quella che fa notizia solo quando uno straniero viene sprangato e tutti allora a gridare al razzismo: un altro titolo sui giornali, un'altra accorata dichiarazione di condanna, un altro corteo antirazzista.
La periferia di Roma è stata teatro negli ultimi anni di molti assalti a stranieri. Bengalesi, indiani, cinesi. Dietro ogni raid l'etichetta facile del razzismo; molto spesso il sospetto di uno sgarbo, di un regolamento di conti, di una lotta per la stessa fetta di torta. Alle volte un furto, un'estorsione a una vittima facile, che probabilmente non sporgerà denuncia perché non vuole rogne, perché non ha il permesso di soggiorno, perché non parla bene l'italiano. Un romanzo criminale, magari, ma non necessariamente una questione di pelle. Fu così il 24 maggio 2008, quando due negozi di alimentari e un «phone center» del Pigneto, il quartiere sulle rive dei binari, non lontano da Porta Maggiore, un tempo caro a Pasolini e oggi scena di un multiculturalismo per la verità molto «trendy», furono semidistrutti da un commando di giovani dai volti coperti. All'inizio si parlò di assalto neo-nazista. Poi si iniziò a parlare di un nero che faceva parte del gruppo di «mazzettari». Infine si fece vivo il capo del commando, un uomo quasi cinquantenne con un tatuaggio di Che Guevara sul braccio, che prima di costituirsi alle forze dell'ordine trovò il tempo di rilasciare un'intervista a un quotidiano: «Nazista a me? Io sono nato il 1 ° maggio e al nonno di mia moglie i fascisti fecero chiudere la panetteria perché non aveva preso la tessera». Sciorinato il suo curriculum «de sinistra», Dario Chianelli raccontò di un portafogli rubato, di un litigio con un «indiano bugiardo», di una situazione sfuggita di mano. Insomma: una bega tra boss di quartiere risolta come si usa in questi casi, andando alle spicce. «Non c'entra  la xenofobia, c'entra il rispetto». Un codice che in periferia, così come in tutti i luoghi marginali, vale più del colore della pelle. E secondo la cui logica si può allo stesso tempo scambiare due chiacchiere col senegalese che smercia cd taroccati sul marciapiede e rifornisce di ti-toli, e detestare il romeno che poche ore dopo sullo stesso marciapiede si ubriaca.
Insomma, come si fa a distinguere la xenofobia dalla micro-criminalità? Certo, quando si racconta dell'assalto ai romeni sprangati a Tor Bella Monaca nelle ore successive all'omicidio di Giovanna Reggiani, ci sono pochi dubbi. Ma come si fa a capire che cosa passava per la testa dei cinque ragazzi che il 23 marzo 2009 a Tor Bella Monaca tirarono giù da un furgone un pakistano di 35 anni e lo tramortirono a forza di calci e pugni? Che cosa scatenò la furia di sei ragazzini che sempre a «Torbella» il 2 ottobre 2008 accerchiarono e massacrarono un cinese di 25 anni la cui foto con il volto tumefatto su un letto di ospedale fece il giro d'Italia? In genere a far propendere per il gesto xenofobo è una frase: «Tornatene a casa tua!», gridata alla vittima di giornata. Se la sentì rivolgere un bengalese di 23 anni appena sceso da un autobus a Tor Pignattare e pestato da un gruppetto in cerca di portafogli: «Il mio cellulare era troppo vecchio, non gli piaceva. Lo hanno sbattuto per terra», racconterà lo straniero. C'è un pugno di soldi anche alla base dell'aggressione a due nordafricani che nel novembre del 2008 al Trullo, non lontano dalla Magliana, si sentirono chiedere 5 euro per «poter continuare a camminare su quel marciapiedi» da alcuni bulli del luogo armati di cinte e caschi, arrestati poche ore dopo l'assalto. C'è solo l'abissale ignoranza dietro quanto accadde sul bus 59, ancora a Tor Bella Monaca lo scorso 29 settembre: una donna nigeriana che rimprovera una quattordicenne che fuma sul bus, la «pischella» che si infuria, la schiaffeggia e la scalcia. Altro che fiction.




Botta e risposta con Amnesty
LA DIGNITÀ DEI ROM NEI DIRITTI E NEI DOVERI
Il Tempo,16-03-2010
di G. M. COLETTI
Ci rallegra apprendere dalla viva voce di Amnesty che è di nuovo scesa in campo, questa volta, per farci sapere che non vuole lasciare i nomadi a vivere nelle discariche.
Ci rallegriamo nel sentirgli dire chiaro e forte che Amnesty non vuole i rom nelle discariche. Perché le critiche mosse al piano della Giunta Alemanno avevano fatto capire l'esatto contrario.
Quanto alla preoccupazione di sgomberi forzati Amnesty si rincuori: non sono i nomadi a non voler lasciare i campì della vergogna, dove il buonismo dell'era Veltroni li ha fatti vivere in mezzo a cumuli dì rifiuti, in roulotte sgangherate senza acqua luce e gas. Non era la clac a pagamento ad applaudire l'ultima baracca schiacciata sotto i cingoli delle ruspe al Casilino '900 ma i nomadi che davano le spalle gioiosamente ad un passato di decenni di sofferenze, nel campo lager dove non sarebbero sopravvissuti neanche gli animali. Come testimoniano le foto nel dossier dell'Arma dei carabinieri pubblicate da Il Tempo.
Ma evidentemente quelle immagini non devono esssere state abbastanza convincenti. Amnesty nutre ancora dei dubbi. Da una parte dà atto pubblicamente al Comune di Roma, l'unico ad aver affrontato «una situazione così complessa come quella delle migliaia di rom residenti in città». Ma poi insìste nel chiedere di sviluppare il Piano nel rispetto dei diritti umani, come se trasferire i rom nei campi autorizzati, con acqua, luce e gas, fosse una violazione. Amnesty farebbe meglio ad accertarsi da che parte provengano i malumori. La strada l'ha indicata l'assessore alle Politiche sociali Sveva Belviso. «Sono le cooperative sociali che aizzano i nomadi alla protesta - ha detto l'assessore - e che invece di dare una mano, ad ogni sgombero remano contro. Soprattutto quelle che gestiscono la scolarizzazione nei campi tollerati, perché sanno che quando i nomadi saranno trasfe-riti nei campi autorizzati non avranno modo di lavorare in quelle strutture con l'automatismo del passato».
Amnesty giri piuttosto le sue preoccupazioni a chi si oppone al cambiamento, a chi aveva fatto dell'assistenzialismo un lavoro a tempo indeterminato contando sull'immobilismo. D'ora in avanti ogni singolo euro speso nei campi sarà per la sicurezza dei cittadini e per rendere i nomadi autonomi, e non più per mantenere i parassiti.


Botta e risposta con Amnesty
LA DIGNITÀ DEI ROM NEI DIRITTI E NEI DOVERI
Il Tempo,16-03.2010
di R. NOURY
Gentile Direttore, mi riferisco al lungo servizio di Grazia Maria Coletti e Matteo Vincenzoni intitolato "Amnesty vuole i rom nella discarica", pubblicato il 13 marzo.
R ingrazio intanto gli autori per voler credere che Amnesty International rimanga "lontana ideologicamente da logiche politiche ed elettorali" e desidero rassicurarli che l'obiettivo delle critiche mosse al Piano nomadi non è minimamente quello di far restare i rom della capitale nelle invivibili condizioni in cui si trovavano le famiglie trasferite dopo la chiusura del Casilino 900.
Non vogliamo i rom nelle discariche. Chiediamo al Comune di Roma, cui abbiamo dato atto pubblicamente di aver per la prima volta voluto affrontare una situazione così complessa come quella delle migliaia di rom residenti in città, di sviluppare il Piano nel rispetto dei diritti umani internazionalmente riconosciuti.
Nel concreto, questo significa condividere con le comunità interessate le varie fasi del trasferimento senza
ricorrere a sgomberi forzati, garantire un alloggio adeguato, non lasciare nessuno senza un tetto; significa garantire e migliorare la scolarizzazione, nonostante i tredici nuovi campi saranno più isolati dalla città. Come  cittadini  di  Roma,oltre che come attivisti per i diritti umani, non possiamo che condividere la speranza che chi ha lasciato dopo decenni il Casilino 900 possa ora avere un futuro migliore. In altri campi della capitale vi è grande preoccupazione. Crediamo sia nell'interesse di tutti (dell'amministrazione comunale, di Amnesty International e soprattutto dei rom) che il Piano nomadi possa essere attuato nel rispetto delle norme internazionali assicurando a tutti i rom un futuro di dignità e diritti.



Baby gang sospettata Il Comune riparerà i danni al fast food

Libero Roma,16-03-2010
RITA CAVALLARO
Un gruppo di giovanissimi, baby "bulli che si scaldano per una parola di troppo e che già in passato avrebbero commesso simili reati. Forse forti della consapevolezza di vivere in un quartiere dal quale negli anni '80 la banda della Magliana dettava legge.  È questo l'identikit   dei   ragazzi,   una quindicina in tutto, che domenica notte hanno assalito con bastoni un internet point gestito da bengalesi in via Murlo. Gli  aggressori  hanno fatto irruzione nel bar   Brothers   a volto    scoperto, con  in  pugno gambe di sedie e paletti presi in strada.    Quindi hanno   distrutto tavolini, vetrine e computer e prima di andar via hanno rubato anche alcune centinaia di euro, per poi darsi alla fuga urlando frasi razziste.
Nel corso del raid quattro persone, tra dipendenti e clienti del locale, sono rimaste ferite in modo lieve e medicate al pronto soccorso del San Camillo. Poche ore dopo l'atten¬zione dei carabinieri si era già focalizzata su un gruppo di ragazzini del quartiere, già rei di atti di intolleranza: sono stati ascoltati per ore in caserma e le loro case sono state perquisite alla ricerca di elementi utili a incastrarli. Per ora, nonostante alcuni "riscontri", nessun fermo, ma solo persone "attenzionate", le cui posizioni vengono approfondite dai militari. Gli inquirenti, comunque, escludono la matrice politica del gesto.  «Dobbiamo stabilire chiaramente la matrice di questo atto di violenza anche se, al momento, non ri-teniamo sia un atto politico», ha  spiegato  il  comandante provinciale dei carabinieri, Vittorio    Tomasone.    «Naturalmente è innegabile la deriva dal sapore xenofobo che questa azione ha avuto, ma dobbiamo accertare se questa violenza possa avere avuto la sua origine anche nei giorni passati, magari con liti o screzi non chiariti. Quello che vorrei dire alla    comunità bengalese»,    ha aggiunto il generale  Tomasone, «è di avere fiducia nello Stato e di riferire ciò che hanno visto    o sentito raccontandoci anche se vi siano stati, in passato, momenti di tensione».
Litigi, che, secondo gli abitanti del quartiere, si sarebbero verificati tra giovani della zona e stranieri. «Sono i soliti ragazzini, non è razzismo. Tutto è iniziato con una lite tra ragazzi. Non è per sminuire quello che è successo, ma la storia è stata montata, forse dagli stessi bengalesi», ha detto il cliente di una pasticceria vicino a via Murlo. Della stessa idea anche il titolare di una caffetteria: «Questo non è un quartiere razzista. Io vivo qui da anni e la gente è accogliente. Anche i miei   dipendenti   sono   tutti extracomunitari e sono trattati bene». Di tutt'altro genere le dichiarazioni dei proprietari del bar Brothers. Davanti al locale messo a soqquadro, con le slot machine ancora a terra, i tavolini e le sedie arrivate fin dietro al bancone e in cucina le macchie del sangue di chi è rimasto ferito, i bengalesi hanno affisso uno striscione con su scritto: «No razzismo, italiani e  immigrati uniti per  i diritti».
Il figlio del proprietario dell'internet point ha parlato d'intolleranza e di continui avvertimenti che la sua famiglia aveva già avuto in passato. «Un paio di mesi fa», ha detto il ragazzino di 15 anni, «un italiano minacciò mio padre per strada, nei pressi del bar, dicendogli che avrebbe ucciso me e mio zio, senza dare altre spiegazioni. Per fortuna adesso quest'uomo è in carcere perché ha commesso anche altri reati», ha spiegato. L'estate scorsa, invece, «un gruppo di giovani, probabilmente minorenni», ha riferito, «ha inciso delle scritte sulla carrozzeria dell'auto di mio padre, parcheggiata nei pressi del locale,
con un chiodo, scrivendo negri di m... e infami». Il figlio del titolare del Brothers, comunque, ha precisato: «A scuola non ho mai avuto problemi con nessuno, ma in questo quartiere da sempre c'è un clima di odio xenofobo e in passato altri nostri connazionali sono stati picchiati per questo». Una baby gang, dunque, che da mesi terrorizza il quartiere. Proprio quella su cui si sono focalizzate le indagini dei carabinieri. Ragazzini tra i 15 e i 20 anni che la sera mettono in atto rapine e aggressioni, la maggior parte delle quali ai danni degli extracomunitari. «Sono stato rapinato alle 8 di sera proprio a via Murlo», ha detto Mohammed. «Mi hanno puntato un coltello alla gola e mi hanno preso 50 euro. A un mio amico invece è andata peggio: aveva con sé solo 5 èuro e per questo l'hanno picchiato». Zibonhou, un altro bengalese, ha parlato di «un gruppetto di 15 ragazzini che con la scusa di chiedermi la sigaretta mi sì sono avvicinati e mi hanno minacciato con un coltello».



«Facevo il lavapiatti, ora ho aperto un negozio»
Il Messaggero,16-03-2010
di ELENA PANARELLA
Sono fuggiti dalla miseria, dalle catastrofi naturali, e dalie guerre. Hanno abbandonano il loro Paese di origine per un viaggio senza ritorno, con la speranza (prima o poi) di portare il resto della famiglia «ma solo dopo esserci sistemati», tiene a precisare Ibrhaim, arrivato in Italia alla fine degli anni Novanta. «Sono venuto via dal mio villaggio perché la povertà era tanta - continua Ibrhaim - ho iniziato a lavorare ai semafori, poi sono passato a vendere "fiori, per guadagnare qualche soldo in più e avere la certezza alla fine del mese dì una paga sicura ho fatto il lavapiatti, oggi faccio il venditore ambulante, sono riuscito a prendere una licenza, pago le tasse e ho fatto venire mia moglie e i miei tre figli. Tanti sacrifici, ma sono felice. Ma quando sento storie come quella della Magliana ho paura per il futuro dei miei figli».
L'immigrazione bengalese in Italia, e soprattutto a Roma, dove c'è una forte concentrazione, è un fenomeno abbastanza recente. E' iniziata, infatti, verso la fine degli anni Ottanta, nel tempo la maggior parte di loro, si sono fermata nella Capitale (e per vivere quasi tutti si sono dedicati, al commercio). Oggi la comunità bengalese (una tra le più popolose) sfiora le 27 mila persone, con ottocento attività commerciali di loro proprietà (tra bancarelle e negozi che vanno dall'alimentari all'abbigliamento, dall'internet point al phone center).
«Di questi 27 mila che vivono a Roma, quasi tutti, dopo l'ultima sanatoria sono regolari o almeno hanno una ricevuta di consegna documenti. E non bisogna dimenticare che il 10% sono donne, il 4% sono minori il 2% sono le persone nate in Italia, e un centinaio sono in possesso della cittadinanza così come il proprietario del fast food aggredito domenica», spiega Nure Alam Siddque (detto Bachuj, presidente dell'associazione Dhuumcatu.
Tor Pignattara, San Paolo- Magliana, Tuscolana, Ottaviano, Piazza Vittorio, Tiburtina, Ostia-Acilia, Piazza Sempione-Montesacro, sono i quartieri dove c'è la più alta concentrazione di immigrati bengalesi. Famiglie ben integrate, nella maggior parte dei casi. Dopo l'ultimo attacco a un negozio bengalese, alla Magliana, molti hanno voglia di raccontarsi, storie di vita riuscite che si incrociano con quelle che ancora faticano a trovare un equilibrio: «Tutti i lavori hanno una dignità - si sfoga
Mohamed M. - quando sono arrivato in questa città mi sentivo perso, qualcuno mi ha detto per guadagnare vai fuori dai supermercati, accompagna la gente a posare la spesa nelle macchine e rimetti a posto il carrello così guadagni qualcosa, e così ho fatto, sono diventato come diciamo noi "carrellista". Ho lavato piatti per più di 12 ore al giorno, sempre in piedi, senza mai fermarmi, per 650 euro al mese. Oggi ho aperto un negozio alimentari a Tor Pignattara, con me lavorano i miei figli e mio cognato. Vorrei tanto che le persone che hanno aggredito i miei connazionali e distrutto il negozio alla Magliana, capiscano i sacrifici che facciamo per arrivare ad avere un lavoro vero e che tutte le persone sono uguali». E   c'è   anche chi sì è dato all'agricoltura . Immigrati bengalesi e italiani, insieme, hanno occupato   un   grosso spazio   verde   a Tor Cervara, e hanno bonificato l'area. Dopo la bonifica hanno arato il terreno e seminato. «Sono già uscite le fave, un cibo molto prezioso per noi», spiega Bachu, E poi aggiunge: «Ciascun lotto verrà coltivato esclusivamente con tecniche di agricoltura biologica. Domenica a più di 200 bambini abbiamo fatto vedere come si semina, hanno visitato gli animali, si sono davvero divertiti. Uno spazio verde completamente abbandonato, e oggi recuperato grazie a noi, che aiuta in questo momento di crisi molte famiglie italiane e bengalesi». Sono state costruite 5 recinzioni, che contengono gli animali da cortile, cibati esclusivamente con scarti verdi. L'allevamento avicolo di diverse centinaia di animali, ovvero di galline ovaiole, di polli e dì anatre, permette a una decina di famìglie di soddisfare le esigenze dì sussistenza primaria.



PD:"Gli immigrati sono una risorsa"

Nuovo Oggi Roma e Provincia,16-03-2010
Maria Grazia Stelle
FIUMICINO - Grande partecipazione per l'assemblea pubblica "Le arance stanno marcendo" organizzata dai Giovani Democratici di Fiumicino. Al centro dell'incontro il ruolo e l'integrazione degli immigrati presenti sul territorio. Le arance che marciscono sono quelle calabresi, abbandonate nei frutteti dopo la fuga degli immigrati da Rosamo. Marco Gabizon, responsabile dell'immigrazione dei Gd di Fiumicino, ha evidenziato, riferendo i dati, quanto il lavoro degli immigrati sia economicamente rilevante per la crescita del nostro paese. "Vogliamo che emerga il valore degli immigrati come risorsa", ha dichiriato Gabizon:"l'Inps incassa annualmente 7 miliardi di euro per il lavoro svolto dagli stranieri in Italia, un dato che deve far riflettere". Nel territorio di Fiumicino gli immigrati che lavorano nell'agricoltura e nell'edilizia sono un patrimonio dal quale non si può prescindere. La
manifestazione è stata organizzata da Sergio Gaudio, che ha spiegato come l'iniziativa sia nata per far capire all' opinione pubblica quanto sia detemiinante l'apporto dei migranti al funzionamento della nostra società. "Lo scopo era far pensare agli italiani che c'è necessità di ripensare le politiche sull'immigrazione. Gli immigrati contribuiscono al Pil per circa il 10% ma in Italia si contìnua a trattare il fenomeno con politiche di emergenza, ha detto Gaudio. 1 Cie, il pacchetto sicurezza e il permesso a punti sarebbero quindi il frutto del medesimo problema: le politiche sull'immigrazione andrebbero ridefinite sul piano del lavoro e degli alloggi.
Tra i temi affrontati anche quello dei respingimenti dei barconi di immigrati verso la Libia. Ne ha parlato Khalid Chaouki, responsabile immigrazione Giovani democratici e promotore della campagna nazionale "Stranieri di nome, italiani di fatto". "Abbiamo pensato ad un'azione successiva al patto tra Italia e Li-bia proprio per la generale indiffe¬renza di quei giorni Parole di sdegno ma nessuna azione concreta. Abbiamo scelto di dare un quadro realistico dell'immigrazione in Italia, e ciò che emerge è che in Italia ci sono 4 milioni di stranieri che lavorano in maniera onesta, e questo rende di fatto l'Italia un Paese multiculturale. Ci sono italiani autoctoni e nuovi italiani, soprattutto quelli di seconda generazione, che purtroppo vengono ancora percepiti come stranieri, ma non si sentono neanche più legati ai loro Paesi d'origine. Su questo dovremmo riflettere e dare sostegno e accoglienza a tutte queste persone", ha dichiarato Chaouki. Luigi Giordano, segretario dei Gd, per dare più voce agli immigrati nel nostro consiglio comunale, chiederà al sindaco, attraverso il gruppo consiliare, di istituire a Fiumicino, due organismi già presentì nel comune di Roma: i Consiglieri aggiunti e la Consulta Cittadina delle Comunità Straniere. Il funzionamento dei due organismi è stato illustrato da Lottin Marguerite. "Avevamo avuto dalla giunta di centrosinistra questa opportunità, che ora il nuovo sindaco sta tentando di delegittimare. E purtroppo questo sentimento di intolleranza si sente anche da parte di alcuni italiani, che continuano a guardare al problema con gli occhi di chi in realtà non lo vive sulla propria pelle. Un rappresentante all'interno dei consigli comunali è sicuramente un aiuto valido per far rispettare i nostri diritti. La Consulta ha il compito di mediare, omogeneiz-zare e organizzare le singole e diverse richieste, in modo che esse assumano un significato e una valenza cittadina e come tali vengano presentate agli organ: politici dell'Amministrazione", ha dichiarato Marguerite. Gli interventi sono stati conclusi dall'on Jean-Leonard Touadì, deputato Pd e primo parlamentare di colore nella storia italiana. Touad: ha spiegato gli effetti di alcune politiche contro l'immigrazione sostenendo l'iniziativa dei Gd di Fiumicino. "I respingimenti sono stati messi in atto contro persone che avevano diritto di richiedere asilo politico, mentre sono state rispedite in Libia, Paese che non ha mai firmato alcun trattato per la tutela dei diritti umani. E per la convenzione diamo alla Libia 250 milioni di euro all'anno. Soldi che potrebbero essere destinati ad altre opere. Inoltre il Mar Mediterraneo si trasformato negli anni in un enorme cimitero, si contane circa 14.000 morti tra il 1988 e i 2006, cmq di questo nessuno se ne occupa. Con l'Anci", ha concluso Touad.


Sanatorie e quote. Le porte strette degli ingressi in Italia

l'Unità 16 marzo 2010
Il Governo sta per approvare il nuovo decreto flussi che consentirà l’ingresso in Italia di 150mila lavoratori stranieri. 105mila posti sono riservati a collaboratori familiari. Ma perché limitare l’ingresso prevalentemente a colf e bandanti quando la recente sanatoria del 2009 (che, per carità, non si deve chiamare sanatoria) ha consentito la regolarizzazione di 350mila lavoratori di quel settore? Perché non predisporre quote d’ingresso più ampie per gli addetti ad altri settori? Il recente 1marzo degli immigrati ha messo in risalto il ruolo essenziale svolto dai lavoratori stranieri per lo più  impiegati in occupazioni a bassa qualificazione. Perché quindi non agevolarne la regolarizzazione? Le critiche rivolte alla sanatoria del 2009 riguardavano il fatto che fosse indirizzata a una sola categoria di lavoratori. Con l’effetto di regolarizzare, si fa per dire, come collaboratori domestici persone impiegate in attività del tutto diverse. Un aspetto criticabile  del decreto è quello che prevede una macchinosa procedura di presentazione e di vaglio delle domande.  Infatti, a meno che non vi siano dei cambiamenti profondi, questo decreto sarà come quello del 2007, quando si prevedeva che il modulo, precedentemente compilato, venisse inserito nel portale informatico prima dell’apertura dei flussi così da poterlo inviare con un semplice “clic”  alla scadenza fissata. Basterebbe consultare i giornali di quel periodo (dicembre 2007) per rendersi conto della disastrosa inefficienza di quel sistema. Il rischio è inoltre quello di intasare ulteriormente gli già oberati sportelli unici impegnati a esaminare le pratiche della recente sanatoria. Insomma anche su questo fronte c’è bisogno di uno scossone.
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