Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

19 maggio 2014

Bologna - No Cie, no Cara per un’accoglienza degna
Corteo meticcio attraversa il centro città, per un’Europa di diritti e senza confini
Melting Pot Europa, 19-05-14
Mai più CIE, né a Bologna né altrove. Un messaggio chiaro e deciso, arrivato oggi dalle strade di Bologna attraversate da una manifestazione in cui oltre un migliaio di persone hanno preso parola contro la vergogna dei centri di detenzione amministrativa e le politiche sull’immigrazione ad essi collegate.
Partito da Piazza XX Settembre, il corteo ha visto partecipare migranti e rifugiati, attivisti di centri sociali, case e spazi occupati, coordinamenti, associazioni, collettivi, ma anche cittadine e cittadini animati da una indignazione profonda per le continue stragi in mare e dall’inadeguatezza delle ipocrite risposte istituzionali.
Con gli interventi dal camion, striscioni e cartelli è stata sottolineata infatti la continuità tra le politiche che hanno istituito i CIE nel 1998 e le continue morti nel mar Mediterraneo e in tutte le zone di confine più lontane dai nostri occhi, conseguenza diretta di un governo della mobilità delle persone che si esercita attraverso il controllo e la selezione non solo all’arrivo in Europa, ma in tutto il percorso nella società. Frontiere materiali e immateriali accompagnano l’intera esistenza di chi arriva in Italia ed Europa, perché dopo aver sfidato Frontex e i rischi di viaggi sempre più pericolosi, si ripropongono mille barriere ed ostacoli che puntano a differenziare e selezionare l’accesso ai diritti e alla ricchezza.
Moltissimi i migranti che intervenendo al microfono hanno infatti spiegato come i CIE rappresentino il ricatto della legge Bossi-Fini e condizionino l’intero percorso migratorio, imponendo ai migranti condizioni di lavoro e di retribuzione para-schiavistiche.
Una funziona simbolica e culturale di criminalizzazione dei migranti che va ben oltre la funzione di macchina di identificazione ed espulsione di queste carceri etniche, ma che si estende sul posto di lavoro e nella vita quotidiana ammonendo chiunque si ribelli e si sottragga alla condizione di sfruttamento che gli è imposta. Ma Bologna è una città con una storia di radicale opposizione al CIEe alle leggi ad esso correlate: dentro e fuori il CIE si sono susseguite ed organizzate battaglie, anche prima della sua apertura, grazie alle quali la critica ai dispositivi di confinamento introdotti dalle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, sono diventate terreno di convergenza di realtà diverse, che sembrano andare oggi verso la direzione di una possibile chiusura definitiva della struttura. “Dovranno passare sul corpo dell’amministrazione comunale” ha dichiarato l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Bologna, ribadendo il rifiuto Comune all’ipotesi di riapertura avanzata dal Prefetto, e anche l’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna ha votato a maggioranza una risoluzione contro la riapertura di Via Mattei.
Un risultato importante, merito dei percorsi di lotta che in questi quindici anni non hanno ignorato le continue storie di violazioni e violenze provenienti da Via Mattei e di tutti quei migranti che nonostante la minaccia della reclusione hanno condotto battaglie per la regolarizzazione permanente, per il diritto di asilo e contro lo sfruttamento sul lavoro, come ad esempio i facchini del settore della logistica, anche loro presenti in corteo oggi insieme ai sindacati autorganizzati con cui conducono una lotta quotidiana contro la precarietà e lo sfruttamento da parte delle lobby delle cooperative.
Fortissima la condanna espressa verso sistema di accoglienza emergenziale, risposta ancora una volta improvvisata e inadeguata alla fuga da conflitti e guerre per sottrarsi ad un presente di distruzione e miseria. “Occorrono canali di arrivo regolari, una nuova politica dell’accoglienza, e un sistema di asilo europeo che garantisca la libertà di circolazione e di scelta”, è stato gridato davanti alla sede della Prefettura, dove sono state affisse le immagini dei migranti annegati insieme allo striscione “Le vostre frontiere uccidono. Libertà di circolazione e accoglienza degna”. Una rivendicazione, quella della libertà di scelta e della libertà di restare contenute nella Carta di Lampedusa, che in particolare i i rifugiati delle occupazioni di case a Rimini e Reggio Emilia hanno portato anche attraverso le testimonianze individuali di “reduci” dell’Emergenza Nord Africa, “speculazione umanitaria” che ha condotto all’invisibilità migliaia di persone fuggite dalla guerra in Libia. E in vista delle elezioni, molti interventi hanno rivendicato il carattere europeo di questa battaglia, che si inserisce nella campagna di mobilitazione #may of solidarity indetta dal coordinamento Blockupy Europe. Il governo delle migrazioni risponde infatti alle esigenze delle politiche di austerity, funzionali a precarizzare sempre più fasce della popolazione, restringendo l’accesso ai diritti, alle libertà, alla ricchezza. Un destino di povertà ed invisibilità che non riguarda solo i migranti, ma un numero crescente di persone, perché la gestione economica, sociale e politica della crisi punta a condannare alla povertà e al silenzio sempre più cittadini, siano essi comunitari o migranti.
Arrivato in Piazza Maggiore, il corteo si è concluso con la performance interattiva della compagnia di italiani e rifugiati Cantieri Meticci, che ha posto ancora una volta l’urgenza di ripensare da capo un sistema dell’accoglienza improntato alla transitorietà e alla temporaneità. “A Bologna vogliamo vivere e restare”, dicono i titolari di protezione internazionale della compagnia teatrale, e la loro storia è già una risposta al progetto di trasformare il CIE di Via Mattei in un ennesimo campo profughi.



Un illecito sulla pelle dei rifugiati Non distribuiti milioni di euro

Interattivo Il dossier tenuto segreto dal Viminale
la Repubblica.it, 19-05-14
Raffaella Cosentino e Alessandro Mezzaroma



Binetti (Udc): "Bene Mare Nostrum ma ora creare sviluppo Africa"
"Puntare sulla formazione e la promozione dei giovani africani nei loro Paesi"
stranieriinitalia.it, 19-05-14
Roma, 19 maggio 2014 - ''L'approvazione delle mozioni per il proseguimento dell'operazione Mare Nostrum e' un passo avanti. Ma se non costruiamo un ponte tra Italia e Africa in grado di sostenere davvero la solidarieta' europea, puntando anche sulla formazione e la promozione dei giovani africani nei loro Paesi per crearvi sviluppo e benessere, resteremo alle buone intenzioni''.
Lo ha affermato la deputata Udc Paola Binetti durante il convegno alla Camera 'Ponte d'oro Italia - Africa. Argine prima del deserto'.
''Per andare oltre le parole - sottolinea Binetti - occorre coinvolgere le autorita' politiche, diplomatiche e istituzionali italiane, europee ed africane. Solo condividendo il valore del rispetto della dignita' umana e della vita di ogni uomo puo' contribuire a promuovere e concordare azioni concrete per evitare altri viaggi della morte e stragi in mare''.
 


Avere una casa fa la differenza Storia di un riscatto rom
Corriere.it, 19-05-14
Giulia Dessì
Demir Mustafa, prima di arrivare in Italia, i campi rom non li aveva mai visti. In Macedonia, il suo paese di origine, i campi nomadi non esistono. «A Skopje, noi rom vivevamo in povertà, ma abbiamo sempre avuto case in muratura, seppur piccole, costruite da noi stessi o dal comune» spiega Demir. A Firenze, invece, dove si trasferisce nel 1989, Demir è subito ospitato in un campo, in una situazione di degrado che diventa sempre più insopportabile, anno dopo anno. La messa a disposizione di aree attrezzate per i rom era stata deliberata con uno statuto del 1988. «Chi lo ha varato non ha di certo pensato a come stavano le cose nella realtà» commenta Demir. E così, nel 1996, inizia a prendere contatti con il Comune per cercare di migliorare la situazione abitativa del gruppo rom fiorentino. Due anni dopo, molte famiglie fanno domanda per gli alloggi pubblici e iniziano, piano piano, a lasciare i campi. Infine, nel 2000, una legge regionale stabilisce ufficialmente il superamento dei campi nomadi e l’inserimento in abitazioni standard.
Una svolta. Il campo storico dell’Olmatello chiude due anni fa, così come l’Olmatellino e il Masini. Le 250 famiglie che ci abitavano negli anni ‘90 (provenienti da Macedonia, Kosovo, Bosnia e Montenegro) adesso vivono, autosufficienti, nelle case o sono ospitate in centri di accoglienza per rifugiati. Altre ancora si sono trasferite a Roma e Bologna. Anche Demir, con la moglie e i tre figli, oggi vive in un appartamento. Poeta, mediatore culturale e presidente dell’associazione Amalipe Romano, Demir si batte per aiutare chi, nei campi, ci vive ancora. Le baracche prefabbricate delle due aree del Poderaccio, infatti, ospitano tuttora una sessantina di famiglie, spesso in condizioni di disagio. «Il Comune vorrebbe risolvere il problema, però, per non creare una guerra tra poveri in tempi di crisi, sta cercando di evitare di dare facilmente le case ai rom e, piuttosto, di farli uscire gradualmente» spiega Demir. Eppure, sono proprio le “politiche dei campi” a comportare uno spreco di risorse in un sistema che, ghettizzando, aggrava la situazione, anziché migliorarla. Segregare costa, uno studio del 2013 realizzato dalla cooperativa Berenice e dalle associazoni Compare, Lunaria e OsservAzione, rivela che i fondi pubblici investiti a Milano, Roma e Napoli tra il 2005 e il 2011 per l’allestimento e la gestione del sistema dei campi nomadi, «non hanno raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone». La soluzione, conclude il rapporto, consiste, invece, nell’adozione di soluzioni abitative alternative da concordare con i residenti.
    I risultati dell’inclusione abitativa sono evidenti in tutte le città che, come Firenze, hanno scelto questa strada. Migliora la situazione economica, cambia l’interazione con le altre comunità e diminuisce l’abbandono scolastico. «Non voglio che i nostri figli facciano i lavori che gli altri non vogliono fare, ma vorrei che cominciassero a studiare e a crescere intellettualmente. La differenza che fa una casa è in termini di integrazione sociale» spiega Demir.
Nelle abitazioni standard, i vicini non si accorgono nemmeno che la famiglia che abita accanto a loro è rom. Al massimo, è vista come straniera. Demir racconta di presentarsi sempre come rom e di ricevere sempre la stessa domanda: «dopo una chiacchierata le persone mi chiedono stupite “cosa c’è di zingaro in te?” E io dico di zingaro non ho nulla, ma di rom sì». Vivere in una casa e avere un lavoro genera anche un cambiamento di percezione da parte degli altri cittadini. «Rom non è “lo zingaro” che siamo abituati a vedere in televisione e leggere sui giornali. Rom vuol dire una cultura, una lingua, e tradizioni forti» continua Demir. È la scarsa conoscenza della cultura rom a generare incomprensioni, anche da parte delle istituzioni. «Quando siamo arrivati a Firenze, abbiamo trovato i sinti, con le loro giostre nelle aree attrezzate. Loro vivevano così perché si spostavano continuamente e avevano bisogno di uno spazio in cui esercitare il loro mestiere» spiega Demir. Ma i rom macedoni non facevano quel mestiere. I rom macedoni erano operai e nei campi nomadi non avevano mai vissuto.



Migranti e naufraghi: i minatori dell’impossibile
il fatto.it, 18-05-14
Mauro Armanino
Sono morti nelle gallerie delle miniere di carbone di Soma. Centinaia di morti nel sottosuolo trasformatosi in tomba ardente. Le notizie traversano l’esplosione e la collera della gente. I minatori che scavano la terra e che alla terra tornano. Pochi giorni prima hanno trovato 47 migranti morti di stenti nel deserto. Provenivano dal Niger ed erano diretti in Algeria. Minatori del deserto che come il sottosuolo non è abituato a perdonare chi lo tenta. Donne e bambini su mezzi precari quanto le loro vite. Abbandonati alla sorte di un destino tradito. Mendicanti di scorciatoie che non portano da nessuna parte. Pochi ne hanno parlato perché la sabbia li ha scortati lontano dalle cronache. L’eliminazione dei poveri ha preso il posto della lotta contro la povertà. Colpevoli non perdonati di una disperata follia clandestina. Minatori si diventa cercando domande.
Gli altri minatori sono morti in mare qualche giorno fa. Una settimana di naufragi e di soccorsi nel Mare Nostrum. Il Nostro Mare è quello di tutti. Affittato da coloro che lo solcano con cunicoli di futuro. Le guerre lontane affondano come barconi alla deriva. Gli schermi televisivi tradiscono il dolore e occultano le complicità. E allora ci sono loro. I migranti e rifugiati minatori del Mare Nostro. Si ostinano ad arrivare e perturbano la bonaccia della menzogna. Dicono che non c’è pace da nessuna parte nel mondo. Solo precari armistizi nelle zone di confine. Affogati a decine nei pressi della Libia e nel mare libero scortato da zattere di trafficanti umani. Scavano feritoie puntellate dal niente tra la storia dei potenti e quella dei poveri. Non tengono conto delle strategie geopolitiche di controllo. I minatori intercettano i flussi dell’impossibile.  
Sono mine vaganti per l’ordine costituito. I migranti minatori minano la realtà. Nella storia il pericolo sbarca dalle navi di chi non ha nulla da perdere. La prima violenza, quella fontale, è costituita dalla politica e dall’economia. Le agenzie di notazione seminano il panico nei paesi. I politici africani sono ostaggio dell’economia globale per l’esclusione di milioni di giovani. Fanno corse a cronometro per come arricchirsi prima che passi il turno. Ecco perché la maggior parte di loro tende a perpetuarsi nel potere. La grande violenza è la politica di estrazione di futuro dal destino dei giovani. Il furto organizzato di ideali dirottati al consumo. L’adesione a modelli di vita infiltrati negli schermi televisivi. Un altro mondo è possibile per i minatori di certezze.
I turisti viaggiano a milioni. Un’industria fiorente che cresce in modo esponenziale. Nessuno li ferma. Ci prova per qualche giorno il terrorismo o gli inviti alla prudenza delle ambasciate. Viaggiano per conoscere o per fuggire. Oppure tanto per cambiare e poi mostrare quanto non hanno visto. Gli occhi sono stati sostituiti da apparecchi fotografici numerici. Viaggiano e sono circa un miliardo. Uno su sette abitanti del pianeta e nessuno li chiama clandestini. Sono solo turisti che si permettono di esplorare quanto si aspettano di scoprire. Transitano dal nord al sud del mondo. Quelli che provengono dal sud invece giocano a calcio oppure sono minatori. Scavano incertezze sotto le mura di protezione della città. Inventano passaggi per aggirare le barriere di cemento armato. Improvvisano gallerie per estrarre i mondi scartati dal potere. Minatori per necessità.
Solo minatori sperimentati sono capaci di decolonizzare la cronaca. Scompaiono nella terra e scavano per sminare le frontiere e le banche. Seguono percorsi inediti a seconda delle circostanze attenuanti della vita. Camminano per perdersi nel Mare Nostro di nessuno. Pedinano il deserto di sabbia per camminare quello di pietra. Sono scolpiti sulle tavole gli ultimi comandamenti della legge poi gettati nelle discariche pubbliche. Inseguono torrenti e inaugurano ponti. Si portano dietro i figli come apprendisti testimoni. Trasportano zaini riempiti di futuro. Barattano il tempo per un piatto di riso passato dalle stesse mani. Non si accontentano del primo orizzonte liquidato come saldi sotto stagione. Insegnano il mestiere a coloro che mai hanno scavato il dolore. I minatori sono l’ultimo grido silenzioso che il mare impresta al deserto.



“Io sto con la sposa”, la storia vera del corteo nuziale che ha beffato l’Europa
Arriva il film che racconta il viaggio da Milano a Stoccolma di 5 siriani e una donna vestita da sposa. Gli autori che li hanno aiutati rischiano fino a 15 anni di carcere. "Un atto di disobbedienza civile”. Per sostenere l’opera e portarla a Venezia al via un crowdfunding
Redattore sociale, 19-05-14
ROMA – Un finto corteo nuziale, che parte da Milano e arriva a Stoccolma, sfidando le regole e i controlli della Fortezza Europa, per permettere a cinque ragazzi in fuga da un paese in guerra di avere un futuro migliore. Si chiama “Io sto con la sposa” il film documentario realizzato da Gabriele del Grande, giornalista e autore del blog Fortress Europe, Khaled Soliman Al Nassiry, poeta e scrittore palestinese siriano e Antonio Augugliaro, editor e regista televisivo, che racconta in presa diretta una storia fantastica, e al tempo stesso drammaticamente vera, accaduta tra il 14 e il 18 novembre 2013.
Protagonisti del film sono gli stessi autori che, dopo aver incontrato a Milano cinque palestinesi siriani sbarcati a Lampedusa, decidono di aiutarli a raggiungere la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri, però, inscenano un finto matrimonio coinvolgendo un'amica palestinese (Tasnim) che si traveste da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che fanno da invitati. Così mascherati, attraversano mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un viaggio, che oltre a raccontare le storie e i sogni dei cinque palestinesi in fuga e dei loro speciali contrabbandieri, mostra un'Europa sconosciuta. Un'Europa transnazionale, solidale e goliardica che riesce a farsi beffa delle leggi e dei controlli della Fortezza con una mascherata che ha dell'incredibile.
Una scena da "Io sto con la sposa"
 Gli autori rischiano fino a 15 anni di carcere. “Siamo convinti che Io sto con la sposa possa diventare un film manifesto per quella comunità di persone che credono che ‘il cielo è di tutti’ come dice la sposa in una delle parti più toccanti del film. Di chi crede cioè che viaggiare non sia un crimine e che criminale sia invece chiudere gli occhi di fronte ai morti di viaggio sulle nostre spiagge mediterranee e di fronte ai morti nella guerra di Siria” spiegano gli autori, che per realizzare il film hanno corso personalmente un grande rischio. “Al momento dell'uscita del film, potremmo essere condannati fino a 15 anni di carcere per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina – sottolineano – Ma abbiamo deciso di prenderci questa responsabilità, perché abbiamo visto la guerra in Siria con i nostri occhi. Gabriele come giornalista, Khaled, Tareq e Tasnim come siriani e palestinesi di Damasco. E aiutare anche una sola persona ad uscire da quel mare di sangue, ci fa sentire dalla parte del giusto”.
Una scena da "Io sto con la sposa"
 Obiettivo del film è infatti mostrare attraverso questo atto di disobbedienza civile che rispettare le regole della frontiera “non è più una virtù”. “Ventimila morti nel Mediterraneo sono abbastanza per dire basta. Non sono vittime del fato o della burrasca. Ma di leggi alle quali è arrivato il momento di disobbedire – aggiungono -. Per questo motivo ci siamo improvvisati trafficanti per una settimana. E abbiamo aiutato cinque siriani in fuga dalla guerra a proseguire il loro viaggio clandestino dentro la Fortezza Europa”. “Oggi ci autodenunciamo, è un rischio folle quello che ci stiamo prendendo – continuano -. Ma vogliamo credere che esista una comunità di persone, in Europa e nel Mediterraneo, che come noi sognano che un giorno questo mare smetta di ingoiare le vite dei suoi viaggiatori e torni ad essere un mare di pace, un mare dove tutti siano liberi di viaggiare, e dove nessuno divida più gli uomini e le donne in legali e illegali”.
"Quale poliziotto di frontiera fermerebbe mai un corteo di nozze per chiedere i documenti alla sposa?". L’idea del film è nata da questa battuta, detta alla fine di una cena, mentre Gabriele, Antonio, Khaled e Tareq, stavano discutendo della situazione dei profughi che sempre più spesso arrivavano a Milano. Alcuni erano stati ospiti a casa loro prima di partire senza documenti per il nord Europa pagando cifre da capogiro ai contrabbandieri. Mentre pensavano a come aiutarli è venuta a Gabriele l’idea del finto matrimonio: nessuno avrebbe fermato alla frontiera una sposa e i suoi invitati. “Dopo 14 giorni ci incontriamo davanti alla stazione centrale di Milano – spiegano -. Siamo ventitré, tra ragazzi e ragazze. Tutti amici. Italiani, palestinesi e siriani. Chi coi documenti, chi senza, ma tutti vestiti eleganti come se stessimo davvero andando a un matrimonio. E’ davvero difficile spiegare come siamo riusciti in così poco tempo, e senza soldi, a individuare i personaggi del documentario, a scrivere il trattamento del film e a mettere in piedi una troupe cinematografica”.
Un crowdfunding per andare a Venezia. Gli autori non hanno alle spalle una casa di produzione ma si affidano alla rete e ai cittadini attivi per sostenere Io sto con la sposa. Per chiudere il film in tempo per iscriverlo al festival di Venezia a settembre e per essere distribuiti in sala il prossimo autunno, lanciano oggi un crowdfunding: obiettivo è raccogliere 75mila euro (la metà dei soldi per produzione e post produzione). Si potrà cosi acquistare in anticipo un biglietto del cinema, uno streaming, un download, un dvd o un libro, oppure di prenotare con sei mesi di anticipo una proiezione pubblica del film con gli autori. “In ballo c'è molto di più della produzione di un film – sottolineano - C'è la possibilità di dimostrare che questo amato Mediterraneo non è soltanto un cimitero, ma che può ancora essere il mare che ci unisce”. (ec)

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