Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Io venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano. Baldini Castoldi Dalai editore
a cura di Oreste Pivetta

Pubblicato per la prima volta nel 1990 da Garzanti , Io venditore di elefanti, è diventato nel corso del tempo e delle edizioni un autentico longseller. A distanza di quasi due decenni, il suo curatore, Oreste Pivetta, parla di quel libro, di cui pubblicchiamo due capitoli:  Vendere e Bambini.

<< Non so quanto possano valere le sensazioni, quali si e quali no, a distanza di tanto tempo, ma quando ripenso a "Io, venditore di elefanti" (titolo di quel grande editore che era Livio Garzanti) provo una sensazione, quella di ritrovarmi sempre allo stesso punto, salvo una differenza, non da poco: il razzismo. Quando finii di scrivere il libro, cominciai con Pap a rivedere pagina dopo pagina. All'ultima lui mi disse: non abbiamo mai usato la parola razzismo. Francamente non me n'ero accorto e mi spiegai quel "vuoto" (il fatto che neppure una volta si dicesse razzismo o razzista) con il carattere del libro: un racconto avventuroso, velocissimo, di corsa (perché i venditori di elefanti dovevano correre sempre: per arrivare a vendere prima degli altri e per fuggire dai mezzanini del metrò quando sopraggiungevano i vigili a sequestrare la merce), al ritmo del rock senegalese (che ascoltavo tenacemente, come se mi dovesse dettare anche il ritmo della scrittura). Pap di quell'assenza diede un'altra spiegazione, semplice, chiara, davvero senza pregiudizi: «Io ho incontrato italiani buoni e italiani cattivi. Non ho mai visto il razzismo».
Mi viene in mente la definizione in un libro sempre di quegli anni, un bel libro di Laura Balbo e Luigi Manconi. La ricordo con qualche imprecisione: l'Italia non è un paese razzista, ma è un paese a rischio di razzismo, perché è un paese che è stato capace in un passato, in fondo recente, di scrivere le sue leggi razziali, di deportare gli ebrei, perché è un paese ancora adesso maschilista, un paese che discrimina i suoi diversi, e tanto ancora. Sostenevano ancora Balbo e Manconi che al razzismo, perché riaffiorasse nella sua volgarità  e nella sua brutalità , mancava un imprenditore politico. L'abbiamo trovato l'imprenditore politico, ne abbiamo trovati tanti, con i loro sudditi. I progressi nel campo, come hanno rilevato, non solo Amnesty, ma persino l'Europa, non ci sono mancati.
Scrivendo quel libro, dopo aver a lungo registrato il racconto di Pap in riunioni notturne in genere dopo lunghissime attese nei luoghi più disparati della provincia lombarda, aiuole spartitraffico nella nebbia, ad esempio (il rispetto degli appuntamenti non era certo un imperativo categorico per il nuovo amico di Dakar), raccontando quella storia (e quindi anche il mio rapporto con persone, luoghi, situazioni, nuovi) mi liberavo alla fine di tanti schemi e soprattutto del mio moralismo, e dell'idea un po' d'educazione cattolica che si dovesse in qualche modo far del bene agli altri e quello, scrivendo, fosse uno dei modi... Imparai molto anch'io. La questione dei diritti, ad esempio.
Non avevo mai conosciuto un ragazzo nero, se non quei ragazzi neri che vedevo sul ring del Palalido. Imparai che per emigrare dall'Africa in Italia bastava prendere un aereo e in sei ore si volava da Dakar a Roma. Per raggiungere la costa romagnola si incontrava qualche problema in più: intanto bisognava sapere dove fosse e Pap non lo sapeva (dopo mesi e mesi, finita la stagione balneare, si accorse che non era il paradiso in terra). Mi resi conto che Pap e i suoi amici avevano studiato, conoscevano almeno un paio di lingue, se la cavavano con l'inglese, il loro italiano era quello dei venditori e basta, ma, soprattutto all'inizio, non avevano molte occasione per impratichirsi. Mi resi conto che vendere non era un mestiere d'accattoni semiquestuanti, ma chiedeva notevole costanza e molta professionalità e che loro, senegalesi o marocchini, d'esercizio ne avevano fatto tanto ben prima di inoltrarsi lungo le spiagge di Rimini. Per questo il libro comincia con quella rivendicazione orgogliosa: «Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore e vi racconterò che cosa mi è successo. E' un mestiere difficile, per gente che ha costanza e una gran forza d'animo, perché bisogna usare le gambe e insistere, insistere anche se tutte le porte ti vengono sbattute in faccia...». Il commercio molti ce l'hanno nel sangue e nelle tradizioni di famiglia. Avevo appena letto un romanzo di Dick Bass, uno scrittore americano, "Taccuini di un cercatore di petrolio", pubblicato da Serra e Riva, che cominciva più o meno così: sono un cercatore di petrolio e vi racconto come si fa...
Francamente da un punto di vista narrativo mi convinceva di più la prima parte della storia di Pap: l'arrivo in Italia, la scoperta del mare e degli ombrelloni, l'inverno nelle cascine, poi il viaggio a Parigi, il ritorno, la gran fame, la grande paura, persino la morte (di un generoso compagno). Quando s'arriva a Milano le difficoltà  sono ancora una montagna, ma la montagna comincia a rivelare qualche via d'accesso: i manifesti che annunciano qualche cambiamento, la sensibilità  dei ragazzi, le amicizie con i coetanei milanesi. Si capisce che si sta aprendo una stagione nuova, non tutto è risolto, ma l'orizzonte è meno cupo. Ci speravo anch'io. Possibile che stessimo lasciando l'emergenza alla spalle? Come raccontavo all'inizio erano stati l'emergenza freddo e i pochi rimedi messi in atto dall'amministrazione comunale, peraltro duramente osteggiati dai bravi cittadini milanesi, a spingermi, soprattutto per indignazione, a "far qualcosa di utile" e quindi a scrivere. Il libro si chiude con un frase che mi piace ancora e che mi ha sempre commosso rileggendola: «Molti restano e conoscono ragazze italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora matrimoni. Nascono bambini». «Nascono bambini» E' ovviamente il centro di tutto, per il cuore e per la ragione. Pap ha ad esempio un bambino. Quei bambini figli di genitori immigrati dall'Asia o dall'America, figli di italiane e di senegaesi, di milanesi e di ragazze filippine, che frequenteranno le nostre scuole e che parleranno l'Italiano meglio di me sono la nuova società , il futuro, lo sguardo oltre e davvero segnano - immaginavano - la fine dell'emergenza. Rappresenteranno - mi dicevo emozionato - il corpo del nostro paese, persino più bello (soprattutto meno pallido, emaciato, vecchio). Quando sento un capo del governo proclamare che l'Italia non sarà mai multietnica, quando vedo certi manifesti sulle riserve indiane, quanto ascolto il trionfale batter di tamburi dei respingimenti, mi viene da pensare che invece siamo ancora lì, all'emergenza, e questa volta non avrei paura ad usare la parola "razzismo". Malgrado i bambini: quelli nati allora sono diventati adulti e tanti altri sono venuti al mondo, nel nostro mondo >>.

Oreste Pivetta

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