Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 dicembre 2014

Hanno deturpato il valore della solidarietà
Dall`inchiesta su Mafia Capitale sta emergendo un sodalizio criminale basato sullo sfruttamento delle persone più fragili rifugiati, richiedenti asilo,
minori stranieri soli.
Il Messaggero, 12-12-2014
Laura Boldrini
Un sistema marcio, nel quale amministratori pubblici ed associazioni che dovrebbero occuparsi del benessere dei più vulnerabili insieme ad alcuni esponenti politici lucrano sul bisogno degli altri per tornaconto personale. Fatti che deturpano il valore della solidarietà. E se i trafficanti sono persone senza scrupoli, che dire di coloro che si arricchiscono sulle spalle di chi fugge dalle guerre e dalle violazioni dei diritti umani o è sopravvissuto ai naufragi nel Mediterraneo?
Chi ha commesso reati ne risponderà davanti alla legge. Ma è importante ribadire che a fronte di qualche manigoldo ci sono tanti operatori competenti e motivati, che svolgono onestamente il proprio lavoro. Ed è anche fondamentale sfatare qualche pericoloso luogo comune: i fondi destinati ai richiedenti asilo e ai rifugiati non vanno nelle loro tasche, ma sono utilizzati dalle strutture di accoglienza, che peraltro danno lavoro a tanti nostri connazionali.
Spero che da quanto sta accadendo si impari una lezione: è imperativo che i partiti facciano pulizia al loro interno, ma anche che si incrementi il monitoraggio e il controllo sull`utilizzo dei fondi. In Italia, per troppi anni, si è preferito non strutturare l`accoglienza. Ogni estate che arrivavano i migranti sulle nostre coste si dichiarava lo stato di emergenza, grazie al quale sono state utilizzate procedure semplificate e con minori controlli. Bisogna evitare di destinare risorse a cooperative o associazioni non certificate e prive della necessaria esperienza, e poi bisogna verificare l`impiego che del denaro viene fatto. Invece a volte i richiedenti asilo, minori inclusi, sono stati "parcheggiati" in strutture non adatte, improvvisate, dove non c`erano nemmeno mediatori culturali che facessero da interpreti e permettessero la comprensione reciproca, o operatori in grado di dare assistenza legale e orientamento, come previsto dalle convenzioni firmate con gli enti erogatori dei fondi.
Questo sistema è costato molto, non ha favorito l`integrazione e si è talvolta prestato ad un utilizzo scellerato delle risorse. Tutto ciò ha contribuito - ed è una delle conseguenze più gravi - ad intaccare l`usuale apertura degli italiani verso il prossimo. Così, paradossalmente, il meccanismo che doveva facilitare la convivenza sta generando ostilità verso i migranti. Anche per evitare questo esito è indispensabile voltare pagina.



Si intascano 50 euro Ma agli immigrati ne lasciano solo due
Le mani della cupola sui fondi ai centri per i rifugiati
Così l`accoglienza è diventata un business per i boss
il Giornale, 12-12-2014
Gian Maria De Francesco
Roma - Un business da oltre 800 milioni di euro, calcolando per difetto. È questo il valore stimato dei piani di accoglienza e sostegno per i rifugiati e i richiedenti asilo, un programma gestito dal ministero dell`Interno e che implica anche il ricorso a strutture private. Tra queste le immancabili Coop del gruppo «29 Giugno» che volevano anche ottenere l`affidamento del Cara (centro accoglienza richiedenti asilo, ndr) di C astelnuovo di Porto, in provincia di Roma. «Poi ti devo da` una buona notizia: abbiamo vinto il Cara, è arrivata l`aggiudicazione evvai...». «Ah sono contento... lo vedi nella vita... c` è la giustizia». È il 30 settembre 2013 Salvatore Buzzi è al telefono con il suo boss Massimo Carminati e gli comunica una buona novella.
Di sicuro hanno fatto maggiore effetto le frasi con le quali «Er Cecato» afferma che con «migranti e zingari si fanno più soldi che con la droga». Chi mette le mani sul dramma di persone costrette a fuggire dalla propria terra può speculare come un qualsiasi «scafista». Prima di entrare nel merito, bisogna prima specificare che i Cara sono di responsabilità del Viminale e situati al di fuori delle grandi città, mentre le altre strutture come gli Sprar (sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) e i centri temporanei sono un po` meno «vincolati». Questi ultimi sono anche i meno costosi:
ogni centro riceve 35 euro al giorno per migrante. Di questi 2,5 euro vanno al singolo individuo che può comprare un biglietto dell`autobus o qualche piccolo genere di conforto perché gli Sprar si trovano nei centri urbani e quindi consentono, in teoria, di integrare gli immigrati con la popolazione residente.
I Cara, invece, sono molto più grandi ed isolati, immensi parcheggi come quello di Mineo, vicino Catania dove migliaia di richiedenti asilo aspettano di toccare «Lamerica» con le proprie mani. Un Cara, teoricamente, dovrebbe avere la stessa base di costo di uno Sprar, ma nella media tende a essere più caro: circa 50 euro in media al giorno per migrante (2,5 euro vanno sempre all`immigrato che però può usarli solo all`interno del cara stesso). Ovviamente, lo Stato non paga le spese di soggiorno ad libitum ma solo per un periodo di sei mesi (in attesa che la prati ca p er asilo sia definita, ndr) salvo proroghe.
In ogni caso, calcolare il costo effettivo è molto complesso. Ci si può affidare ai dati del Viminale: a fine novembre c`erano circa 65.500 persone ospiti delle strutture (34.700 in quelle temporanee, 9.800 nei Cara e 21mila negli Sprar). L`andamento del 2014 è stato più o meno omogeneo: una media mensile di 60mila presenze (30mila nelle temporanei, 10mila circa nei Cara e 20mila negli Sprar) non si discosta eccessivamente dalla realtà. Moltiplicando peri 35 e peri 50 euro al giorno (per i Cara) per ciascuno per 11 mesi si ottiene una cifra di tutto rispetto: 752,5 milioni di euro. Se dicembre mostrerà un andamento analogo, si dovrebbero spendere altri 68,4 milioni portando il totale annuo a 820 milioni di euro circa.
Atteso che la tutela dei rifugiati è sancita dai trattati internazionali e che la confusa situazione in Libia rende difficile gestire l` emergenza, ci si può interrogare sui motivi per i quali l`Italia spenda così tanto dirottando ingenti risorse verso soggetti non sempre affidabili. Ad esempio, il fatto che i rifugiati provengano da Paesi con servizi anagrafe che lasciano a desiderare fa sì che alcuni tentino la «furbata» di spacciare maggiorenni per minorinon accompagnati ottenendo così rimborsi maggiori. A bilancio invariato si potrebbero potenziare le Questure e velocizzare le pratiche di asilo. Così invece ci sarà sempre un Buzzi qualunque che dirà: «A 67 euro ce guadagniamo un sacco de soldi, però chissà quando pigliamo i soldi, questo è il problema».



Bisogna uscire dalla logica dell'emergenza per eliminare la corruzione
L'Huffington Post, 11-12-2014
Filippo Miraglia
La vicenda romana, Mafia Capitale, è la conferma di quanto da tempo l'Arci dice sulla necessità di uscire da un lato dalla logica dell'emergenza e dall'altro dalla logica dei campi. La logica dell'emergenza ha consentito per esempio l'ingresso di soggetti senza competenze e senza esperienza nella rete d'accoglienza richiedenti asilo e rifugiati. Sull'accoglienza, abbiamo sempre sostenuto che bisogna partire dal protagonismo dei territori, quindi dai comuni e dalle comunità locali che volontariamente mettono a disposizione alloggi 'normali', con la mediazione sociale delle organizzazioni del terzo settore.
Organizzazioni che dovrebbero dimostrare, come nel caso dello Sprar, esperienza e competenza. Abbiamo rifiutato che, in nome dell'emergenza, non venisse verificata la qualità dei servizi offerti, la competenza dei soggetti coinvolti, la trasparenza dell'affidamento degli appalti e non venisse coinvolto il territorio. Sono stati nominati commissari straordinari, coinvolte protezione civile e prefetture, che si preoccupano di recuperare i posti letto per lo più con gare al massimo ribasso, come sta accadendo ancora in questi giorni. Grandi centri con molti posti, nessuna garanzia sulla qualità e competenza di chi li gestisce, nessuna forma di verifica.
L'esatto contrario della rete Sprar che gestisce migliaia di posti, certo non senza problemi, ma con una procedura trasparente e il coinvolgimento di enti locali e territorio. Il Servizio centrale monitora i progetti costantemente e interviene laddove si evidenziano criticità o incongruenze.
La logica dei campi (dove per campi si intendono tutti quei luoghi di concentrazione e segregazione del disagio e della marginalità sociale) consente, soprattutto se legata all'emergenza, anche lo scandalo della corruzione. Ma questo è solo un aspetto del problema.
Nei campi si confinano le persone in spazi separati, si alimenta il disagio sociale e il razzismo, fino alla cosiddetta 'guerra tra poveri'. La logica dei campi - i campi rom come i grandi centri di accoglienza per rifugiati - non consente di distinguere i diversi percorsi, di prendersi cura delle persone che diventano solo numeri. Nei campi trova spazio lo sfruttamento, la violenza, a volte anche la criminalità, a spese spesso di chi vi vive. Paradossalmente, poi, le persone segregate sono viste come profittatori, con un'inversione di ruoli che scarica su di loro le scelte di un sistema che non funziona. E il paradosso purtroppo in questi giorni è diventata la strategia comunicativa di tanti politici e giornalisti. Denunciare gli sprechi è sacrosanto. Bisogna però distinguere chi fa un buon lavoro da chi lucra sul disagio, evitando di evocare soluzioni che vanno nella direzione di cancellare i servizi o di privatizzarli. In questi anni troppo spesso questa è stata la risposta agli scandali, facendo aumentare il disagio, la marginalità e il razzismo.
C'è un sistema di relazioni tra pubblico e terzo settore basato su una sussidiarietà che vuol dire partecipazione e controllo, qualità e democrazia. Ma c'è anche un sistema di relazioni tra pubblico e privato sociale, nel quale da anni si è inserito il privato profit, che è basato sul guadagno. Un sistema che si sottrae al controllo e che tendenzialmente privilegia i bandi al ribasso e gli affidamenti diretti. Il rischio vero non è solo che si butti via il bambino con l'acqua sporca (e l'acqua sporca lo è davvero), ma che si faranno scelte, sempre in nome dell'emergenza, che finiranno per produrre ulteriori sprechi e corruzione.
Negli ultimi mesi è stata alimentata l'idea che bisogna tornare a una centralizzazione dei servizi e della loro gestione. Che è meglio affidarsi al Governo piuttosto che alle regioni e agli enti locali. Un'ipotesi che va nella direzione opposta alla trasparenza e al controllo, e che favorirebbe un progressivo smantellamento dei servizi e una loro privatizzazione. A subirne le conseguenze sarebbero i rom e i rifugiati, che avrebbero sempre meno servizi, resterebbero confinati nei campi, sempre più marginalizzati. Bisognerebbe iniziare subito invece ad avviare un progressivo inserimento sociale dei rom assegnandogli case e smantellando i campi, in cui del resto mai hanno voluto vivere.
Allo stesso modo bisognerebbe distribuire, come in gran parte fa già la rete Sprar, i rifugiati in appartamenti 'normali', responsabilizzandoli sul loro percorso d'inserimento e puntando a un coinvolgimento reale del territorio. Chiamando i soggetti che operano nelle comunità locali, con la regia degli enti locali e delle regioni, impedendo che, in nome della concorrenza, si realizzi una sorta di 'turismo dei bandi', affidando la gestione dei servizi a soggetti che con un determinato territorio non hanno alcuna relazione. Ancora in questi giorni grandi società e cooperative hanno vinto bandi al massimo ribasso, in barba ai diritti dei lavoratori e magari a prezzo di favori a questo o quel politico.
La corruzione è radicata nella nostra cultura. Per estirparla serve il controllo e il protagonismo dei cittadini e delle comunità locali, non il ritorno a uno stato centralista dove tutto è controllato dai prefetti.



Agenzie, cooperative, servizi: il volto rispettabile dello sfruttamento 2.0
Sono 400 mila i braccianti che nel 2013 hanno lavorato in condizioni di sfruttamento nelle campagne italiane. Ma non è solo nei campi che si annida la schiavitù. A portare i nuovi sfruttati in Italia sono bande di colletti bianchi organizzate come agenzie e cooperative, che procurano regolari documenti
Redattore sociale, 12-12-2014
TORINO - Una busta paga in negativo. Sulla quale - sottratto l’affitto, il vitto e le utenze di un piccolo appartamento - il credito si era trasformato in debito per un gruppo di facchini provenienti da Pakistan e Senegal. Tanto è bastato perché a Montopoli, piccolo borgo di 10 mila abitanti in provincia di Pisa, venisse alla luce uno delle migliaia di tasselli che compongono il puzzle delle nuove schiavitù. Che oggi, “esattamente come accade con la prostituzione - spiega monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione episcopale Migrantes - si stanno progressivamente spostando dall’aperto al chiuso, dall’agricoltura al mondo dei servizi e dunque dai campi agricoli verso magazzini e appartamenti”. A emettere quella busta paga, infatti, - tre anni prima che il rogo di Prato scoperchiasse il calderone del caporalato anche in Toscana - era stata una piccola cooperativa interamente gestita da italiani. Che, dietro la facciata bonaria dell’impresa a conduzione familiare, gestiva un giro di sfruttamento con terminali in Asia e in Africa, oltre che in Lombardia e nella provincia toscana.
Situazioni del genere, in Italia, sono sempre più frequenti. A raccoglierli è stato un dossier del Gruppo Abele.
A sentire gli operatori sul campo, la schiavitù 2.0 non avrà più il volto e le mani nodose degli ex braccianti riconvertiti al caporalato: a portare in Italia i nuovi schiavi, sempre più spesso, sono bande di colletti bianchi organizzate in agenzie, associazioni o cooperative sociali. Come a dire che Salvatore Buzzi e i suoi sodali non sono certo gli unici ad aver intravisto un business milionario dietro i flussi migratori diretti nel belpaese. Ma se le cifre dell’agricoltura iniziano a essere progressivamente inquadrate, non si può dire altrettanto per quanto riguarda l’industria e i servizi: “Oggi - continua Monsignor Perego  - sappiamo con certezza che situazioni di sfruttamento sono largamente diffuse tanto nel mondo delle badanti e dei servizi di cura, quanto in quelli della ristorazione, del catering, del turismo e di gran parte dei lavori che presentano caratteri di stagionalità. Ma è il passaggio stesso dall’aperto dei campi al chiuso dei servizi a condurre in un mondo nebuloso, difficilmente monitorabile. In cui il ciclo della violenza e del ricatto può perpetrarsi con una facilità perfino maggiore”.
Al netto di un sommerso ancora consistente, i numeri dello sfruttamento nel settore agroalimentare sono, almeno in parte, noti. Stando all’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato”, redatto annualmente dalla Flai - Cgil (Federazione nazionale lavoratori agroindustria), nel 2013 almeno 400 mila braccianti stagionali hanno lavorato in condizioni di grave sfruttamento nel nostro paese. Per l’80 per cento si trattava di stranieri, centomila dei quali hanno dovuto fare i conti con condizioni di estremo disagio ambientale e abitativo: tra i migranti impegnati nelle raccolte stagionali, in particolare, il 62 per cento non ha avuto accesso ai servizi igienici, il 64 all’acqua corrente. E il oltre il 70 per cento di quanti, a fine stagione, sono passati per un ambulatorio medico risultavano aver contratto una malattia collegabile alle condizioni lavorative.
Per il mondo dei servizi, al contrario, non esistono a oggi numeri affidabili. “Le uniche cifre che conosciamo - precisa Perego - riguardano il lavoro nero, che interessa il 20 per cento di quanti sono impiegati nella ristorazione e il 15 nella cura degli anziani. Una cifra, quest’ultima, che risulta però in qualche modo falsata, perché il settore è quasi impossibile da monitorare”.
Ma non è solo nei solchi del lavoro irregolare che nascono le nuove forme di sfruttamento. Sempre più spesso, i nuovi schiavi viaggiano in aereo, con i documenti in regola e con un contratto di locazione ad attenderli in Italia. Elementi, questi, che sono sempre funzionali al meccanismo della riduzione in schiavitù, come emerge dai casi venuti finora alla luce; a Torino, il Gruppo Abele ne ha raccolti a decine, in una ricerca condotta con 23 realtà italiane che si occupano di studiare e contrastare il fenomeno.
“Il modus operandi è all’incirca lo stesso della prostituzione - spiega Simona Marchisella dello sportello Vittime di tratta del Gruppo Abele -. Prima di partire, dietro promessa di un contratto vero o fittizio, il lavoratore contrae un debito con intermediari che in molti casi sono già residenti in Italia”. Secondo Marchisella, “più che a singoli faccendieri, ci si trova sempre più spesso di fronte a vere e proprie agenzie di collocamento, che hanno alle spalle organizzazioni criminali che provvedono a tutto: dal visto, al viaggio, al contratto di locazione in appartamento”. Oltre alla cura degli anziani, i settori interessati sono la logistica, la distribuzione, la ristorazione; “al nord - precisa Marchisella - è molto diffuso il volantinaggio, mentre in molti al sud vengono impiegati nell’installazione di pannelli fotovoltaici”. In mancanza di un occupazione, poi, non è raro che questi uomini siano indirizzati verso clan criminali che li utilizzano nelle piazze dello spaccio.L'identikit degli sfruttati. Per quanto riguarda l’identikit dei nuovi sfruttati, Marchisella precisa che si tratta di individui “quasi esclusivamente di sesso maschile, e di età compresa tra i 18 e i 60 anni; anche se in alcuni casi è stata registrata la presenza di minori”. La maggior parte di loro arriva da Asia, Sudamerica, Africa sub sahariana e Medio Oriente; e in alcuni casi la partenza è avvenuta da aree di crisi, come la Siria o l’Afghanistan. Nelle campagne laziali, ad esempio, è molto consistente la presenza dei Sikh provenienti dal Punjab indiano: secondo una stima della Cgil a fronte di 12 mila in regola ce ne sarebbero altrettanti irregolari, gran parte dei quali in condizione di sfruttamento. In Lombardia, invece, c’è una forte presenza sudamericana, soprattutto di cittadini salvadoregni, che quasi sempre vengono utilizzati in servizi di logistica o volantinaggio. Secondo Marchisella, comunque, “in molti arrivano anche da paesi Comunitari: abbiamo registrato casi che riguardavano cittadini bulgari, rumeni, polacchi e addirittura spagnoli”.
“Molto spesso - continua Marchisella - gli abusi iniziano già prima della partenza: solo per affrontare il viaggio molti hanno contratto un debito con usurai, agenzie specializzate, un parente o un intermediario residente in Italia. A seconda della provenienza, la cifra varia dai 300 alle 50 mila euro, e tende a salire notevolmente se nel ‘pacchetto’ è incluso un posto di lavoro. Per garantire che il debito venga onorato i migranti sono sottoposti a minacce, violenze e ritorsioni: spesso, l’oggetto del ricatto sono i familiari; mentre in alcuni paesi africani non è raro il ricorso a riti voodoo”.
Il mercato dei documenti. Stando alle testimonianze delle organizzazioni interpellate dal gruppo Abele, poi, un altro affare decisamente lucroso riguarda l’emissione di documenti: secondo Carmela Morabito della cooperativa Parsec di Roma, “per i braccianti della provincia di Latina esiste un vero e proprio tariffario, che fissa il prezzo di un nulla osta al lavoro tra i 5 e i 15mila euro, e quello di un certificato medico sui 300 euro”. E anche nella zona di Prato, interessata da un intensificarsi di controlli dopo il rogo dell’anno scorso, secondo Silvia Callaioli della cooperativa Pontedera (Pisa) “è quasi certa l’esistenza di una centrale per la falsificazione di contratti di lavoro e permessi di soggiorno”.  Quasi a ribadire, ancora una volta, che il business dei migranti non inizia e non finirà con “mafia capitale”. “E anzi - conclude Monsignor Perego -  proprio il processo alla cupola romana potrebbe far luce su un nuovo aspetto della questione: perché, quando i legami d’affari tra i vari clan saranno noti, non è escluso che venga fuori un filo che lega le organizzazioni che si occupavano d’accoglienza a quelle che tengono in piedi sistemi di sfruttamento vero e proprio”. (ams)



Gli immigrati ci rubano il lavoro? La risposta dei The Jackal
Al supermercato, nella sala chirurgica, in officina. Basta distrarsi un attimo che al lavoro, al nostro posto, troviamo un'altra persona. Non un lavoratore qualsiasi, s'intende, ma un immigrato. Che ruba il lavoro agli italiani. La satira dei videomaker, ospitata nella nuova puntata di Announo condotta da Giulia Innocenzi, prende di mira uno dei tormentoni degli ultimi anni. Ma sono gli immigrati che rubano il lavoro agli italiani o il contrario?

http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/gli-immigrati-ci-rubano-il-lavoro-la-risposta-dei-the-jackal/186304/185201




Il migrante ha una laurea? In Italia non viene Così il Paese spreca una risorsa enorme
Il grado di istruzione di chi lascia il proprio Stato aumenta. Ma noi non sfruttiamo questa risorsa perché offriamo posti di lavoro poco qualificati. E chi ha la possibilità di scegliere cerca fortuna altrove
l'Espresso, 12-12-2014
Paolo Fiore
Altro che terra promessa. L'Italia è, bene che vada, una porta d'ingresso verso l'Europa. Perché i nuovi migranti, sempre più istruiti, quando possono scelgono altre destinazioni.
Il popolo dei migranti è lontano dall'iconografia degli sbarchi. Anche chi sceglie un altro Paese in base a una specifica posizione lavorativa è un migrante. Ne viene fuori un quadro sfaccettato. Con una costante: né i migranti per scelta né i disperati del mare guardano all'Italia come all'Eldorado.
Mettendo da parte per un momento l'aspetto umanitario, si tratta di un'opportunità persa. Anche alla luce di un dato: nel 2011, su 113 milioni di migranti dell'area Ocse, ce n'erano 35 con una formazione universitaria. Quasi uno su tre.     
Un'opportunità per i Paesi che questi migranti li accoglie. Un'opportunità che l'Italia si sta facendo sfuggire. È il quadro che emerge da due documenti dell'Ocse: l'International migration outlook e il Social, Employment and Migration Working Papers.
In dieci anni, i migranti con una laurea sono aumentati del 70%. L'Italia non è in controtendenza: il numero degli stranieri residenti con alti livelli di istruzione è raddoppiato. Peccato però che l'Italia sia uno dei pochi Paesi (assieme a Irlanda, Giappone e Messico) nei quali la percentuale di migranti altamente istruiti si è abbassata.
Nella classifica Ocse, l'Italia contende alla Slovenia l'ultima piazza. Nel nostro Paese solo un immigrato su nove è laureato. Tradotto: nonostante il popolo dei migranti sia sempre più istruito, in Italia arrivano soprattutto stranieri senza il pezzo di carta. Nel più classico gatto che si morde la coda, i posti di lavoro offerti ai migranti sono poco qualificati. Capita di incontrare Anil, venditore di rose indiano con studi di ingegneria. O Qiang, un ragazzo cinese che gestisce un bar a Milano con una laurea in economia internazionale in tasca. E così, chi ha alle spalle anni di studio e la possibilità di scegliere preferisce tentare la fortuna altrove.  
Colpisce la cronica incapacità di fare passi avanti. La percentuale dei laureati tra i migranti che risiedono in Italia da più di 5 anni è identica a quella degli arrivi recenti. La media Ocse ha un altro passo: meno di 30 laureati su 100 tra i migranti di vecchia data; quasi 40 tra i nuovi.  
In Australia, Canada, Regno Unito, Israele, Lussemburgo, Nuova Zelanda ed Estonia, la percentuale di lavoratori altamente istruiti nati all'estero supera quella dei meno qualificati.
La crisi pesa. Nel 2013 il tasso di disoccupazione tra gli immigrati è salito al 17%, oltre quello di coloro che l'Ocse definisce “nativi”. Nel 2003, un double deep fa, c'era stato uno storico sorpasso: con un tasso del 6%, la disoccupazione degli immigrati era stata inferiore a quella di chi in Italia ci era nato.
E così la recessione, con buona pace degli urlatori che additano l'invasore alle porte, spaventa più dei leghisti. E rappresenta un muro d'ingresso senza cemento. I migranti che sono arrivati in Italia nel 2012 e hanno deciso di rimanerci sono stati 321.300. Il 10% in meno del 2011. Eppure la percentuale degli stranieri residenti, che pagano le tasse al Fisco, non è mai stata così alta.
Perché, nonostante tutto, c'è ancora chi crede nell'Italia. Sono quei genitori stranieri che hanno deciso di avere un figlio pur sapendo che, nato su suolo italiano, non sarà italiano. Nel 2012 i nuovi nati sono stati 80 mila. Una culla su sei. L'Ocse, con il gergo crudo dell'analisi statistica, li chiama Foreign Children, bambini stranieri.



A Tovarnik, dove i cittadini erano rifugiati ed ora sono diventanti l'avamposto della Fortezza Europa
Reportage. Viaggio nella cittadina croata al confine con la Serbia, dove tutta la popolazione ha vissuto l'esilio al tempo della guerra nell'ex Jugoslavia e ora vede i siriani attraversare la frontiera senza documenti. Il sindaco: "non sono criminali, stanno lasciando sofferenza e dolore". Ma l'Ue si avvia a farne un nuovo avamposto della Fortezza Europa
la Repubblica.it, 12-12-2014
RAFFAELLA COSENTINO  (traduzioni dal croato di Barbara Matejcic)
TOVARNIK (Croazia, confine serbo) - Da Tovarnik, duemila anime nella pianura semidisabitata della Slavonia, si vede la dirimpettaia cittadina serba di Sid. In mezzo passa il nuovo confine terrestre dell'Unione europea, da quando, nel 2013, la Croazia è diventata il ventottesimo Stato membro. Due valichi di frontiera con le rispettive dogane, quello europeo e quello serbo, tagliano il paesaggio piatto e dividono una terra che appena un quarto di secolo fa era unita sotto la bandiera Jugoslava. In mezzo, una fila di tir incolonnati, con le loro merci pronte a varcare liberamente la soglia europea. In quelle poche centinaia di metri di terra di nessuno c'è anche il cimitero della minoranza serba di Tovarnik. Tombe risalenti a prima della guerra nella ex Jugoslavia, con i nomi e le date incisi in caratteri cirillici, scheletri rimasti intrappolati in una no man's land. Tra poco potrebbero restare bloccati qui i sogni di una vita migliore dei tanti migranti che passano il confine irregolarmente per entrare in Europa dalla rotta balcanica.
Avamposto sulla rotta balcanica. Una via molto meno conosciuta di quella che passa da Lampedusa, ma altrettanto importante. Tanto che l'Ue si sta attrezzando e, a pochi passi dal valico, si appresta a costruire un nuovo avamposto della Fortezza Europa. Entro un anno e mezzo sorgerà in questa campagna desolata un centro di "transito" per i migranti che attraversano la frontiera croata. Nei fatti sarà una prigione per 50 persone, chiusa da sbarre, lucchetti, muri e telecamere con la funzione di respingere in Serbia o in altri Stati le persone che entrano illegamente. "Sono le condizioni per entrare negli accordi di Schengen - spiegano a Repubblica.it fonti della polizia da Zagabria - il progetto è finanziato con fondi europei. Invece di portare i migranti nel centro di detenzione di Jezevo, vicino alla capitale, tutte le procedure saranno fatte sulla frontiera e saranno meno costose e più veloci. Dagli 8 ai 15 giorni, secondo l'accordo bilaterale con il Paese che dovrà riprenderli". Nel centro dovrebbe anche essere esaminata la possibilità di chiedere asilo politico in Croazia, ma molti non vogliono fermarsi, puntano a proseguire il viaggio verso i Paesi del Nord Europa.
Un tempo rifugiati, oggi cittadini europei. Il paradosso è che la popolazione croata di Tovarnik è composta quasi interamente da persone che nella loro vita sono state rifugiate e per questo guardano con benevolenza i migranti che ora attraversano il confine illegalmente. I ventenni di oggi sono nati in esilio, perché i loro genitori hanno dovuto abbandonare le loro case per circa un decennio, dal 1991, anno in cui nella vicina Vukovar iniziò l'assedio dell'esercito jugoslavo e delle milizie paramilitari serbe, le sanguinarie "tigri" di Arkan, fino al 1998 quando cessò l'occupazione. I più fortunati tra quelli che tornarono, trovarono nelle fosse comuni i resti dei loro cari scomparsi. Altri ancora stanno cercando i dispersi, circa un migliaio di persone in tutta la zona. Le ferite di quella guerra europea sono ancora visibili nelle case rimaste squassate dai bombardamenti e con i muri crivellati di colpi, abbandonate per lo più dalla minoranza serba.
Telecamere sul Danubio. "Sono ritornata a casa nel 1998, il 15 gennaio, dopo la liberazione - racconta Ruza Veselcic Siakolcic sindaca facente funzioni, dopo le dimissioni del primo cittadino - Fin da allora abbiamo notato l'inizio del fenomeno migratorio con i romeni e i bulgari, poi sono arrivati gli afgani. Negli ultimi anni vediamo anche cinesi ma ora passano soprattutto siriani, in fuga dalla guerra". Negli anni non sono cambiati solo i flussi migratori ma anche la stretta sui controlli, in particolare dopo l'ingresso nell'Ue. "Le persone attraversano il confine a piedi, cercando di nascondersi nella campagna - continua la sindaca - prima entravano anche attraversando il Danubio, ora però ci sono le telecamere lungo il fiume".
"Loro sono come noi". "Capita che di notte ci siano furti di vestiti - continua Ruza - ma la gente capisce che i migranti non sono criminali, stanno lasciando sofferenza e dolore". Ruzica Curic è una cittadina impegnata nel sociale con un'Ong locale. Nel 2000 fu rubata la macchina del marito e poi ritrovata al confine con la Slovenia. Qualcuno l'aveva usata per passare la frontiera. "I criminali prendono gli aerei non scappano in questo modo, come i poveri, e spesso ci sono bambini e donne - racconta Curic - Una volta d'inverno c'erano meno 19 gradi e i miei vicini presero in macchina due uomini, una donna e un bambino di due mesi. Le persone non si lamentano perché siamo stati rifugiati per 8 anni, loro sono come noi". Il dentista del paese è un siriano sposato con una croata. A Tovarnik hanno raccolto coperte, vestiti e medicine da mandare in Siria. "Notiamo ora più persone venire e qualche volta la polizia li respinge in Serbia - continua la donna - a volte si fanno male scappando dalla polizia".
"Su di noi al confine chiudevano un occhio". Ruzica Curic è stata rifugiata in Francia, ha conosciuto la diaspora croata, sa cosa vuol dire non avere più una casa. Nel 1998 il cadavere del suocero è stato rinvenuto tra i 76 gettati in una fossa comune, 70 civili e sei soldati, tra cui anche il prete che voleva lasciare il paese per ultimo. "Pensiamo che le persone che oggi passano il confine abbiano vissuto cose simili e per questo per noi non sono un problema - dice - Tutti noi abitanti di Tovarnik all'epoca fuggivamo dai bombardamenti e abbiamo passato le frontiere senza documenti, ma eravamo in una posizione migliore rispetto a quelli che arrivano ora, perché su di noi le guardie al confine chiudevano un occhio".
Storie che si tramandano anche ai giovani. Come Denis, ventenne con l'orecchino e i capelli corti, che è nato in esilio e degli esiliati di oggi dice: "le persone partono perché cercano una vita migliore". Presto emigrerà anche lui perché non ha lavoro e vuole cercare un'occupazione sulla costa, in Dalmazia, oppure andare in Germania. Secondo Denis "i migranti potrebbero portare cose positive al paese perché è sempre bene il mix di culture".  
Periferia della civilizzazione. Tovarnik vive una fase di spopolamento, gli abitanti sono diminuiti dopo la guerra e non ci sono fabbriche, la disoccupazione è alta. "Siamo la periferia della civilizzazione - commenta Ruzica Curic - Dieci anni fa c'erano 25 bambini alla scuola elementare e ora sono solo 15. Diminuiscono sempre". "Ci sono 100 uomini giovani che non trovano moglie, volevano andare a prendere 100 donne in ucraina", scherzano la sindaca e l'attivista. "I migranti potrebbero portare cose buone a Tovarnik - continua con una battuta la prima cittadina - specialmente se arrivano le donne a sposarsi qui. In 20 anni magari i gruppi folk della Slavonia, in abito tradizionale, avranno facce straniere, forse africane. Infatti potranno stare qui solo a condizione che suonino la nostra musica country".
Il centro di "transito". La sindaca però ha informazioni molto vaghe sul tipo di centro che sarà aperto in Paese. Alla gente interessa perché creerà posti di lavoro. "Sarà un centro di accoglienza in cui le persone staranno un mese al massimo. Sarà un grande edificio, ci lavoreranno 40 poliziotti e 15 impiegati  -  dice - Non ci dispiacerebbe che la struttura fosse aperta, perché i migranti non sono pericolosi. Ma solo la polizia e chi l'ha progettato sa esattamente come sarà fatto". "Il finanziatore è l'Ue perché per loro è facile tenere qui le persone per gli accordi di Schengen  -  commenta l'attivista Curic  -  se la gente che arriva qui dopo un lungo viaggio venisse rinchiusa, sarebbe tremendo".
Il bar dei migranti macedoni. Uno dei pochi bar aperti a Tovarnik è di due emigranti macedoni, Amet ed Emal Rusiti, padre e figlio, i quali raccontano che spesso hanno fatto da traduttori per la polizia quando fermavano gli albanesi irregolari. "Dicevano che avevano venduto tutto per questo viaggio, in cerca di una vita migliore  -  raccontano i Rusiti - Dopo la guerra i macedoni passavano di qui, ma ora non più perché ottengono i visti facilmente. Il flusso è cambiato, prima era gente costretta a partire per la povertà, ora per la guerra, vediamo soprattutto siriani". Aiutare o respingere? Anche loro non hanno dubbi sul fatto che vanno di sicuro aiutati, anche perché i migranti portano sempre qualcosa di positivo. "A Tovarnik mi trovo bene e la gente è accogliente, ma qui pago anche le tasse, dovrebbe esserci libertà di movimento", conclude Emal.
Controlli più stringenti sui treni. L'ultima tappa è la stazione, da cui passano tanti vagoni merce in arrivo da Belgrado. La polizia non rilascia informazioni. Ma il personale della compagnia ferroviaria dice che la sicurezza è molto alta, controllano ogni cargo insieme agli agenti. "I controlli sono più rigidi da quando la Croazia è entrata nell'Ue", confermano. L'ufficio della polizia di frontiera si trova al piano superiore, è quasi cadente, ci si arriva passando da una vecchia scala di legno traballante. Ma il telefono, la stampante, e le attrezzature sono tutte marchiate con l'adesivo blu delle stelle europee. In croato e in inglese c'è scritto: "fornito dell'Ue". Il monitor, dicono, viene dall'Italia.
 

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