Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Sadegh. Un lungo viaggio per essere felici.

Raccolta da Paolo Seren Rosso

E’ una tiepida serata estiva. Sadegh ha accettato di buon grado di raccontarmi un pezzo della storia che ha segnato la svolta più radicale della sua vita.
Non lo conosco affatto, ci siamo sentiti per telefono e abbiamo deciso d’incontrarci al parco del Valentino dove l’associazione ASAI ha eretto un tendone per qualche giorno.  Di lui so soltanto che è un ragazzo Afghano.
Arrivo un po’ in anticipo, chiedo a qualcuno che mi indica un gruppetto di ragazzi in mezzo ad un grande prato intenti ad organizzare un qualche gioco di squadra.
Mentre mi avvicino uno di loro si stacca dal gruppo e mi viene incontro sorridendo: “Ciao! Sono Sadegh!”. Rimango stupefatto nel rendermi conto che se non l’avessi saputo, quel minuto ragazzo con quel sorriso sfolgorante, l’avrei tranquillamente scambiato per un tibetano. Cerchiamo un posto tranquillo e quando siamo pronti comincia a raccontare.

Io sono Sadegh, vengo dall’Afghanistan, ho 22 anni, sono nato in Afghanistan a
Ghazni
-Sei sposato?
- No no, sono libero
- Perché hai deciso di partire?
- Perché la situazione lì in Afghanistan non era tranquilla, c’era la guerra e così i miei genitori hanno deciso di mandarmi via. Grazie a loro che hanno deciso di mandarmi via!
I talebani ogni zona che occupavano prendevano i ragazzi giovani per portarli al nord per fare il militare, per fare la guerra contro di noi, contro la nostra etnia, per questo i miei genitori hanno deciso di mandarmi via da casa mia, di mandarmi via dalla mia città.
Sono rimasto due anni in Pakistan, 10 giorni in Iran… E sono qua da quattro anni e mezzo, sono sei anni e mezzo che sono fuori dall’Afganistan, da quattro e mezzo qui a Torino.
Un pomeriggio sono andato a giocare a pallavolo. Tornato a casa, tutto era tranquillo. Quando ho visto mia madre mi ha abbracciato. Ho visto mia madre che era un po’…  Preoccupata, mah… Anche mio padre mi ha abbracciato. Quella sera abbiamo mangiato insieme, poi mio padre mi ha detto questa cosa. Mi ha detto che dovevo andare via di là perché la situazione diventava sempre più grave. Mi ha raccontato tutto quanto. Io non sapevo che i talebani prendevano tutti i ragazzi giovani . Mio padre mi ha spiegato tutto. Poi, mio padre quella sera mi ha legato tutti i soldi qua alle mie caviglie e mi ha mandato via da casa. Per quasi un’ora mi ha accompagnato da casa verso una città che si chiama Mugul. Io da casa fino a li sono andato a piedi, per quasi tredici ore.
Il mio paese è in montagna, in una grande, grande montagna. Io, ho passato tutta la montagna.
Ho passato tutta la notte vicino a una grande, grande pietra, ero su una strada che porta verso Kanda Har, io sono andato li, in quel posto, vicino alla grande pietra. Lì mi sono fermato su quella strada dove ogni tanto passavano delle macchine. Io cercavo di fermarle, ci provavo ma non si fermava nessuno.
Era mattina presto, finalmente è arrivato un camion, si è fermato, mi ha preso, mi ha nascosto sotto una sedia e mi ha portato fino a Kanda Har. Quell’autista veramente era molto gentile, molto gentile, si è comportato molto bene, è stato molto bravo con me. Anzi, mi ha detto: “Tu stai qua” ed è andato a cercare un taxi per me.
Lui era un Pascthun, era molto bravo perché ha sempre lavorato con la nostra etnia, faceva del bene, era veramente una persona brava, gentile, ha cercato e trovato un taxi per me, però in realtà il taxi non andava solo per me. L’autista del taxi mi ha detto: “O paghi per cinque persone e io ti porto fino in Pakistan, altrimenti io non posso andare in Pakistan solo per te.” Io non avevo tanti soldi per pagare per cinque persone, per tutti quanti. Mi ha fermato sette ore nel taxi, non avevo niente da mangiare o da bere, ho parlato con il tassista, gli ho detto che avrebbe dovuto portare un po’ da bere per me, allora poi mi ha portato qualcosa. Dopo sette ore ha trovato altre cinque persone, ci ha messo nel taxi e ci ha portato fino in Pakistan. Fino a Quetà, ho pagato tanto e sono arrivato in Pakistan.

- Il viaggio è stato lungo?

Si dall’Afghanistan fino al Pakistan è stato durissimo. Ero molto preoccupato che mi vedessero i talebani. Tutta la zona, dalla mia città fino a Kanda Har era occupata dai talebani, la nostra faccia era molto riconoscibile per via dei tratti della nostra etnia Hazara.
Sicuramente se mi avessero visto, avrebbero riconosciuto subito di che etnia ero. Purtroppo erano proprio contro di noi.
Sicuramente, mi avrebbero preso per portarmi alla guerra o chissà che altro, sicuramente niente di buono.
Poi sono arrivato in Pakistan, e dopo 15 giorni che stavo in un hotel ho parlato con il padrone dell’hotel e gli ho detto che cercavo un lavoro, per qualche cosa da mangiare… Lui ha cercato un lavoro per me, io ha cercato in una casa.
In quella casa facevano dei dolci, dei panini. Li facevano in casa poi andavano a venderli fuori. Io non ce l’avevo il permesso di soggiorno e non uscivo tanto. Ho cominciato a lavorare li. Mi davano da mangiare e io lavoravo, non mi pagavano niente… Per due anni.
Solo da mangiare, un posto per dormire e lavoravo. Non avevo delle ore fisse. Lavoravo dalla mattina alla notte, dalla mattina alla notte e lavoravo, questo è tutto. Poi una mattina, ho scritto una lettera a mio padre, gli ho spiegato la mia situazione e tutto quanto, che non c’era futuro, non avevo niente, “solo mangio e lavoro”. E poi mio padre mi ha mandato una lettera… Si, è riuscito a mandarmela perché la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, è molto frequentata da gente afgana .
Così io sono andato lì, in quell’hotel e gli ho mandato una lettera, la lettera è arrivata a mio padre e mio padre tramite un’altra lettera mi ha risposto. Sì, io veramente ero contento, ero molto contento… Dopo due anni… E poi gli ho spiegato, gli ho scritto tutto lì sulla lettera, che sarebbe venuta una persona, con quel nome, all’indirizzo suo, gli ho detto tutto quanto… Dopo venti-venticinque giorni quella persona è tornata, mi ha preso e mi ha portato in Iran. Sì, in Iran ho passato il confine a piedi fino in una città che si chiama Esahan. Già io chiedevo ma loro non mi spiegavano. Dove siamo? Dove non siamo?.   Fino a Esahan siamo andati a piedi.
Ci sono parecchie ore di cammino, sì, tante, tante, quasi sedici - diciassette ore di cammino. E sono arrivato in Iran. Ero a casa degli amici suoi che non conoscevo. Quella persona mi ha portato li, dopo due o tre giorni, è sparita, non l’ho vista più, mi ha dato nelle mani di altre persone, iraniani.
Si, mi ha lasciato lì e dopo tredici - quattordici giorni è tornato un altro iraniano e mi ha preso con un gruppo di altri profughi, erano misti iraniani, bengaliani, pakistani, iracheni, tutti quanti. Arrivavano da tutte le parti, da tutti i paesi.
Lui portava tutti insieme in Turchia. Due giorni e due notti di cammino dall’Iran alla Turchia. Siamo saliti su una montagna, scesi a una città, dalla città  di nuovo alla montagna, dalla montagna a un’altra montagna. Erano montagne molto alte e faceva molto freddo. Una volta, veramente, ero seduto così (accovacciato) con i piedi piegati quando ho cercato di alzarmi non riuscivo a farlo, non potevo alzarmi ero tutto gelato e poi piano piano mi sono mosso e ho cominciato a camminare ha cominciato a circolare il sangue… Si, e poi sono arrivato in Turchia dopo due notti e due giorni, credimi che non ho avuto niente da mangiare e niente da bere, faceva un freddo… Ero gelato. Anche gli altri profughi… Diciamo che era una situazione veramente brutta.
Eravamo anche poco vestiti. Sì, perché dicevano che non dovevamo prendere roba perché se no in montagna non potevamo camminare etc. etc.
Di notte camminavamo perché non vedessero i militari o altra polizia di frontiera, e poi di giorno dormivamo due o tre ore.
Veramente quella notte… L’ultima notte, due o tre bengalesi sono caduti e non potevano più camminare. La nostra guida ci ha detto: “Non guardate niente, andiamo via prima che ci prenda la polizia di frontiera”, quelli sono rimasti là e non so che fine abbiano fatto… Io ho visto questo con i miei occhi, ho visto davvero questa cosa. Sono caduti e la guida ha detto: “Non guardate niente, andiamo via che non ci prenda la polizia di frontiera”. Senza mangiare, senza bere siamo arrivati in una città.
Li sono rimasto quarantasei giorni chiuso, chiuso… Proprio chiuso in una stanza dove c’erano 46 persone, chi sedeva, chi stava in piedi in piedi. Era così, uno sopra l’altro. Quando sono arrivato li, mi hanno dato, dopo quattro ore e mezza, solo un pezzo di pane. Solo pane, non c’era niente niente dentro. Quarantasei giorni  ho passato così.
Da bere c’era un rubinetto soltanto e bevevamo da lì,  era un’acqua che sembrava non potabile. Non so da dove arrivava.
Poi la guida è tornata una notte, ha chiamato il mio nome e ha chiamato altri tre indiani, due iracheni e due afgani e mi ha portato in un’altra casa e mi ha messo in un camion, metà del camion era chiuso e mi ha messo li. Dietro c’era una gabbia con dentro delle galline e dei galli, e qualcos’altro; se arrivava la polizia, c’era uno vicino alle galline che dava fastidio alle galline, così loro facevano rumore, e la polizia avrebbe pensato che si trasportavano delle galline, mentre l’altra metà del carico  eravamo noi. C’era -scusami- una puzza che era schifosa; è grazie a Dio che non sono morto.
E poi sono arrivato a Istanbul. Appena  sono arrivato a Istanbul mi hanno lasciato così … Solo, non sapevo più… “ Dove vado?”. Sapevo solo del parco di Tumberlan, conoscevo quello; sì, perché prima ho chiesto, volevo informarmi su dove andare.  La guida invece, mi ha lasciato a Istanbul ed è sparita e non ho saputo più dove fosse andata. Sono rimasto lì chiedendomi: “Adesso dove vado?”.
E’ andata via e io non sapevo nulla. Chiedevo a gli altri: “Ma dov’è la nostra guida?” e loro mi rispondevano: “ Boh! Chi lo sa?”.
Sono andato al parco di Istanbul, due giorni sono rimasto lì e piano piano ho conosciuto altri afgani. Sì, perché ci sono tanti afgani lì che vengono…
Giocavo a palla a volo e… Non conoscevo niente e andavo da loro, mi sono presentato e ho raccontato la mia situazione a tutti quanti, la mia storia, così loro mi han portato a casa loro.
Si per due giorni ho dormito lì nel parco e poi quando ho conosciuto gli afgani loro mi hanno portato in un posto. Sono andato lì dove dodici afgani vivevano in un piano terra…  Va bè,  pazienza.
Dopo tre giorni sono partito da lì, non ero più con il gruppo precedente, ero in quella stanza con gli altri afgani. In seguito ho conosciuto un’altra persona che è arrivata lì.  Ho parlato con lui, ho pagato anche un sacco di soldi e lui mi ha portato da Istanbul in un’altra città.
Da quella città che non mi ricordo come si chiama, mi ha messo in una barca che veramente era troppo vecchia, come camminava faceva tanto rumore e io pensavo:  veramente, qui andiamo sotto il mare. Centotrentasei persone tutte sulla barca.
Dopo sei giorni e sei notti abbiamo passato il mare in tempesta. Abbiamo passato tanta tempesta che veramente l’acqua saliva sulla barca. La gente la svuotava ognuno con un barattolo. Buttavamo via l’acqua per non andare sotto.
Finalmente siamo arrivati in Calabria… Per fortuna.
All’inizio della traversata ci davano da mangiare e da bere, poi dopo due giorni e’ finita l’acqua e poi tutti che ,come si dice… Che vomitavano e poi le donne che piangevano, i bambini che piangevano…
I bambini chiedevano da mangiare e da bere, ma non c’era… Siamo arrivati in Calabria e non c’era nessuno, non ci ha visti nessuno, era mattina presto.
La barca è andata vicino alla spiaggia. Siamo scesi c’erano le donne che non riuscivano a nuotare, non sapevano nuotare, così ci siamo dati la mano uno con l’altro, ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti e… Sì, è stato difficile.
Poi uno di noi ha fatto la doccia sotto una … Lì  non si sapeva quell’acqua da dove veniva…Questo è riuscito ad andare in città, lì l’hanno preso i carabinieri. La polizia gli ha chiesto da dove veniva…Lui gli ha detto che veniva da una barca e già dopo mezz’ora la polizia è arrivata e ci ha presi tutti quanti.
I carabinieri ci hanno portati in un centro di accoglienza. I volontari ci hanno dato  acqua e da mangiare. Dopo ci hanno portato in un campo militare, lì facevo la doccia, ci davano da mangiare, dei vestiti le scarpe e tutto quanto.
Poi dopo due mesi han deciso per me, mi han chiamato per interrogarmi, mi han fatto fare la domanda. Io ho scelto di rimanere qui in Italia. I miei amici, quelli che ho conosciuto nel viaggio, sono andati tutti avanti, chi in Inghilterra chi in Germania.
A me han dato il permesso di soggiorno valido per tre mesi e duecentocinquanta euro. E dopo due mesi mi hanno mandato a Macerata. Da Macerata sono andato a Torino.
A Torino mi ha mandato un gruppo umanitario che si chiama PMA, mi hanno trovato un posto in una comunità a Cuorgnè.
Allora sono andato a Cuorgnè in questa comunità dove ho vissuto due anni.
Lì non mi trovavo bene, dico la realtà, non mi trovavo bene perché quella comunità è proprio in montagna. Sono rimasto lì due anni e non imparavo niente, non ho imparato a parlare l’italiano e non ho conosciuto nessuno lì. Nessun italiano, solo quelli che lavoravano nella comunità, animatrici e animatori, e basta.
E’ un posto fuori dal paese, in montagna, non passava nessuno da lì, come potevo conoscere qualcuno? Veramente è per quello che non mi trovavo bene.
Dopo due anni mi hanno chiamato a Roma per fare un colloquio per avere il permesso di soggiorno. A Roma ho fatto il colloquio e mi hanno dato risposta positiva; dico grazie a loro. Ci sono molti ragazzi che aspettano una risposta positiva e non riescono ad averla, mi dispiace per loro.
Appena ho preso il permesso di soggiorno ho lasciato la comunità e sono finito qui a Torino. A Torino mi trovavo malissimo, tutto il giorno camminavo, camminavo, cercavo lavoro ma niente… Come potevo trovare lavoro? All’ufficio stranieri, mi hanno dato un posto per dormire alla casa del mondo… Sono rimasto li per sei o sette mesi. A Torino conoscevo solo un amico dello Sri-Lanka che era in comunità con me. Lui aveva lasciato la comunità prima di me ed era venuto a Torino e quando è uscita la sanatoria ha fatto domanda ed ha avuto risposta positiva. Così l’ho chiamato e gli ho raccontato la mia storia e lui mi ha detto: “Non ci sono problemi, tu vieni da me e io ti posso aiutare”. Io l’ho ringraziato e così grazie a lui ho conosciuto l’ASAI. Il mio amico aveva fatto un corso di italiano all’ASAI. Dico grazie all’ASAI! Grazie mille e mille volte grazie all’ASAI! L’ASAI mi ha trovato lavoro, ho conosciuto tante persone di nazionalità diverse, Ho trovato tanti amici di nazionalità diverse . Uno di loro mi ha trovato un lavoro a Leinì, lavoravo in un ufficio in una fabbrica di grissini. Poi non mi ha fatto il contratto perché non avevo il permesso di soggiorno in regola. Ho parlato con Danila che è una volontaria dell’ASAI e grazie a lei e grazie ad Anna - che mi aveva chiesto quale lavoro mi piaceva  e io gli ho detto che avevo lavorato in pasticceria- ho trovato un lavoro in pasticceria e veramente questa cosa era … Sognavo questa cosa ! Mi hanno trovato questo lavoro e veramente adesso vivo nel mio sogno… Grazie all’ASAI e grazie a Danila e Anna che mi hanno trovato questo lavoro! 
Ho fatto tirocinio sei mesi e dopo sei mesi mi hanno fatto il contratto. Lavoro in pasticceria che si chiama Platti. Sono molto contento, davvero –davvero ! Grazie a Danila, ad Anna e all’ASAI. Adesso sono molto contento perché ho tanti amici… Prima desideravo trovare lavoro perché anche la mia famiglia ha bisogno di aiuto e voglio aiutare mia madre...
Dopo di me anche la mia famiglia è partita dall’Afghanistan per l’Iran. Li ho cercati e dopo tanto tempo li ho trovati lì. Io ho due fratelli più piccoli di me, poi ho tre sorelle più piccole di me; io sono il più grande. Tutti quanti insieme con i miei genitori sono partiti dall’Afghanistan per l’Iran.
Adesso mio padre non c’è più, è morto nell’estate scorsa. A settembre sono andato lì,
non sapevo niente di mio padre. Quando sono arrivato ho salutato tutti quanti… Abbracciavo le mie sorelle e poi ho chiesto: “Dov’è mio padre?” e mi hanno detto che era andato a lavorare… E poi alla sera, quando ho visto che non tornava dal lavoro, ho ancora chiesto … Allora mi hanno spiegato tutto quanto e… Scusami…
Quando da Cuorgnè sono venuto qua non avevo neanche un soldo, non potevo comprare neanche un panino, questo ora è già passato. Devo molto al mio amico, quel ragazzo dello Sri-Lanka, devo ringraziare lui che ogni tanto mi dava dei soldini per comprarmi qualcosa.
In quel periodo ho preso due volte la multa. L’ho presa perché non avevo il biglietto dell’autobus. Sono andato all’ufficio stranieri e l’ufficio stranieri ha scritto una lettera; mi hanno spiegato bene e mi hanno detto: “Mi raccomando, non aprire questa lettera”. Poi mi hanno dato un indirizzo, mi hanno detto che dovevo portarla, lì in corso Vittorio in quella chiesa di evange... Come si chiama? Vange.. Sì, evangelica. Lì l’ho portata a una signora che ha aperto la lettera e tutto quanto. Mi ha dato dei soldi, ha fatto due telefonate e… Davvero, appena ho preso i soldi sono andato a pagare la multa perché io sapevo… Ero molto preoccupato perché erano già due mesi, se non pagavo la multa aumentava, per questa cosa ho pagato subito. Trentasei euro ho pagato questa multa e già mi ero messo a pensare di pagare anche quell’altra…
Quando mi hanno trovato quel lavoro ho dovuto aspettare che mi pagassero, così poi ho potuto pagare anche l’altra.
Adesso, davvero sono molto contento e non sento tanto… Quello che mi manca è la mia famiglia. Mi alzo alle cinque, del mattino e vado a lavorare, devo essere alle sei a lavorare, lavoro fino alle due- due e mezza- tre. Poi vado a casa, prendo qualche libro, leggo e poi il libro mi fa dormire… Dormo magari un’oretta - un’oretta e mezza e poi vengo qua al Valentino, gioco a palla a volo, guardo i miei amici, gioco a calcio e faccio queste robe qua. Ci sono delle persone, degli amici più importanti di altri ma per me è importante quell’amico che mi dà dei consigli buoni. I miei amici sono tutti bravi, tutti sono buoni, io non vedo nessuno cattivo però l’importante è quello che mi dà dei consigli buoni, è questo. Il mio migliore amico, il primo è questo ragazzo dello Sri-Lanka, che adesso anche abita con me insieme, è un ragazzo molto bravo. Lui lavora in un’impresa di pulizie. Anche lui si alza molto presto, alle cinque e non so fino a che ora lavora. Quello è il mio amico migliore è una persona generosa, gentile, è molto bravo.
Io oggi sono qui come rifugiato politico, adesso ce l’ho il permesso di soggiorno ogni due anni lo rinnovo, non lo so quando mi daranno la cittadinanza. Io ho letto un libro, la legge  diceva che un rifugiato politico prende la cittadinanza dopo cinque anni,  adesso sono quasi vicino ai cinque anni e vediamo, devo chiedere, devo chiedere, sì, non lo so… Prima di partire dall’Afghanistan ho avuto una vita veramente bella, tranquilla, serena, Io vivevo con i miei genitori, mio padre era contadino. Avevamo, abbiamo tanta terra nostra. Andavo a scuola e tornavo a casa, aiutavo mio padre, la mia mamma e… Sono un ragazzo di campagna! Era una vita veramente straordinaria, io ero tranquillo, sereno. Purtroppo è successo tutto questo. Ero molto contento della vita che facevo, molto contento; tutte le cose, tutte le cose venivano dalla terra. Noi compravamo solo benzina e olio, benzina e un po’ di olio che veniva da fuori, il resto veniva da casa. Era una vita veramente straordinaria, ero molto contento veramente. Andavo a scuola, tornavo a casa e andavo a giocare con i miei amici… Più di questo!
Oggi, dopo il viaggio… Dopo tanti anni da vagabondo, che stavo in giro, veramente adesso mi sento molto… Mi sento bene… Sì, mi sento tranquillo. Ho trovato tanti amici qua all’ASAI! All’ASAI! All’ASAI! (risata) Quando sono a casa mi mancano e dico sempre: “Voglio andare all’ASAI, voglio trovare i miei amici!”.
Il sogno che ho adesso è che dovrei…E’ ancora presto però, mi devo sposare, mi
devo fare una famiglia perché… Perché da sei anni e più non vivo nella mia famiglia, mi manca la mia famiglia. Adesso questo è il mio sogno. Adesso è ancora presto però, eh? Il mio futuro non lo vedo triste, assolutamente non lo vedo triste, sono contentissimo, ho trovato un buon lavoro…
Sono contentissimo, assolutamente voglio stare molto lontano dall’essere triste, sto cercando di stare lontano dall’essere triste. Non voglio essere triste! Poi ci sono tanti amici che mi danno felicità e io devo darla a loro la felicità, è questo che è molto importante per me. Magari riusciamo a dare la felicità uno all’altro e questo è molto importante per me. Cerco di essere lontano dalla tristezza, dall’odio.

- OK , grazie, per me può andar bene così ma se tu hai ancora qualcosa da aggiungere se ti viene in mente qualcosa che vuoi dire ancora…

- Sì, voglio solo aggiungere questo: quello che voglio è avere una meta… Voglio avere tanti amici, tutti di nazionalità diversa, senza differenza di età, senza differenza di religione, senza differenza di nazionalità.

- OK …

Stacco il registratore, lui mi guarda sorridente e commosso e aggiunge: “Vi ringrazio, ringrazio voi che fate queste cose perché è giusto che tutti devono sapere quello che succede. Perché la guerra? Perché le guerre? Io quando vengo qui al parco mi guardo intorno e mi dico “Ecco com’è la pace! Ecco cosa produce la pace, perché non può essere così anche da noi?”.

“Colomba bianca”

Dopo qualche tempo ci sentiamo di nuovo. Mi dice che gli farebbe molto piacere raccontarmi ancora qualcosa, che gli piacerebbe aggiungere un piccolo episodio al suo racconto e lo fa dicendomi che questa è una “piccola preghiera” .Questa volta mi ospita nella casa dove vive che condivide con il suo amico e qualcun’ altro.
Ci sistemiamo in cucina. Nonostante l’alloggio non sia molto grande il clima è di grande ospitalità e rispetto. Finiti i preparativi un amico che è passato a trovarlo si congeda salutandomi con estrema semplicità e cortesia. Ci sediamo attorno al tavolo e lui, sottovoce per non svegliare un ragazzo che dorme nella stanza accanto, inizia il suo racconto.

Appena uscivo da casa mia c’era un sentiero. Questo sentiero si divideva in due, da una parte andava a finire in un posto bello, molto bello dove cresceva ogni genere di frutta. Là non crescevano solo le banane , ma tutto il resto diciamo di sì. Quasi tutti i giorni andavo lì con i miei amici, era proprio un posto verde, verde ,verde… C’era anche un piccolo ruscello che era pieno d’acqua. Ogni giorno andavo lì, giocavo con l’acqua, sentivo le voci degli uccelli che cantavano, il suono degli insetti...
In un angolo un po’ meno verde mio padre piantava le cipolle allora ogni tanto i miei amici venivano li a trovarmi. Mio padre lasciava venire tutti quanti. Spesso la gente veniva a trovarci là. Lui ogni giorno andava lì, raccoglieva la frutta e la dava agli amici che la distribuissero a tutti, per me questa era una cosa molto importante.
Mio padre poi portava sempre grano o riso agli uccelli. Loro lo conoscevano. C’erano quegli uccelli bianchi e neri, le gazze che venivano sempre, loro conoscevano mio padre. Un giorno io sono andato li con un amico e ho visto una colomba bianca, era molto bella, e allora gli siamo corsi dietro per cercare di prenderla, era molto carina. Siamo riusciti a prenderla, l’ho portata a casa e l’ho messa dentro ad una gabbia, per un giorno, due giorni, tre giorni… Quando uscivo da scuola andavo a casa per vederla, quando ero a scuola mi mancava, ogni giorno giocavo con lei, perdevo tempo, gli davo da mangiare, facevo delle cose, non facevo i compiti, occupava anche spazio, mia madre non era molto d’accordo. Un giorno mio padre mi ha detto: “Tu devi lasciare questa colomba perché non va bene dentro la gabbia”.
Io mi sono arrabbiato molto, non volevo, gridavo: “No, no! Io gli do da mangiare, da bere e tutto quanto!”.
Il giorno dopo sono andato a scuola e quando sono tornato a casa sono andato dove tenevo la colomba e ho visto che la gabbia era vuota. Ho chiesto a mia mamma dove era la colomba e lei mi ha detto: “Non so, vai da tuo padre”. Sono andato da mia sorella e anche lei mi ha detto: “Non so”, ma lo sapeva e non me lo ha detto. Allora mio padre mi ha detto: “Veni che ti faccio vedere una cosa: oggi ho aperto la gabbia, ho aperto la finestra e ho liberato la colomba, adesso fai quello che vuoi”. Io ho iniziato a piangere ero ancora arrabbiato, piangevo e buttavo le cose per terra; quel giorno avrei anche voluto andare presto a giocare a pallavolo con gli amici. Allora mio padre mi ha preso e mi ha portato in camera, non era proprio la mia camera, era una stanza e mi ha lasciato lì. Dopo circa due ore mio padre arriva dalla finestra e mi dice: “Allora Sadegh, ti lascio andare a giocare a pallavolo o vuoi ancora stare qua?”. Io gli ho detto che volevo andare a giocare a pallavolo. “E allora guarda- mi ha detto- quando esci da quella porta tu diventi molto contento, no? Anch’io ho lasciato quella colomba che è diventata molto contenta perché è volata ed è andata via. Tutti siamo come quella colomba che tu hai tenuto tre giorni in carcere, nessuno ama le carceri; io non so se tu gli davi o no da mangiare e da bere, cosa mangiava o no… E adesso pensa ad ogni cosa che tu devi fare nella vita; questo hanno tutte le carceri, non si può vivere sempre in carcere senza libertà”.
Adesso mi rendo conto, mi ha colpito questa parola “libertà”, ho capito che è una cosa molto importante. Mi ha fatto capire molto bene tante cose. Adesso, ripensandoci, mi rendo conto di questo grande insegnamento che mi ha dato mio padre: non si può vivere senza libertà.
La mia storia l’ho chiamata un lungo viaggio per essere felici, un lungo viaggio verso la felicità.
Ho lasciato l’Afghanistan un giorno con un lungo e duro viaggio senza sapere cosa fare e dove andare, camminando sia a piedi che in macchina da paese a paese, da città a città, da montagna a montagna, con molta paura della polizia di frontiera. Avevo la testa piena di trincee. A volte mi domandavo: “Perché ti metti nei guai?”. Avevo fame, freddo, ogni ventiquattro ore ci davano da bere. Quando ero nella barca vedevo solo mare e cielo, vedevo salire le onde oltre la barca che si riempiva di acqua e la gente che la svuotava con un barattolo.
Un mio amico mi ha fatto una domanda: “Sadegh, dove vuoi andare? Perché non torni in Afghanistan a studiare ? Che cosa ti credi di essere, uno con i soldi? Sei senza il permesso di soggiorno, lontano dalla tua terra, senza i tuoi genitori”. Non sono riuscito a rispondere… Ho pianto e pianto. Poi sono arrivato in Italia dopo un viaggio inimmaginabile. Dopo tanti guai ho trovato l’ASAI e qui ho trovato tanti amici di nazionalità diverse, ogni giorno ci incontriamo e mi diverto con loro. Adesso non sono più debole, la mia posizione è cambiata e sta ancora cambiando.


Riflessioni di percorso...

Ogni parola che conosciamo, corrisponde ad una rappresentazione mentale che ci consente di catalogare, archiviare e richiamare alla memoria quanto e quando è utile che sia. Così, archiviamo, insieme a quella, i colori, le impressioni, emozioni, sensazioni e quant’altro di connesso. Questo meccanismo è senz’altro utile e necessario ma nel contempo può celare l’illusione di un reale già conosciuto una volta per tutte. E’ così che mi sono trovato davanti alla parola biografia e ancor più ad autobiografia.
Auto-biografia...razionalmente nobile cosa, ma dal sapore ottocentesco cosparsa di mielose pelosità autocelebrative forse poco adatte alle esigenze del mio carattere depressivo, timoroso di guardarsi o di rivelare la propria voglia di mettersi in mostra castigata dall’ansia di performance narrativa.
Ed è così che invece mi sono trovato, un poco alla volta, introdotto in un percorso naturale  che mi ha condotto con dolcezza a riscoprire la freschezza dell’essenza attuale del termine. Colto dallo stupore della paradossale “novità dei ricordi conosciuti” e di quelli creduti sepolti, dall’opportunità di pensarci per rimetterli in fila, riconnetterli così come so fare ora. Soddisfazione e talvolta gioia nel ritrovar tracce di senso, nel constatare la vastità originale di una vita, sia pur la mia. Ancor più valore è stato affrontare il percorso in gruppo. La condivisione e il reciproco svelarsi. Si, anche “gli altri” al primo incontro sono nostre “rappresentazioni mentali” e tali rimangono se non si ha un opportunità svelante. Il rivelarsi altrui ai nostri occhi attenti e al nostro ascolto ricompone il nostro sentire e il giudizio affrettato.Senz’altro l’ascolto ma anche la storia, le emozioni, l’empatia. Il valore del gruppo diventa l’incontro sociale orientato ad un senso che prende forma concreta al di là di eventuali definizioni preordinate o, sia pur nobili, aspettative.
Raccogliere una storia ha avuto a che fare con il “prendersi cura di”, predisporsi, aprirsi all’ascolto, all’incontro anche con la propria delicatezza, con il proprio pudore, con il proprio senso di gratitudine nei confronti di una persona che acconsente a farti entrare in presenza di una parte intima e importante della sua vita. Il dovere responsabilizzante di farsi tramite, di riportare la voce, la memoria, la persona. Storia che si lega ad altre storie, vissuti che si legano ora anche al tuo, primo sentore di un possibile passaggio dalla comunità virtuale dei media a quella un più reale della vita in carne ed ossa che richiama alla presenza,alla responsabilità, all’azione.
Sadegh e il mio incontro con lui mi hanno accompagnato nella magia di un nuovo immaginario. Trasportato dal suo racconto in un mondo “altro”dove le “dimensioni” e le situazioni s’intrecciano e si confondono, dove le coordinate di riferimento che ristabiliscono l’orizzonte si riconoscono e si sentono trasmesse come manifestazioni umane essenziali riconoscibili come tali in ogni angolo della terra da ogni suo abitante. Un viaggio anche questo oltre al quale o dentro il quale s’incontra la persona Sadegh.


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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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