Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

27 aprile 2015

"Più di un anno per l`asilo" e il conto dell`accoglienza vola oltre il miliardo
I profughi a carico dello Stato finché la pratica non viene esaminata Ma le commissioni accumulano ritardi. Nel 2015 spesa raddoppiata
la Repubblica, 27-04-2015
GIULIANO FOSCHINI FABIO TONACCI
ROMA. Nel 2015 l'Italia spenderà più di un miliardo di euro per accogliere i migranti. È il record assoluto. Sono 400 milioni più dello scorso anno, 500 rispetto al 2013. Il boom è figlio certamente del maggior numero di sbarchi e dunque di persone di accogliere. Ma non è solo questo. A causare l`incremento di spese è anche la lentezza dello Stato, che non riesce a dare in tempi ragionevoli risposte sulle richieste di asilo. I profughi dovrebbero aspettare tre settimane, secondo la legge, e invece gli esiti non arrivano prima di sei mesi. Un` attesa che crea un danno doppio. Danneggia gli uomini e le donne fuggiti dai loro paesi in guerra, che vengono lasciati in attesa, privati di un destino garantito loro dall`Onu. Danneggia le casse pubbliche che continuano a pagarne l`accoglienza - in media 40 euro al giorno per persona anche quando non dovrebbero. Questo cortocircuito all`italiana è scritto nei numeri. Oggi in Italia sono 81mila i migranti che si trovano in strutture d`accoglienza. Sessantacinquemila hanno presentato domanda dí asilo politico, mentre gli altri o hanno status particolari ( i bambini per esempio) oppure non hanno ancora fatto domanda.
Chi deve decidere se hanno diritto o no - sulla base di una serie di requisiti, primo tra tutti le condizioni del paese di provenienza - sono le 40 commissioni territoriali nominate dal ministero dell`Interno che `dipendono dalle Prefetture. Secondo la legge l`attesa dovrebbe essere di 21 giorni e, per alcuni casi particolari, 90 giorni al massimo. «Ma il tempo medio - spiega Valentina Brinis, ricercatrice della Onlus "A buon diritto", in prima linea sul tema accoglienza - varia in realtà dai sei a nove mesi. Con casi limite di ragazzi che aspettano anche un anno e mezzo prima di avere unarisposta». Intutto questo periodo i profughi hanno tre possibilità. Possono essere sistemati nei Cara, i grossi centri per richiedenti asilo, oppure entrare nel circuito del sistema Sprar (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati). Oppure, terza ipotesi, essere ospitati nei Cas, i centri di primissima accoglienza. In media ciascun migrante costa allo Stato al giorno dai 35 ai 40 euro. Soldi che, chiaramente, non finiscono nelle loro tasche ( a loro va il pocket money di 2 euro per le spese quotidiane ) ma nelle casse delle cooperative e strutture di accoglienza attorno alle quali - come hanno dimostrato le inchieste delle procure italiane da Mafia Capitale alle Grandi Opere - si sono scatenati gli appetiti delle mafie e di associazioni criminali. Insomma, sono gli stessi ritardi dello Stato a implementare il "grande business dell`accoglienza".
I conti sono semplici: dati i tempi di attesa, ciascun migrante costa circa cinquemila euro di più di quello che avrebbe dovuto se il sistema fosse più agile. E così le spese impazziscono. Lo scorso anno in Italia l`accoglienza è costata 630 milioni di euro. Per il 2015 era stata immaginata una cifra minore: 200 per i Cara, 187 per il progetto Sprar, e 32,5 per i progetti per i minori non accompagnati. Si pensava di non superare i 500 milioni dunque. Ma alla fine dell`anno-prevedono gli analisti del Viminale - quella cifra raddoppierà. Servono più soldi, dunque. E vanno trovati.
D`altronde non potrebbe essere altrimenti. Basta guardare le tabelle con la tempistica: «Chi ha chiesto asilo oggi vedrà la sua pratica in commissione nel 2016» dice la Brinis. Per cercare di tamponare la situazione, il Dipartimento dell`immigrazione del ministero dell`Interno ha raddoppiato, dallo scorso marzo, le commissioni. «Oggi - dice Carlotta Sami dell`Unhcr - possono processare anche 70mila richieste l`anno ma il sistema è sotto pressione perché le richieste sono in aumento. E soprattutto questa lista d`attesa crea grande confusione nell`opinione pubblica, tra sbarcati e migranti in attesa, quando invece sono due cose completamente diverse». Ma che esito hanno le domande? Nel 2014 il 70 per cento ha ottenuto la protezione, mentre nel 2015 è cambiato qualcosa. Delle 12.720 richieste di asilo processate dall`inizio dell`anno al 15 aprile, seimila sono state rifiutato. Questo perché a fare la richiesta sono tanti pachistani, nigeriani, gambiani e senegalesi che arrivano più per motivi economici che per reali situazioni di persecuzione, tant`è che tra le pratiche rigettate ce ne sono 1.195 dalla Nigeria e 1.128 dal Mali.
L`accoglienza dello Stato, però, non finisce quando la richiesta di asilo viene negata, perché tutti fanno ricorso al Tribunale Civile o - alcuni al Tar. Per avere una sentenza passa un altro anno e mezzo, in media, tempo durante il quale lo Stato continua a pagare l`accoglienza. Alcuni avvocati, poi, presentano ricorsi civili incredibili, in modo da allungare i tempi di permanenza all`interno dei Cara dei loro assistiti e incassare le parcelle previste per il gratuito patrocinio. Un paio di casi: un migrante sosteneva di essere fuggito dal suo villaggio in Nigeria perché assalito da orango killer, un altro raccontava di minacce di cannibalismo. Risultato: solo un ricorso su 500 viene accolto.



ERITREA In 2.000 scappano ogni mese Così l`ex colonia italiana è diventata la prigione d`Africa
Corriere della sera, 27-04-2015
Alessandra Coppola Michele Farina
«Dolce vita»: è il marchio di certe camicie che si vendono in Eritrea. A produrle è una ditta italiana. Dà lavoro a oltre 500 persone. Fabbrica ad Asmara, capitale della nostra ex colonia da cui scappano duemila persone al mese, secondo le stime dell`Alto commissariato Onu per i Rifugiati. Una settantina al giorno. Non c`è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato. Sei milioni di abitanti. il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell`ultimo naufragio.
Descriverla come una prigione a cielo aperto, la Nord Corea africana del dittatore un tempo marxista Isaias Afewerki, è un luogo comune. Così comune che diventa normale dimenticarselo. Roma è la capitale che, tra mille difficoltà, vanta i migliori rapporti diplomatici con la, linda Asmara dove i palazzi ricordano Latina e nei bar ti versano ancora il Punt e Mes in versione africana. Ragioni storiche, culturali. Il popolo eritreo è meraviglioso. Ma in Eritrea la dolce vita è soltanto il marchio di una camicia.
Per questo Almas, 29 anni, è scappata con la figlia. Ha lasciato la sua terra coi genitori quando era piccola. È cresciuta in Sudan, alla periferia di Khartum, ha sposato un connazionale. Quando lui è morto, non sapeva come sfamare la bimba. Girava voce che in Libia si trovasse lavoro. Non sapeva che c`era il caos? «No, non lo sapevo - dice al Corriere -. Non avevo scelta». Il 15 novembre scorso, tratta con dei passeur e parte. «Quando ho superato il confine ho capito che c`era la guerra». I trafficanti la portano ad Agedabia, in Cirenaica. Ma poi le dicono le strada è chiusa, impraticabile: deve andare a Tripoli. Lì trova lavoro come badante: «Ma non si poteva vivere, bombe e spari ovunque, faceva paura». Gli 800 dinari guadagnati li usa, allora, per  pagarsi un passaggio in mare, assieme alla figlia. Almas dice che «i veri trafficanti non si vedono», le persone con le quali ha trattato erano «aiutanti», parlavano il tigrigno, forse erano pure eritrei. In mare, racconta, è stata fortunata, un giorno e mezzo di navigazione soltanto, a bordo di un gommone stipato di 200 africani, fino all`Italia, pochi giorni fa.
Cosa volete che sia, restare pigiati su un barcone, per chi magari ha sofferto la tortura dell`«otto». Altro nome italiano, come dolce vita. Nella posizione dell`otto, il torturato in Eritrea viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro la schiena. Lo racconta al Corriere Mike Smith, al telefono da Sidney. Veterano della diplomazia australiana, ha guidato la commissione d`inchiesta Onu sull`Eritrea istituita dal Human Rights Council: 400 fuggiaschi (gli ultimi scappati dall`Eritrea a febbraio), i 40 testimonianze scritte, rapporto finale presentato a Ginevra due mesi fa. La storia che gli è rimasta più impressa è quella di un giovane di 32 anni, che chiameremo Issa, incontrato in un campo profughi in Africa. «Un giorno i militari sono andati a prenderlo nel suo villaggio». Quel giorno è entrato nel meccanismo infernale del «servizio militare» permanente. Una specialità eritrea per tutti i ragazzi e le ragazze dai 16 anni in su. La generazione dei warsai, cresciuti nell`Eritrea indipendente. Ma non libera. Entri nei campi militari e ne esci vecchio. Prima l`addestramento, poi lavori forzati secondo i voleri degli ufficiali. Agricoltura, infrastrutture. Issa ha fatto il bracciante, 7 giorni su 7. Per io anni. La sua gioventù, la sua dolce vita. Una volta ogni quattro anni gli permettevano di tornare a casa. Guadagnava 500 nafka, meno di io euro. Finché riceve la lettera della sorella: «Hanno arrestato tuo fratello, torna». Lui va al villaggio, cerca di capire dov`è il ragazzo, perché l`hanno preso. Gli ordinano di tornare al suo posto, se non vuole farsi arrestare. Al campo viene punito. Cinque giorni la tortura dell`otto, un paio di volte al dì gli slegano un braccio per un sorso e un boccone. Un giorno che è di turno alla frontiera, prova a scappare. Gli va bene. Non gli sparano come succede ad altri. Entra nella schiera infinita dei Segre-dob, «coloro che attraversano il confine».
«Quell`uomo è il simbolo dell`Eritrea -- dice Smith -. Alla fine mi ha chiesto cosa avremmo fatto per lui, ho risposto che potevamo almeno far conoscere la sua storia. "Per me sarebbe già molto", ha sorriso prima di scomparire nella polvere del campo». Cosa volete che sia, per i Segre-dob come Issa, sopportare i trafficanti di uomini fino alle coste libiche. Lui con «gli schiavisti» è cresciuto a casa sua. Non ha soldi per proseguire l`odissea. Un posto su un barcone forse sarebbe già un miraggio.
Un miraggio anche per le 400 persone prigioniere a Misurata, in Libia, da mesi. Soprattutto eritrei. Lo denuncia don Mussie Zerai, riferimento in Europa di tutti i Segre-dob. In 60 viaggiavano verso Tripoli, avevano già pagato 1.600 donati a testa per arrivare al porto. Scortati dai trafficanti sono stati fermati•a un`altra banda, c`è stata una sparatoria (tre eritrei morti). Gli assalitori si sono accaparrati la «merce umana», portandola in una «prigione» di Misurata. Lì c`è una donna libica che convoca i migranti uno alla volta: se vogliono essere liberati devono pagare altri 2.000 dollari, devono chiamare familiari o amici ai quali vengono date indicazioni su dove spedire il «riscatto». Cinquanta donne sono state portate via e non si sa che fine abbiano fatto.
Eccola, la dolce vita degli eritrei prima di incontrare il Mediterraneo. Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, dice
che il governo italiano fa della questione dei diritti umani una questione centrale nel dialogo con Afwerki. Il regime ha annunciato che ridurrà il servizio nazionale a 18 mesi. La gente non si fida, dice Smith.Asmara dovrebbe fare un gesto concreto, forte, come per esempio cominciare a liberare una parte dei 10mila prigionieri politici.



In alto mare sui calndestini: dall'Europa solo prese in giro
I partner europei hanno scaricato solo sul nostro Paese la grana della gestione degli sbarchi. Inutile il semestre italiano a Bruxelles
il Giornale, 27-04-2015
Massimo Malpica
Dopo la strage della scorsa settimana nel canale di Sicilia, e con gli immigrati che continuano ad arrivare sulle nostre coste - ancora ieri in Salento altri 70 tra siriani e somali hanno toccato terra in due diversi sbarchi - Matteo Renzi è più che mai in alto mare.
Tra i tanti fronti critici, nemmeno l'emergenza immigrazione gli concede tregua. Il premier è tornato dal vertice Ue con più soldi, certo, ma con zero soluzioni per «spalmare» sull'intera Europa la pressione migratoria intercettata dalle nostre coste, e con un pugno di mosche anche per quanto riguarda una eventuale missione Ue in Libia.
Nei fatti, la rogna dell'accoglienza rimane al Paese d'arrivo dei flussi migratori, che nella stragrande maggioranza dei casi è proprio l'Italia. L'Ue ha triplicato i fondi di Triton, qualche stato membro ha promesso più mezzi, ma tutti si sono lavati le mani su una più equa distribuzione delle presenze. Insomma, l'«invasione» di migranti e profughi resta un problema di Renzi e dell'Italia, che hanno visto affondare la speranza di derogare a quanto previsto dal regolamento di Dublino (quello che vincola i rifugiati a chiedere asilo nel Paese in cui sbarcano).
Sullo stesso vertice straordinario voluto dal premier s'è registrata la generale bocciatura non solo della politica, prodiga di critiche verso Renzi, ma anche delle associazioni che si occupano di accoglienza, che hanno «salutato» le novità come un clamoroso buco nell'acqua. Servirà a poco anche l'odierna passerella «solidale» sulla nave San Giusto, che vedrà Renzi con «lady Pesc» Federica Mogherini e il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon - che ha escluso «soluzioni militari» sui migranti - in «crociera» al largo delle coste siciliane per «valutare la situazione».
L'occasione buona Renzi e il suo governo l'hanno avuta - e persa - nel semestre europeo a guida italiana, quando il tema «caldissimo» dell'immigrazione ha prodotto soluzioni tutt'al più tiepide. La più «vistosa» delle quali è stata il battesimo di Triton. L'operazione che ha sostituito Mare Nostrum e la cui inadeguatezza è stata dimostrata a più riprese, tanto che solo dopo l'ultima tragedia nel canale di Sicilia il vertice Ue sull'immigrazione è corso ai ripari, ripristinando di fatto gli stanziamenti di Mare Nostrum . La «vetrina» europea di Renzi poteva e doveva essere il momento per smuovere le acque sul tema del trattato di Dublino e sul sistema europeo di asilo, ma il premier non ha incrinato le posizioni di Germania, Francia e Gran Bretagna, che pure l'altro giorno hanno ribadito sul punto di voler tenere le porte di casa ben chiuse.
Così nella gestione dell'emergenza Renzi continua a navigare a vista. Mentre il ministro dell'Interno Angelino Alfano convoca per il 7 maggio la «cabina di regia» chiesta da Fassino e Chiamparino per fare il punto sull'emergenza profughi con Anci e regioni. Ma la proposta del sindaco di Torino - fare delle caserme dismesse «hub di accoglienza» per i profughi, viene bocciata in culla dal governatore veneto Luca Zaia: «Sono inutilizzabili per fatiscenza e insalubrità, si calpesterebbe la dignità delle persone».



La zona grigia che l’Europa non vuol vedere
La Stampa, 27-04-2015
Gianni Riotta
Migliaia di studenti tedeschi marciano a Berlino chiedendo solidarietà e giustizia per immigranti e rifugiati. Lo striscione del pacifico corteo annuncia «Oggi Lezione di Diritto Politico» e, figli dell’era globale e social, i ragazzi intonano in inglese «Canta forte e sostenuto, il rifugiato è benvenuto». A 70 anni dalla fine della guerra mondiale, grazie a loro, la Germania torna leader spirituale d’Europa, un giorno di Romanticismo.
Gli studenti di Berlino ripropongono la domanda del Santo Padre: «Che fare?», davanti alla biblica ondata di migrazione, due-tre milioni di esseri umani, che guerre, carestie, clima, sogno di vita migliore, spingono da Africa e Medio Oriente al largo nel Mediterraneo. Se accendete un talk show o un sito web, gli slogan, fast food del pensiero, sono serviti: Bombardare, Blocco navale, Tolleranza zero per gli illegali, Accogliere tutti, Schiudere le frontiere, Compassione contro profitti.
Nella realtà, invece, non esiste soluzione unica, diretta, solo piani complessi e difficili. Il «blocco navale militare», per esempio, sarebbe illegale, impossibile da attuare e innescherebbe ammutinamenti nella Marina davanti all’ordine di sparare contro la legge del mare. La dimensione tragica deve restare punto di partenza, nel 2014 3000 annegati, nel 2015 almeno 1500, in 16 mesi tre Titanic naufragati sulle nostre coste.
L’Europa insiste «il controllo delle frontiere è responsabilità nazionale» e bissa la squallida performance degli Anni Novanta con la guerra nei Balcani.
Ogni Paese fece i propri interessi, lasciando marcire le deportazioni, finché gli Usa non intervennero. Le carte, gli appelli, la retorica dell’Unione, grondano compassione, solidarietà, benevolenza. Gli intellettuali, a destra e sinistra, sono lesti a condannare gli americani per il muro nel deserto messicano e i milioni di clandestini, ma dimenticano la realtà. 41,3 milioni di emigranti vivono in America, record storico; un emigrante su cinque al mondo, il 20% del totale, sbarca negli Usa che hanno solo il 5% degli abitanti della Terra; gli emigranti sono 13% dei 316 milioni di cittadini Usa, con i figli arrivano a 80 milioni, 25% della popolazione.  
Gli Usa si dilaniano sul tema, la riforma dell’emigrazione è campo di battaglia nella corsa alla Casa Bianca 2016, l’Europa è inerte Ponzio Pilato. Spera, come davanti a Milosevic, al fondamentalismo islamico, a ogni emergenza, che anche la tragedia emigrazione venga infine assorbita da una pubblica opinione estenuata da anni di crisi economica. Contro quest’inerzia, politica e morale, protestano i ragazzi di Berlino, avanguardia della generazione Erasmus, pur consapevoli che la Germania accoglie più rifugiati di tutti nell’Unione.
Una strategia geopolitica è indispensabile contro la calamità geopolitica che mette in marcia quelli che un tempo Frantz Fanon chiamava «Dannati della Terra». Per disegnarla servono lo sforzo congiunto, la fantasia, di politici, urbanisti, economisti, diplomatici, Difesa, uomini di fede. Servono sì azioni militari, sul modello della campagna che ha ridimensionato i pirati del Corno d’Africa, raid contro il racket, contro le milizie che li proteggono, contro i banditi-guerriglieri-terroristi che li scortano nel deserto, contro i porti del traffico, anche con droni, per dare il senso che l’Ue fa serio. Ma in parallelo serve un Piano Marshall, dal respiro decennale, in cui coinvolgere altre potenze – per esempio la Abii, Banca di sviluppo asiatico promossa dalla Cina che può intervenire nel Medio Oriente - dando alternative alla rotta disperata dei gommoni. Gli Usa destinarono al Piano Marshall il 4% del loro Pil: noi quanta ricchezza siamo disposti a investire per la pace del Mediterraneo? Si mette in mare il ceto medio africano, depauperando la classe dirigente locale e rallentando la positiva crescita del continente che, non dimenticatelo, il Fondo monetario calcola nei Paesi del sub Sahara al 5% nel 2014 e 5,75% nel 2015.
Blitz e piani di crescita non fermeranno però le ondate e lì l’Europa deve stimare gli ingressi, razionalmente, senza alzare i già rabbiosi umori populisti. Illudersi che siano l’Onu o gli americani a risolvere per noi il dilemma è ipocrita. Quando rileggiamo, nel 2015 le memorie 1945 di padri e nonni, vediamo amaro il ricordo «di chi restava a guardare», davanti ai treni piombati verso i lager, ai rastrellamenti, ai comizi dei dittatori, alla raccolta delle vittime. Indignarsi è facile per noi nel tinello del XXI secolo, opporsi a mani nude alla violenza richiede coraggio fuori dal comune. I libri che diamo in lettura agli scolari deprecano gli ignavi di allora: e noi? L’Europa decida quel che vuole, per calcolo elettorale, convenienza del momento, paura di agire, egoismi. Ma tutti saremo giudicati con la stessa severità con cui Primo Levi inchiodava «la zona grigia» dei lager tra vittime e oppressori. Il prossimo Titanic che scomparirà nelle acque delle vacanze, mentre ci commuoviamo cambiando canale senza far poi nulla, ci renderà «zona grigia». Non aspettiamoci dunque pietà da chi ci giudicherà.
www.riotta.it  



Immigrazione, scontro sul mandato dell’Onu Vertice sindaci-Viminale
Il Messaggero, 27-04-2015
Valentina Errante
Il primo incontro tecnico tra gli esperti del Dipartimento immigrazione e i responsabili di Frontex, dopo il vertice di giovedì, è previsto per oggi. Intanto dall’Onu arriva una bocciatura al progetto europeo. Il segretario generale Ban Ki-moon, questo pomeriggio con il premier Matteo Renzi e l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini a bordo della nave San Giusto della Marina Militare impegnata nel Canale di Sicilia, si dice contrario all’ipotesi di bombardare i barconi. Ma intanto la polemica infuria a casa nostra: l’accordo per la redistribuzione dei migranti sul territorio non si trova. Il gabinetto di regia, che dovrebbe coordinare sindaci e regioni per l’accoglienza, non decolla ed è indispensabile l’intervento del governo per alzare il livello del confronto. Così il presidente dell’Anci Piero Fassino ha ottenuto un nuovo incontro al Viminale per il 7 maggio con il ministro Angelino Alfano.
L’ONU
Dal vertice, Roma ha ottenuto un mandato esplorativo alla Mogherini per una missione europea che serva a identificare e distruggere i barconi. È uno dei punti più delicati sul quale è necessario il coinvolgimento dell’Onu. Sembrava scontato arrivasse il via libera e invece le parole di Ban Ki-moon «non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo», stravolgono la prospettiva. La risoluzione avrebbe lo scopo di dare copertura a quello che viene definito non un intervento militare, ma «un’operazione di polizia internazionale» finalizzata alla distruzione dei barconi usati dai trafficanti di uomini. Domani Mogherini volerà a New York per cominciare a tessere la tela e ottenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, dove non sarà facile convincere Russia e Cina a dire sì.
LA POLEMICA
Al centro del vertice c’è l’ipotesi di utilizzare le caserme dismesse come hub di accoglienza per ospitare i profughi, ma anche il problema dei fondi necessari per consentire agli enti locali di far fronte all’emergenza. «Siamo pronti a fare la nostra parte – ribadisce Fassino – ma dobbiamo essere messi nelle condizione di riuscirci, il che significa prima di tutto avere spazi per la prima accoglienza, come le caserme che sono gli spazi più grandi e adeguati». La replica di Luca Zaia, governatore del Veneto e candidato alle prossime elezioni, arriva in fretta: «Chi, ad ogni aggravarsi della prevedibilissima e sottovalutata crisi dei migranti, torna a ipotizzare le caserme dismesse come soluzione, non ne ha mai vista una: sono discariche a cielo aperto dove prima di tutto verrebbe calpestata la dignità delle persone». In realtà neppure dal Dipartimento per l’immigrazione e diritti civili, che in nome dei principi di accoglienza e condivisione delle responsabilità, ha chiesto ai prefetti di trovare siti che ospitassero i profughi sul territorio, l’ipotesi viene ritenuta la soluzione ideale. Da parte del Viminale, che ha già progettato un’equa distribuzione, si vorrebbe evitare una forte concentrazione di migranti sul territorio che avrebbe certamente un impatto sociale pesante ed effetti negativi. Ma l’ultima parola, purché si aprano le porte, sarà degli enti locali. Del resto nella circolare del 13 aprile, rimasta lettera morta, Mario Morcone, responsabile del Dipartimento, sollecitava i prefetti a trovare un accordo con le amministrazioni. Ma la Lega non intende cedere. La seconda circolare, già predisposta dal Viminale, non è ancora partita, l’attenuarsi degli sbarchi non ha reso indispensabile la richiesta di posti e un nuovo scontro con Comuni e regioni.
I SITI ISTITUZIONALI
Sono oltre un centinaio le caserme dismesse dal ministero della Difesa. Da aprile dell’anno scorso è stata avviata una triangolazione con l’Agenzia del demanio e gli enti locali per la cessione delle strutture. A luglio, sette caserme a Roma, cinque a Milano e quattro a Torino sono passate ai comuni. Del resto, nei giorni scorsi, dalla Difesa era arrivata una piccata replica al presidente della conferenza delle regioni Sergio Chiamparino, che lamentava la mancata collaborazione. «Già dal 2010 è stata avviata una collaborazione con il ministero dell’Interno per individuare soluzioni al problema. Nel luglio 2014 – si legge – è stato redatto un elenco su scala nazionale di siti della Difesa non più necessari ai compiti istituzionali, di cui tre sono transitati a novembre al ministero dell’Interno». E in riferimento al Piemonte: il protocollo firmato nel 2014 con il Comune di Torino per la razionalizzazione degli immobili della Difesa include quattro caserme.



Accoglienza, i sindaci lanciano la sfida
Avvenire, 27-04-2015
Diego Motta
È una mappa difficile da comporre, quella della prossima accoglienza dei migranti sul territorio italiano. Perché deve tenere insieme contemporaneamente numeri in grande crescita sul fronte degli arrivi, strutture tutte da trovare su base locale e delicati equilibri sociali da garantire.
Una settimana fa la tragedia avvenuta col naufragio del barcone al largo della Libia ha scoperchiato, semmai ce ne fosse stato bisogno, un’emergenza umanitaria senza precedenti: anche ieri sono stati soccorsi 274 migranti dalla Marina Militare a bordo di un barcone fatiscente, a circa 40 miglia dal porto libico di Zuara. In sette giorni, la macchina per fronteggiare ingressi via mare e via terra ha cercato di mettersi in moto, tra mille difficoltà. Il cantiere è aperto e la cabina di regia ottenuta da Comuni e Regioni col governo è un primo passo, certo non sufficiente, come spiegano diversi sindaci, da Nord a Sud, di tutte le appartenenze politiche.
I 20mila posti letto in più al mese chiesti dal Viminale rappresentano uno sforzo importante per le comunità, così come la disponibilità a raddoppiare fino a 40mila posti i numeri di accoglienza del sistema Sprar, il sistema di protezione dei migranti gestito dalle amministrazioni locali. «Già il 2014 è stato un anno record, con 170mila nuovi arrivi e 80mila immigrati rimasti poi sul territorio – spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci all’immigrazione –. Quest’anno, poi, si aspetta una crescita dei profughi in entrata fino a quota 200-220mila, con 90-100mila persone destinate a rimanere. Se l’accoglienza e il nostro coinvolgimento sono doverosi, dobbiamo anche cercare di evitare frizioni coi territori, intervenendo in modo intelligente e con buon senso». I nodi da sciogliere sono molti, dall’uso di strutture come le caserme e gli alberghi per l’ospitalità alla disponibilità dei privati fino a una più equa distribuzione dei carichi da Nord a Sud e alla gestione stessa dei migranti, con possibili iniziative di volontariato sociale che coinvolgano gli stranieri, anche attraverso lavori di pubblica utilità.
Quali spazi trovare
L’esperienza di questi anni è senza dubbio la base da cui partire per preparare il terreno dell’accoglienza. Il sindaco Pd di Pesaro, Matteo Ricci, l’ha ripetuto nei giorni scorsi al prefetto e agli altri primi cittadini della sua provincia, convocati per un tavolo ad hoc. «Prendiamo il caso degli alberghi: da noi ce ne sono alcuni vecchi, in ristrutturazione, che in passato hanno preso la palla al balzo per trasformare l’ospitalità in un business. È una cosa sbagliata e da non ripetere, anche perché danneggia e snatura tutto il settore turistico».
Quali spazi individuare, allora? «L’ideale sarebbe fare un ragionamento Comune per Comune, catalogando tutto ciò che è disponibile: ex palazzi pubblici, vecchie scuole, caserme inutilizzate messe eventualmente a disposizione dalla Difesa o già passate dal Demanio ai Comuni – continua Ricci –. Poi occorre trovare un meccanismo di volontariato sociale che permetta ai giovani profughi di rendersi utili: due ore al giorno per attività di quartiere, a piccoli gruppi e accompagnati dagli italiani». Quel che si vuole preservare, in questa fase, è la capacità inclusiva delle nostre comunità, compito non facile nella grande città così come nel paesino. In questo senso, il lavoro delle realtà ecclesiali e sociali è prezioso, anche per evitare la ghettizzazione dei nuovi arrivati.
«Spesso a protestare per la distribuzione dei migranti sono proprio i sindaci di centri piccolissimi, che vedono la loro quotidianità stravolta» riflette Guido Castelli, Forza Italia, primo cittadino di Ascoli, secondo cui «non aiuta in un momento come questo il fatto che manchi una programmazione organica e tempestiva a livello centrale». Sull’idea avanzata dal presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, di usare le caserme come centri di raccolta e smistamento dei profughi, Castelli ha qualche dubbio, «perché si tratta di luoghi di assembramento, dove è più difficile il controllo. Non vorrei diventassero degli hub della disperazione».
Al lavoro insieme agli italiani
Raccoglie consensi invece l’idea di "riempire" il tempo d’attesa (almeno un anno, un anno e mezzo) dei richiedenti asilo con progetti sul territorio. «Pensare a modalità che permettano a persone arrivate da lontano di restituire, alle comunità che se ne prendono carico, anche solo una parte di quanto ricevono in termini di accoglienza, mi sembra un principio di civiltà» dice Biffoni. «Sarebbe un fatto positivo, anche se la popolazione andrebbe preparata per tempo» precisa Castelli. Per legge, il costo del servizio messo a disposizione dei migranti si attesta a 35 euro al giorno, cifra che comprende vitto e alloggio. «Ci sono cooperative e associazioni pronte a gestire progetti del genere, si tratterebbe di ragionare sulle coperture assicurative e su alcuni problemi burocratici da superare» aggiunge Ricci, mentre una chiusura netta arriva dal sindaco leghista di Varese, Attilio Fontana. «Si è già tentato di farlo in passato, ma non è tecnicamente fattibile. Basta errori. E poi parlare di accoglienza senza alcuna prospettiva di integrazione è del tutto inaccettabile».
Molto dipenderà anche dalla capacità del Viminale di esercitare una moral suasion sul ministero della Giustizia, per abbreviare i percorsi di valutazione delle richieste di asilo in fase di ricorso, che attualmente non si sbloccano prima di un anno o un anno e mezzo, ingolfando l’intero sistema e prolungando i tempi di permanenza sui diversi territori.
Sullo sfondo resta la necessità di un riequilibrio tra chi storicamente accoglie di più e chi invece fa meno. Ci sono Regioni del Sud come la Sicilia (in cui è presente il 22% dei profughi) e metropoli come Roma ormai giunte al punto di saturazione, mentre rimangono spazi per l’ospitalità, soprattutto al Nord. Il rapporto, secondo dati allo studio del governo, sarebbe di 12 a 8: 12 regioni farebbero cioè di meno di quanto potrebbero e 8, specularmente, farebbero di più. «Non ci si può affidare soltanto alle grandi città» ha spiegato nei giorni scorsi Fassino, provocando più di un mugugno tra i "piccoli" sindaci. È la prova che il confronto per costruire la mappa dell’accoglienza è in corso anche tra i sindaci e, sicuramente, si finirà per scontentare qualcuno.



Le catene di Erika
Avvenire, 27-04-2015
Francesco Riccardi
Noi quel dolore sordo che lei s’è portata dietro per anni non riusciamo nemmeno a immaginarlo, figuriamoci a provarlo. Troppo lontana la nostra fortunata condizione per capire che cosa significhi lavorare per ore nei campi sfruttata sino all’ultima goccia di sudore. Poi essere segregata nella stanzetta d’una casa, senza poterne uscire liberamente. E poi ancora il padrone, sì proprio un padrone, anziano, che s’approfitta di te, del tuo essere straniera, del tuo bisogno di mandare soldi a casa, in Romania, dove ci sono sei bambini da sfamare. E tu zitta, perché i tuoi figli devono mangiare.
E zitta subisci, subisci fino a restare incinta. Quattro volte in nove anni. Figli dello scandalo che non possono essere partoriti, quattro piccoli martiri spediti in cielo senza neppure vedere questa terra. Scappi, ma neanche scappare ti basta. Perché il padrone ti ritrova, ti riprende e torna a violentarti in quella stessa casa dove stanno sua moglie e suo figlio. E tu zitta, perché sei straniera in questa terra di Sicilia. E perché ci sono sempre i tuoi sei bambini in Romania che aspettano quei quattro euro che ti danno.
Noi quel dolore sordo che Erika s’è portato dietro per anni non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Ci monta dentro, invece, una rabbia antica, una voglia di sanare quell’ingiustizia con mezzi sbrigativi che fatichiamo a trattenere. Ma soprattutto ci brucia sulla pelle una vergona inaspettata, che pensavamo di non dover provare più. E invece c’è ancora un pezzo di Alabama del 1800 nella nostra Italia del 2015.
C’è un pezzo di Paese, c’è una parte della nostra umanità che ci si apre davanti come un baratro. Ci lascia intravedere un abisso che pensavamo di aver ricoperto con secoli di progresso, di avanzamenti sociali, di giustizia. Conquistati con la lotta delle braccia e con l’educazione del cuore. E invece quel buco nero come d’inferno, sta ancora lì davanti a noi. O meglio sta ancora lì dentro di noi.
Perché il male, prima di proliferare fino a diventare un sistema ramificato e ingiusto, esce sempre come un piccolo rivolo dal profondo dell’uomo. Davvero, come scriveva don Primo Mazzolari, «lo sfruttatore, il negriero, è dentro ognuno di noi, se non troviamo la forza di comprimerlo. La legge non basta, l’organizzazione sociale non basta... se io non sono capace di vedere nell’altra persona non solo un mio eguale, ma qualcosa di divino, se non riconosco un suo valore eterno».
L’altra mattina l’incubo di Erika è finito. Ha avuto il coraggio di raccontare tutto il suo calvario ai carabinieri della compagnia di Ragusa, che l’hanno liberata. Il padrone – 67 anni di Acate – adesso è in carcere e già aspettiamo con ansia il processo, sperando che almeno un po’ di giustizia ora si compia, anche se nulla potrà risarcire Erika. Ma a noi – che pure avevamo sentito e letto e scritto di situazioni di schiavitù nei campi del Ragusano, come già in Puglia e in Campania – resta lo sconcerto per quanto è stato fatto a quella donna in 9 lunghi anni.
Resta il dolore per lei che era straniera e anziché essere accolta è stata sfruttata e ferita nel profondo della sua dignità. Rimane soprattutto la vergogna a bruciarci sulla pelle, per quel pezzo d’Italia in cui s’è consumata una tale tragedia sotto lo sguardo, indifferente, di molti. Rimane lo sgomento per il male che siamo ancora capaci di compiere. Noi, qui, così tremendamente uguali a uno scafista nel Mediterraneo, a un trafficante d’uomini della Libia.



Mare vestrum, fate vobis. L'Europa ha speso oltre 400 miliardi per le banche e fa l'elemosina a chi muore sui barconi
l'Huffington Post, 27-04-2015
Roberto Sommella
Giornalista e scrittore, direttore relazioni esterne Antitrust
Mare vestrum, fate vobis. Con sprezzo del ridicolo e paura del pericolo, Bruxelles ha deciso di elargire una piccola mancia per i disperati del mare che scappano da morte e miseria ma, sulla spinta dell'Inghilterra, che il piede nell'Unione lo sa ben battere quando le serve, ha deciso di abbandonare l'Italia a fronteggiare quasi da sola un'emergenza drammatica.
Al di là delle dispute tra gli effetti dell'operazione Mare Nostrum e dell'attuale Triton, e registrata l'inazione dell'Europa di fronte alla disgregazione della Libia (la Francia, tempo fa molto attiva dalla caduta di Gheddafi, è sparita dai radar), c'è da chiedersi se per Bruxelles e le sue diplomazie una vita di un africano o di un siriano valga meno di quella di un europeo.
Schengen permette a tutti di muoversi con facilità dentro i vecchi confini tracciati tra i paesi dopo la seconda guerra mondiale, a patto che si sia cittadini dell'Unione, una patente che solo in questo caso permette di sentirsi davvero liberi e parte di una comunità. Ma la stessa Unione che ha sancito libertà di stabilimento e di movimenti per capitali e persone, e permesso in fondo il salvataggio finanziario di interi paesi, sbatte la porta in faccia a chi non fa parte del club. Peccato che non sia mai stata approvata una vera Costituzione europea, perché sarebbe stato interessante capire come le capitali che contano avrebbero applicato l'articolo sui diritti dell'individuo, facendolo valere per quali e quanti uomini e donne, senza distinzione di sesso, lingua e religione: ai sensi della nostra carta comunitaria non scritta, possiamo davvero ignorare le speranze di chi viene da noi sperando di trovare lavoro, farsi una famiglia, salvarsi da morte e miseria? Purtroppo sì.
La solidarietà non è ancora di questa parte di mondo, si era già capito con le astruse discettazioni sul Fiscal Compact, per cui Atene deve essere lasciata andare alla deriva, e se ne ha una tragica conferma oggi, nel momento in cui per un pugno di pochi milioni di euro, quando i debiti degli stati sono esplosi per migliaia di miliardi, si nega assistenza e vicinanza a chi arriva da lontano. Eppure, negli ultimi anni la Germania ha speso 250 miliardi di euro (non milioni) per consolidare le sue banche, la Spagna ne ha usati 60, 50 ne hanno elargiti Irlanda e Paesi Bassi, 40 la Grecia, 19 il Belgio e l'Austria,18 il Portogallo e persino l'Italia ha scucito 4 miliardi per sistemare alcuni enti creditizi. Un conto totale di 441 miliardi.
Gli asset finanziari valgono più delle persone: se questa è davvero l'Europa, viene quasi voglia di dare ragione a Varoufakis che la prende per i fondelli. Non si può che sperare in un rapido cambio di rotta.

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