Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

17 maggio 2010

Fini pensa a dare la cittadinanza agli immigrati, gli Usa a come toglierla
Roberto Santoro
l'Occidentale, orientamento quotidiano 17 Maggio 2010

Venerdì scorso il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, è tornato a parlare di cittadinanza. I ragazzi stranieri hanno il diritto di diventare italiani se completano il ciclo scolastico, ha detto, così come gli immigrati adulti potrebbero diventarlo se dimostrassero di “riconoscersi nei valori fondanti della nostra società”. Il Fini-pensiero può essere ricondotto al paper della Fondazione FareFuturo su Immigrazione integrata e cittadinanza di qualità dell'ottobre 2009, e alla proposta di legge Granata-Sarubbi, che ha generato un consenso bipartisan tra i finiani del Pdl, esponenti del Pd, dell’Udc, dell’Italia dei Valori, guadagnandosi l'autorevole endorsement dello storico Ernesto Galli della Loggia dalle pagine del Corriere della Sera.

L’impianto della Granata-Sarubbi si basa su un principio interessante. Diventare italiano d'ora in poi dovrebbe essere un percorso “attivo”, in cui si viene valutati qualitativamente non soltanto burocraticamente (il documento di FareFuturo liquida il multiculturalismo, l’assimilazionismo, eccetera). A questo, i finiani aggiungono una riduzione netta del tempo necessario ad ottenere la cittadinanza stessa (da 10 a 5 anni). A nostro parere, questa valutazione qualitativa andrebbe fatta principalmente nell’ottica di tutelare la sicurezza oltre che l'interesse nazionale. Un po’ come ha proposto l’ex premier inglese Brown legando l’attribuzione della cittadinanza a un sistema a punti, dove se dimostri di aver studiato la lingua e la storia del Paese in cui ti trovi, di aver lavorato (sodo) ed essere vissuto onestamente per un certo periodo di tempo, alla fine entri a far parte della comunità.

Se il mondo fosse un luogo pacifico, e i processi di mobilità legati alla globalizzazione non contenessero dei gravi pericoli, il discorso dei finiani in fin dei conti potrebbe reggere: una riforma in Italia serve, meglio se in chiave selettiva e meritocratica. Il problema è che non viviamo in tempi pacifici. L’esito ultimo della globalizzazione è stato l’11 Settembre cioè uno stato di guerra permanente. E dunque non ci sembra di fare terrorismo psicologico se diciamo che l’attribuzione della cittadinanza dovrebbe essere legata con più attenzione alla questione della sicurezza nazionale, che non può essere intesa solo come una forma di contrasto alla immigrazione clandestina.

I recenti attentati, riusciti sventati o falliti, in America, dimostrano che questo rapporto non è un tema di importanza secondaria. Gli attacchi, infatti, sono stati tutti condotti da cittadini degli Stati Uniti. Ha un passaporto Usa il mago informatico del terrore, Anwar al-Awlaki, che dalla sua ridotta yemenita ha avviato al martirio il maggiore Hasan, l'autore della strage di Fort Hood (13 morti), e Faisal Shahzad, il pakistano con passaporto americano che ha piazzato la Nissan carica di esplosivo a Times Square. Lo scorso aprile Shahzad partecipava alla commovente celebrazione che negli Stati Uniti rinnova ogni volta il patto di fiducia fra l’America e coloro che vogliono viverci e prosperare. Nel momento stesso in cui alzava la mano destra per giurare fedeltà al suo Paese, l'uomo stava pensando a come colpirlo nel modo più sanguinoso possibile. Shahzad è un giovane pakistano di buona famiglia che ha studiato brillantemene negli Usa, dove si è sposato e guadagnava un mucchio di soldi lavorando come analista finanziario. Un "immigrato di qualità", apparententemente.

Ma un musulmano non ha altra nazionalità eccetto la sua Fede, come ha scritto una volta il padre del moderno islamismo, Sayed Qutb. Shahzad e Hasan erano imbevuti delle teorie di Qutb, letture consigliate via web dal sedicente imam al-Awlaki. Avere la cittadinanza americana è un grande vantaggio se devi viaggiare in Pakistan per ‘tornare alle origini’ e addestrarti nei campi talebani, anche se, probabilmente, a Shahzad è stato sufficiente connettersi a Internet per “completare il suo ciclo scolastico”. Non sappiamo se sia vero o sia semplicemente propaganda, ma una fonte talebana intervistata recentemente da Newsweek ha rivelato che "Da quando gli Stati Uniti hanno invaso il Paese il numero delle persone come Shahzad, che odiamo l’America e l’Occidente, e vengono qui, è aumentato costantemente". I Talebani riescono a farsi molta più pubblicità con attentati come quello di Times Square che non con 100 bombe in Afghanistan. Con le nuove tecnologie, non è difficile reclutare gente in Occidente. I siti dei fondamentalisti ricevono centinaia di richieste di persone che sono pronte a unirsi a loro.

Non ci sembra di essere andati fuori tema parlando di Afghanistan e Talebani. Non abbiamo evocato scenari "eurabici" e neppure detto che da oggi i musulmani non potranno più entrare in Italia. Sappiamo che l'immigrazione è un fenomeno epocale con cui dovremo imparare a convivere ma ci limitiamo a constatare che mentre in Italia si discute su come dare la cittadinanza agli immigrati, in America ci si interroga su quali sarebbero le difficoltà costituzionali derivate dal toglierla a chi minaccia gli Stati Uniti. Fini ha fatto della cittadinanza la pietra angolare di ogni politica sulla immigrazione, eppure la storia di Shazhad dimostra che oggi è sempre più complesso parlare di identità, frontiere e nazionalità.









Dagli stranieri un argine al taglio dei posti di lavoro

Lunedí 17 Maggio 2010
il Sole 24Ore
Gianluca Schinaia
In Italia ci sono settori produttivi dove l'offerta lavorativa è aumentata nonostante la crisi. Non si tratta di nicchie di mercato ma di comparti vitali per l'economia nazionale. Infatti, negli ultimi quattro anni, nell'edilizia, nell'industria tradizionale, nell'agricoltura e nei servizi si è intensificato il fenomeno dello "switch" occupazionale: quando un italiano viene licenziato, a volte è solo per far spazio a uno straniero.
I dati
Nell'ultimo rapporto sulle forze lavoro l'Istat ha mostrato dati eloquenti. «Nel quarto trimestre 2009 il numero di occupati risulta pari a 22.922.000 unità, un calo di 428mila unità rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente. La perdita dell'occupazione è sintesi di una riduzione molto accentuata della componente italiana (-530.000 unità), a fronte di una crescita, con ritmi inferiori al passato, di quella straniera». Quindi se il tasso di disoccupazione continua ad aumentare dipende dal numero di italiani licenziati, perché in realtà l'occupazione straniera cresce costantemente. Tra il 2006 e il 2009 il tasso di crescita annuale dei lavoratori stranieri è aumentato del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) e tra il primo e il 4° trimestre 2009 l'Istat segna il +13% degli occupati provenienti da altri paesi. Il punto è che alcuni lavoratori accettano qualsiasi compromesso pur di non perdere il posto. «Adesso – spiega Liliana Ocmin, segretario confederale Cisl – lo straniero che non trova entro sei mesi un'occupazione deve andare via e così sono aumentati i lavoratori in nero a scapito dei "regolari" italiani».
Già l'estate scorsa era stata descritta la crescita in termini qualitativi (si veda Il Sole 24 Ore del 13 luglio 2009): aumentavano, infatti, i contratti stabili a favore degli immigrati. Gli ultimi dati dell'Istat, invece, descrivono la crescita quantitativa della manodopera straniera. Settore per settore, l'incremento occupazionale è particolarmente evidente nell'agricoltura: dal 2006 al 2009, il tasso di crescita annuale degli immigrati ha segnato +766%. Nei 26mila nuovi occupati nel 2009 ci sono però anche lavoratori sfruttati, come raccontano le cronache degli ultimi mesi. Sui quali, durante le celebrazioni del 1° maggio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha puntualizzato: «Il mondo e il valore del lavoro hanno conosciuto nel nostro Paese ingiuste mortificazioni, in tempi recenti».
Competitività straniera
Infatti non sempre trovare lavoro è una fortuna. Guglielmo Loy della Uil spiega la crescita di competitività degli stranieri: «Il lavoratore italiano ha più possibilità di scelta, e punta ad alzare il salario. Lo straniero è spesso disperato e ha bisogno del permesso di soggiorno: ovvio che sia più appetibile per un'impresa». Nel 1998 gli operai stranieri nel settore edile erano appena 19mila, oggi sfiorano le 300mila unità e anche l'anno scorso ci sono stati 43mila nuovi assunti nel comparto. Ma spesso gli stranieri non sono contenti di rimpiazzare gli italiani, anche se si trovano costretti per non perdere il permesso di soggiorno. Come afferma Jamal, operaio edile egiziano: «Noi non siamo protetti da niente e siamo obbligati ad accettare qualsiasi cosa». A lui è successo che una volta licenziati gli italiani il datore di lavoro abbia abbassato la paga oraria e abbia smesso di retribuire gli straordinari.
Servizi e industria
Anche nei servizi il tasso di crescita annuale è più che raddoppiato tra il 2006 e il 2009: da +71mila a +152mila stranieri. Solo nell'industria si è registrata una brusca decelerazione, così se nel 2006 i nuovi lavoratori stranieri erano 36mila e nel 2008 106mila, l'anno scorso il comparto ha segnato appena tremila unità in più.
In generale, tra i circa due milioni di immigrati impiegati in Italia, il 63% lavora al Nord nel settore manifatturiero ed energetico. Il 38% del totale è rappresentato da personale non qualificato; gli operati specializzati, gli agricoltori e gli artigiani costituiscono invece il 28% della forza lavoro straniera; il 14% è composto da venditori e solo l'1% del totale è rappresentato da dirigenti e imprenditori. Quindi, secondo la Fondazione Leone Moressa, gli stranieri guadagnano il 23% in meno degli italiani a parità di mansioni. Il numero di stranieri in cerca di occupazione è cresciuto costantemente negli ultimi quattro anni. Nel 2006/2007 gli immigrati in cerca di lavoro erano solo quattromila, mentre tra il 2008 e il 2009 gli stranieri in cerca di occupazione hanno sfiorato le 80mila unità.









Piccoli imprenditori: 14mila nuove partite Iva

il Sole, 17-05-2010
Léonard Berberi

Un pò meno Italia e un pò più Babilonia. Diminuiscono i Franco, Giovanni e Michele. Aumentano i Mohammed, Nicolai e Felipe. Da un lato le 3omila piccole imprese italiane che nel 2009, secondo Unioncamere, mancano all'appello. Dall'altro le oltre 14rnila nuove partite Iva straniere.
L'imprenditoria etnica resiste meglio alla crisi? Solo in parte. Perché, avverte Domenico Mauriello, del centro studi Unioncamere, «il salto, anche se positivo, è per la prima volta inferiore alle performance degli anni precedenti».
L'anno scorso gli stranieri che hanno avuta una carica in un'azienda (titolare, socio, amministratore) sono stati quasi 600mila. Cifre in costante aumento. Così come in aumento, secondo Infocamere, sono anche le imprese individuali con un titolare straniero. Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva non italiane. Rispetto all'anno precedente, il 4,5% in più. «La performance positiva - continua l'esperto Unioncamere - dimostra che il sistema in parte ha tenuto. Ma ci dice anche che quegli immigrati espulsi dal mercato del lavoro a causa della crisi hanno scelto Pauto-impiego, aprendo una propria partita Iva».
Ogni cento imprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Significative anche le "quote rosa": in media, poco più di una partita Iva su cinque è assegnata a una donna.
Il "commercio all'ingrosso e al dettaglio", poi, si conferma la voce più importante (121.710 ditte individuali, pari al 37,5% circa) se si guarda il settore. Seguono le "costruzioni" (103.525) e le "attività manifatturiere" (29.811). Ma il primato cambia nella suddivisione tra comunitari e non. Se la metà degli imprenditori Uè (48,37%) si dedica alle "costruzioni", quelli extracomunitari preferiscono il "commercio". «Nel primo caso, il valore risente dell'attività dei romeni, concentrati sull'edilizia - spiega Mauriello -. Nel secondo, pesa la scelta dei nordafricani, con i negozi di cibo etnico, e dei cinesi".
Il Marocco guida la classifica delle nazionalità più attive con 48.059 individui. Segue la Romania (35.592) tallonata dalla Cina (34.595).
A livello territoriale, infine, la Lombardia resta la regione preferita per aprire un'impresa: l'anno scorso qui c'erano 56451 ditte individuali. Dietro, la Toscana (oltre 34 mila) e l'Emilia Romagna (poco più di 31 mila). «Un caso molto particolare è la provincia di Prato - chiarisce l'esperto -, dove le imprese cinesi pesano in modo significativo nell'economia della zona e in parte anche della regione». Nel 2010 la situazione non dovrebbe cambiare di molto. «Le partite Iva straniere continueranno ad aumentare - conclude Mauriello -ma a ritmi inferiori rispetto al passato e sempre più verso una stabilizzazione».








Immigrazione. L’esempio di Los Angeles

l'Unità 15 maggio 2010
Italia-razzismo
Il consiglio comunale di Los Angeles due giorni fa ha deciso pressoché all’unanimità di boicottare la legge sull’immigrazione varata lo scorso 23 aprile in Arizona per volontà della governatrice Jan Brewer. La normativa prevede che gli agenti di polizia possano fermare, interrogare e arrestare chiunque non sia in grado di dimostrare la regolarità della sua presenza nello Stato. «Con questa legge avremo meno crimini, code meno lunghe negli ospedali e classi meno affollate».
È quanto afferma il senatore Russell Pearce, principale promotore della legge. Ma molti non sembrano d’accordo. Grandi manifestazioni, critiche da parte di numerose istituzioni e delle stesse forze di polizia, le quali temono che norme troppo restrittive compromettano una convivenza tutto sommato pacifica. Il presidente Barack Obama ha chiesto un parere legale per verificare che il contenuto della legge non violi i diritti civili.
Preoccupazione simile è quella espressa da esperti dell’Onu, per i quali la legge colpirebbe «minoranze, indigeni, immigrati esponendo gli stessi a potenziali trattamenti discriminatori». Si ricorda infatti che l’Arizona è considerata il più grande portale del traffico illegale di armi, di droga e di persone, dal Messico verso gli Stati Uniti. Di conseguenza è altamente probabile che le persone maggiormente colpite dal provvedimento, siano quelle dai tratti somatici messicani, indigeni o, più comunemente, latino americani.
In ogni caso, come si vede, la legge è oggetto di grandi controversie e di aspri conflitti pubblici, e sollecita complessi interrogativi giuridici: possiamo ignorare che la sua sostanza non è troppo diversa da quella delle norme già oggi in vigore nella nostra bella Italia?








Famiglia migrante: per il demografo Golini i matrimoni tra immigrati durano di più e sono più “fecondi”.
L’intervento dello studioso in occasione della Giornata ONU per le famiglie quest’anno dedicata all’immigrazione
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ImmigrazioneOggi, 17-05-2010

L’unione all’interno delle famiglie immigrate è più “solida” rispetto a quella che si registra all’interno delle famiglie italiane e, mediamente, produce anche un figlio in più. È quanto ha osservato il demografo Antonio Golini dell’Università di Roma La Sapienza durante il convegno organizzato sabato 15 maggio dal Forum delle associazioni familiari in occasione della Giornata internazionale delle famiglie promossa dall’Onu.
Quest’anno il tema proposto dalle Nazioni Unite per la giornata era “L’impatto delle migrazioni sulle famiglie del mondo”.
“Ormai – ha dichiarato Golini – le famiglie italiane si avviano a un’alta percentuale di rottura, pari al 20-30%. Un dato simile alla media dei Paesi del Nord Europa”. E oltre a essere più litigiose, sono anche meno feconde. Una donna straniera che vive in Italia mette al mondo in media 2,3 figli a 27,9 anni; una donna italiana ne partorisce 1,3 a 30,8 anni.
“A mettere al mondo più figli tra le straniere in Italia – ha detto Golini – sono le coppie romene e dell’Africa del Nord”.








Identità nazionale e cittadinanza: dibattito con Fini, l' esecutivo, il Pd e la Chiesa
Sacconi annuncia: «Ecco il progetto del governo» Napolitano: «Famiglie, il motore della convivenza»

Brescia Oggi 16/05/2010

Non ci saranno nè «assimiliazioni arroganti», nè «multiculturalismo indifferente». Si partirà dall'affermazione dell'identità nazionale per poi costruire percorsi di «incontro» con l'altro. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dubbi: il piano sull'Integrazione nella sicurezza, che «il governo varerà nei prossimi giorni», si baserà sul binomio «identità-incontro» e rimarcherà il fatto che integrazione e sicurezza «sono due facce della stessa medaglia». In questo processo un ruolo importamte lo avrà la famiglia, «sede di incontro tra etnie».
L'occasione per rilanciare i piani del governo in materia di immigrazione è stata la Giornata internazionale della Famiglia, celebrata ieri a Roma dal Forum delle Associazioni familiari attraverso il convegno «Famiglia a colori: il futuro dell'Italia è interculturale». Secondo i promotori, per garantire l'integrazione bisogna ripartire dalle famiglie e dal loro incontro con gli altri. Principio condiviso anche dal presidente della Repubblica, Napolitano, che in un messaggio ha sottolineato: «La famiglia costituisce un potenziale, prezioso motore di integrazione». Il suo ruolo, ha detto dal canto suo il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in una nota, è «fondamentale per migliorare la nostra capacità di governare i fenomeni connessi all'immigrazione».
Ma nonostante la buona volontà dei cittadini e delle associazioni, all'Italia, ha osservato monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i Migranti, «manca una legge sull'integrazione»: «E il riconoscimento della cittadinanza agli stranieri non dovrebbe essere visto come un premio, ma come una realtà esigita per un percorso fatto di identificazione con la realtà italiana».
Don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, ha richiamato la stampa a osservare la deontologia professionale («evitando di enfatizzare la nazionalità degli autori di reati, quando sono commessi da stranieri») e ha ricordato alla Chiesa che di fronte a questi temi «non deve balbettare».
La politica, ha aggiunto Livia Turco, Pd, dovrebbe andare a guardare le esperienze di convivenza che gli italiani sono riusciti a costruire nelle realtà locali e creare una «politica di alleanza» con la società civile, per un piano di integrazione che metta al centro la persona e la diffusione della lingua e della cultura italiana. Infine, la presidente della Commissione Infanzia, Alessandra Mussolini, ha posto l'accento sulla necessità di tutelare i bambini, oltre che le famiglie: oggi non esiste «la priorità dei bambini» e «mancano interventi corali mirati», occorre che il piano nazionale per l'infanzia venga approvato presto a garanzia di tutti i minori, italiani e stranieri.









Immigrati, la famiglia via per l'integrazione
Forum: cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia Nelle scuole sano 600mila: un investimento per il futuro

Avvenire, 16-05-2010
GIANNI SANTAMARIA

L' integrazione degli immigrati può avvenire veramente solo se si pone attenzione alla famiglia. Una Famiglia a colori che sempre più caratterizza la vita quotidiana dei nostri palazzi, degli ospedali, delle scuole soprattutto, dove i figli degli immigrati di seconda o terza generazione imparano velocemente a sentirsi italiani. Ecco allora che tutte le dimensioni della politica sono investite: casa, sanità, educazione. Con il decisivo apporto dell'associazionismo. Come quello rappresentato nel Forum delle associazioni familiari che ieri ha dedicato il suo convegno in occasione della Giornata internazionale della famiglia proprio alla "Famiglia a colori". Uno slogan scritto in italiano, arabo, spagnolo e rumeno su un manifesto a tonalità vivaci che rappresenta adulti (tanti) e bambini (pochi, a rappresentare quel calo de-mografico a cui il Forum certo non si rassegna) disegnati in silhouette. Sottotitolo "Il futuro dell'Italia è interculturale". Ne hanno discusso politici, studiosi e rappresentanti della Chiesa e della società civile. Con riferimenti a modelli. E alla ricerca di una via italiana che eviti il rischio banlieues o il fallimento dell'integrazione in stile olandese. No all'assimilazionismo, ma pure al multiculturalismo indifferente, ha sintetizzato in un videomessaggio il ministro del welfare Maurizio Sacconi, rilanciando il piano del governo sull'Integrazione nella sicurezza che «il governo varerà nei prossimi giorni». Mentre messaggi sono stati inviati dal presidente della Repubblica, da quello della Camera (ne riferiamo nei box qui sotto) e da altri esponenti del governo, come Roberto Maroni e Giorgia Meloni.
Ma i due temi che hanno tenuto banco sono stati la tutela dei minori e la cittadinanza per i nati in Italia da stranieri. Tema quest'ultimo che sarà presto oggetto dei lavori di Montecitorio. «Chiediamo di costruire percorsi per cui la festa del 18° compleanno sia contestuale alla cittadinanza. Non in termini burocratici, ma sostanziali», sottolinea il presidente del Forum Francesco Belletti. Il demografo Antonio Golini, ritiene «miope lasciare senza cittadinanza» gli oltre 600mila ragazzi che vanno a scuola e sono un investimento, anche economico. Fanno parte di quella che da Fini è stata definita la "generazione Balotelli". Essenziale, dunque, è la scuola. «Personalmente ritengo che si potrebbe dare la cittadinanza alla conclusione del cammino scolastico, almeno di quello obbligatorio», è l'opinione di monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti. Che la giudica un «riconoscimento di essere giunti a un grado di identificazione con la cultura italiana, che non significa perdita delle radici». E i necessari ricongiungimenti familiari devono fare attenzione a non favorire fenomeni come la poligamia. È una delle questioni denunciate da Dounia
Eattib, presidente  delle Donne arabe d'Italia. I figli delle mogli non legali (sarebbero 24mila le famiglie poligame in Italia, 1.660 a Milano) sono privi di tutele («bambini fantasma» li ha definiti). Così come, ha denunciato la presidente della bicamerale per l'infanzia Alessandra Mussolini, andrebbe subito data tutela giuridica a i minori non accompagnati, che invece «spariscono». Ed è «vergognoso» che ai bimbi a-dottati non venga conferita immediatamente la cittadinanza. Di più, in attesa del Piano sull'infanzia - avverte - poca retorica e fatti concreti; si faccia dei bambini la «priorità».








“Gli immigrati clandestini sono un problema”: lo afferma un’immigrata (regolare)

Blog Sicilia , 17-05-2010

“La Moratti ha ragione, gli immigrati clandestini sono un problema”: a dirlo è un’immigrata (regolare).

Qualche giorno fa, sul Blog di Panorama, è comparsa questa notizia: ad affermare ciò che Letizia Moratti ha detto qualche giorno fa, è proprio un’immigrata regolare, Samia, che conferma le “bellicose” affermazioni del Sindaco di Milano.

Ne è convinta anche lei, dall’alto delle sue esperienze: aggiunge “sono convinta che quando un Italiano diventa razzista, ha ragione” – “Quando un immigrato si comporta in maniera non corretta, fa ricadere la colpa anche su tutti noi che vogliamo vivere legalmente”.

Insomma: l’equazione “immigrato clandestino = delinquenza” sembra non essere tanto “campata per aria”. Anzi, è una clandestina (regolare) stessa ad affermarlo. Sostanzialmente, è il caso di fermarsi. E riflettere…








Il problema vero e il problema finto dell'Occidente

Aprile Online, 16-05-2010
Stefano Rizzo

Il problema vero e il problema finto dell'Occidente La riflessione     Se vi domandate che cos'è che muove le ruote della politica nel mondo occidentale più di ogni altra cosa, la risposta è: l'immigrazione. Un miliardo circa degli abitanti più ricchi del pianeta sono terrorizzati all'idea che gli altri sei miliardi vengano ad invadere il loro paese rendendoli più poveri. Così l'immigrazione è diventato il problema numero uno da agitare, con il quale confrontarsi, intorno al quale costruire il consenso che nei paesi democratici fa vincere le elezioni
Per la verità il problema numero sarebbe un altro: come fornire servizi sociali che la gente reclama facendole pagare meno tasse possibile, ovvero dandole l'impressione che paga meno tasse possibile. Ma questo è un problema di cui si parla poco e solo se si è costretti da qualche crisi economica o da qualche colossale ruberia, perché finisce coll'attirare troppo l'attenzione sul fatto che, in cambio di un indennità di disoccupazione o di una ricetta medica gratuita per tutti, pochi altri percepiscano stipendi di milioni di euro e godano di privilegi inarrivabili per le moltitudini. Insomma, perché i ricchi possano rimanere ricchi e diventarlo sempre di più bisogna che i poveri credano di esserlo un po' meno. Fino ad un certo limite, perché se incominciano a chiedere stipendi più decenti e ospedali migliori gli si ricorda prontamente che sono degli irresponsabili, che stanno mettendo in crisi l'economia, non solo del loro paese, ma mondiale e che democrazia vuol dire capire che bisogna fare dei sacrifici (lo volete capire greci?). Poi passa; i mercati si assestano e ritrovano la fiducia, si ritorna in fabbrica e nei call center, e il vero problema numero uno viene messo da parte.
Ma torniamo al finto problema numero uno, l'immigrazione. Non c'è parte del mondo ricco e industrializzato dove non diriga il dibattito politico e non svolga un ruolo fondamentale per costruire le fortune delle classi politiche al potere. Come contrastare la minaccia dell'immigrazione, come arginarla, come preservare l'identità nazionale, come salvare i bilanci degli stati: queste sono le domande impellenti. Naturalmente le soluzioni sono poi diverse, più o meno ipocriticamente accoglienti o più o meno razziste, a seconda dei paesi e delle forze politiche. In Giappone, ad esempio, il problema immigrazione non esiste semplicemente perché quel paese ha sigillato da sempre le proprie frontiere e non accetta alcun immigrato; la stessa cosa fa da qualche decennio l'Australia; i ricchi paesi petroliferi del Medioriente fanno entrare volentieri masse di diseredati dal Bangladesh e dall'Indonesia, li trattano come schiavi e poi, quando hanno finito di costruire grattacieli e isole artificiali, li cacciano.
In Occidente invece, in Europa e in America, il problema esiste, eccome; e consiste nel fatto che, trattandosi di paesi democratici, bisogna almeno dare l'impressione di conciliare le spinte xenofobe e anti-immigrazione con "i grandi valori" dell'Occidente, con la tradizione illuminista, con i diritti universali dell'uomo, con il kantiano diritto di ospitalità. Ma, apparenze a parte, più o meno tutti si muovono in una direzione: respingere, reprimere, rendere la vita difficile agli immigrati. E chi non lo fa perde le elezioni.
Nel Regno Unito il liberaldemocratico Nick Clegg era favorito nei sondaggi; ma ha fatto un errore: ha proposto una sanatoria per gli immigrati che vivono e lavorano sul suolo inglese, e ha perso le elezioni. (Si è prontamente ripreso alleandosi con il conservatore Cameron, che proponeva l'esatto opposto, e ha messo da parte le sue velleità pro-immigrati.)
In Italia, è inutile ricordarlo, la maggioranza di governo è costituita da un'alleanza tra Pdl e Lega, il partito più esplicitamente e coerentemente xenofobo tra quanti governano in Europa. Negli altri paesi europei i partiti di questo tipo vengono pudicamente tenuti fuori dal governo, ma anche dall'esterno influenzano le opinioni pubbliche e dettano l'agenda politica. Così in Svizzera, in Belgio, in Austria, e anche in Francia e in Germania; perfino nei civilissimi paesi nordici. Il modello è sempre lo stesso: l'ondata xenofoba monta, alimentata in prima battuta dai partiti "canaglia" (nazionalisti, razzisti); entrano poi in campo i partiti rispettabili che denunciano "il problema" cercando una soluzione che tenga conto dell' "allarme sociale" e dei "timori della popolazione".
Che gli immigrati non siano una minaccia, né per l'identità nazionale, né per l'economia, anzi che producano ricchezza e stimolino varietà culturale (quindi dinamismo intellettuale), è del tutto irrilevante. Gli economisti lo sanno, i sociologi lo sanno e lo dicono, ma parlano al vento. Basta una donna coperta dalla niqqab, una sola in una intera grande città, per produrre il panico e deviare l'angst popolare dal vero problema numero uno (la distribuzione della ricchezza) al finto problema numero uno (l'immigrazione).
Anche in America, terra storica di immigrati, la pantomima del "non sono razzista, però" ha preso piede e detta l'agenda politica. Nel 2000 George Bush fu eletto esplicitamente per arginare il flusso inarrestabile di "musi marroni" (ispanici, latinos) proveniente dal Messico. Provò a fare approvare dal Congresso una legge per regolarizzare, dopo dieci anni di permanenza e il pagamento di salatissime multe, gli immigrati che già c'erano, ma la sua maggioranza la considerò troppo permissiva e non se ne fece nulla. Allora fece ricorso ad altre politiche più consone all'indole dei repubblicani: costruzione di un "muro", raid notturni nelle fabbriche, deportazioni, carcere. Anche il repubblicano John McCain, che a suo tempo aveva sottoscritto la sanatoria, ora che è sotto elezioni ha cambiato opinione ed è rientrato nel coro anti-immigrazione.
Durante la campagna elettorale Barack Obama aveva promesso di presentare un'altra legge per la regolarizzazione. Per questo i 40 milioni di latinos regolari, parenti e amici dei 12 milioni di clandestini, l'avevano votato. Ma fin qui non se ne è fatto nulla. La ragione? Ancora una volta le elezioni, questa volta di mid-term, nelle quali i parlamentari democratici eletti negli stati del Sud e del Midwest temono di perdere il seggio se danno l'impressione di essere pro-immigrati. Di riforma si parlerà forse l'anno prossimo. Intanto lo stato dell'Arizona ha approvato una legge che consente alla polizia di fermare chiunque sia sospettato di essere un immigrato clandestino (non è difficile: hanno la pelle scura e parlano un inglese stentato) e di tenerlo in carcere a piacimento finché la sua identità non sarà accertata.
La cosa ha fatto scandalo e le organizzazioni per i diritti civili hanno protestato. Anche Obama ha protestato e con lui la sua ministra per la sicurezza nazionale Janet Napolitano. Ma la nuova legge dell'Arizona è piaciuta e sarà presto copiata da altri stati. E' anche bene ricordare che almeno su questo l'America sta arrivando buona ultima e che l'Europa ha fatto da battistrada. Qui da noi pizzicare gli immigrati per strada, metterli in carcere e poi deportarli, lo si fa già da decenni.









Scritto da Giorgio Israel

lunedì 17 maggio 2010
Il Foglio - Si sente dire tante volte la frase “chi non conosce la storia passata è condannato a riviverla” da averne quasi la nausea. Quantomeno proviamo a conoscerla, questa storia passata. Ecco alcune reminiscenze che potranno forse suscitare riflessioni attuali. Negli anni Trenta, sull’onda crescente della passione mussoliniana per il tema del miglioramento della “razza italica” un’attenzione particolare si accentrò sugli immigrati, per lo più veneti, che avevano popolato le paludi pontine bonificate.  Era la grande occasione – si disse – per sperimentare un miglioramento scientificamente guidato di un gruppo umano che poteva diventare il modello di una nuova razza italica rigenerata. Il mondo scientifico – biologi, antropologi, demografi – si lanciò compatto nell’impresa e si parlò di un “grande laboratorio di biologia umana” che doveva basarsi su un censimento, un’indagine delle caratteristiche somatiche e demografiche degli immigrati. Fu la sagra delle schedature volta a formare un grande archivio delle famiglie. Vi fu il “foglio antropografico” dell’antropologo Sergio Sergi, consistente in un cartoncino contenente (sono parole sue), “brevi note anamnestiche e morfofisiologiche del soggetto, alcuni dati antropometrici e antropografici, tra cui il gruppo sanguigno, le impronte digitali, la fotografia”, corredato di una piccola busta, incollata al cartoncino, contenente un campione di capelli. Vi fu la scheda antropometrica o costituzionalista di Corrado Gini, per raccogliere dati sulla costituzione somatica dei genitori. Poi una scheda che descriveva le abitudini alimentari. E, infine, la scheda biotipologica di Nicola Pende, volta a registrare (anche qui sono parole sue) “tutte le caratteristiche somatiche e psichiche, buone e cattive del soggetto, e le sue tendenze ereditarie, e la sua particolare maniera di reagire e di adattarsi all’ambiente cosmico ed all’ambiente sociale e la sua produttività ed i suoi valori, che io classifico in: resistenza vitale generale, attitudini specifiche al lavoro manuale od intellettuale, attitudini specifiche nell’ambito muscolare in genere, valore economico, valore riproduttivo per la specie, valore sociale”. Insomma, “la scheda della personalità completa in azione”. Tutto il mondo della scienza addosso ai poveri contadini veneti immigrati…

In verità, Pende era il più lungimirante, perché la sua schedatura biotipologica mirava a tutto il paese, altro che Bonifica pontina. Essa era concepita come il “registro indispensabile per lo Stato Fascista, perché esso possa in ogni momento conoscere lo stato del bilancio della sua più grande e solida ricchezza, il capitale umano nazionale”. E Pende la descriveva così: “La cartella deve contenere l’accertamento completo della personalità psico-fisica normale e sub-morbosa o pre-morbosa, cioé il documento personale del biotipo individuale a scopo di ortogenesi. Tale cartella deve diventare il fondamento dell’allevamento nazionale dell’infante, del fanciullo, dell’adolescente fino all'età adulta; sarà insomma il vero serio documento individuale di identificazione, di salute e di valutazione di un cittadino che, come il cittadino del Regime Fascista, deve essere veramente una cellula produttiva ingranata armonicamente e consensualmente nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano”.

A parte la retorica fascista finale, la scheda di Pende, nel linguaggio contemporaneo, è un “portfolio”. Ma, si dirà, il “portfolio” odierno è un documento che attesta le prestazioni scolastiche del soggetto e non le sue caratteristiche psico-fisiche. In verità, i solerti scienziati fascisti avevano pensato anche a questo. Per esempio, il clinico Banissoni aveva pensato di istituire un libretto personale scolastico “ai fini della valutazione individuale negli impieghi e nel lavoro”. Era un “portfolio” a metà tra la valutazione delle competenze delle abilità (nella terminologia euroburocratica odierna) e la valutazione della personalità psico-fisica. Difatti, Banissoni sosteneva energicamente che la medicina dovesse mettere piede nella scuola – autentico vivaio della nazione – per contribuire in prima linea alla formazione di una generazione sana e forte.

Per far questo occorreva che la medicina cambiasse volto e non si occupasse soltanto di malati, ovvero di limitarsi a soccorrere quello che egli chiamava sprezzantemente “l’individualismo egocentrico del malato e del sofferente”. Occorreva che si occupasse dei sani, che investisse “le masse di popolo” per preparare generazioni sempre più sane ed efficienti. Una medicina del genere doveva ampliare i suoi interessi all’igiene del corpo e della psiche: non a caso si predicava la necessità di un incremento esponenziale delle cattedre universitarie e scolastiche di psicologia. In particolare, era necessaria una schedatura di massa nelle scuole che doveva raggiungere in pochi anni la cifra vertiginosa di 8-10 milioni di schede.

Fermiamoci qui. Si dirà: cosa c’entrano i “portfolio” con le schedature di un regime totalitario? Cosa c’entra la medicina fascista “ortogenetica” con l’encomiabile desiderio di soccorrere i disabili? Nulla, apparentemente. Il fascismo aveva un’attenzione particolare per i soggetti “sani” e mirava a individuare i soggetti “difettosi”, nelle intenzioni peggiori per isolarli, nelle migliori per “bonificarli”. L’obbiettivo era eugenetico: migliorare la qualità della razza. E per questo servivano le schedature di massa e l’allargamento della concezione della medicina.
Oggi siamo tutti buoni e la nostra principale cura sono i malati. Anzi, siamo talmente buoni che, per aver cura di quante più persone sia possibile, allarghiamo il concetto di malattia a quello di disturbo.

Così, ai disabili propriamente detti si aggiungono i dislessici, stimati in tre milioni e mezzo, di cui i bambini, aggiungendovi i Dsa (Disturbi specifici di apprendimento), rappresentano il 5 per cento della popolazione infantile. A questi vanno aggiunti i bambini Adhd (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, sindrome del bambino agitato) per raggiungere cifre apocalittiche. In realtà, siamo ancora più buoni perché, non volendo considerarli malati, li definiamo “diversi” (i disabili sono diversamente abili), al pari degli immigrati, degli omossessuali e degli ebrei. E poiché la “diversità”, se riferita a una “normalità”, è una cosa brutta, occorre dire che siamo tutti “diversi”. In un gioco di specchi vertiginoso la diversità e la malattia diventano normalità e la normalità diventa diversità o malattia. Naturalmente servono specialisti: di qui l’esigenza di avere sempre più psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, cognitivisti, sociologi, ecc.

Dove opereranno costoro? Nel Servizio sanitario nazionale, non più ristretto alla misera, piatta, individualistica funzione di curare le malattie, bensì investito del compito globale e sociale di promuovere il benessere e la felicità della popolazione. Questo stato maggiore del benessere viene caricato di tante funzioni – come l’accertamento dello stress negli uffici, mediante stressometro, prescritto per legge, o la diagnosi di Dsa e Adhd – che non deve soltanto crescere di numero ma avere gli adeguati strumenti di conoscenza.

Di qui l’insistente richiesta di “screening” di massa per accertare i vari stati di diversità da registrare scrupolosamente. Così, per esempio, se uno si becca la diagnosi di Dsa se la porta a vita e viene identificato come tale anche quando si presenta quarantenne a un colloquio di lavoro. Censimenti di massa e allargamento del concetto di medicina. Ricorda qualcosa? Vi è qualcosa che sa di totalitario in questa medicalizzazione della società? Per carità, è soltanto “bontà”. Anche Nicola Pende era animato dalle migliori intenzioni quando perseguiva la “bonifica umana razionale”. Di certo, siamo agli antipodi dal motto liberale di John Stuart Mill: “Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale”.









Razzismo e responsabili secondo Beha, Ben Jelloun, Armenni e Fouad Allam

Jolanda Pisano
Osservatorio sulla legalità 16 maggio 2010

I principali colpevoli - attivi o passivi - del nuovo razzismo, ovvero coloro che possono fare di piu' per prevenire la sua diffusione e la conseguente catastrofe, sono, per Oliviero Beha i giornalisti, per Ritanna Armenni i politici, per Fouad Allam gli intellettuali e la societa' civile, e per Tahar Ben Jelloun - autore del libro "Il razzismo raccontato a mia figlia "- ciascuno di noi.

In definitiva, sono molti i soggetti che possono e dovrebbero percio' attivarsi contro il razzismo. Questo, in estrema sintesi, il messaggio dell'incontro tenutosi venerdi' sera al Lingotto per la presentazione al salone del libro di Torino della riedizione dell'opera di Jelloun rivista ed ampliata dopo 10 anni.

Ritanna Armeni ha affermato di ritenere il nostro Paese un po' piu' razzista ed ha parlato di 'banalizzazione' del razzismo, cioe' esso non e' piu' ritenuto eccezionale, come, a suo avviso, dimostrano due episodi, quello di Rosarno e quello di Andro. Nel primo caso, quello che apparentemente puo' sembrare un fatto eccezionale mostra invece la condizione del lavoro nero, la vita da schiavi condotta da quegli immigrati, la discriminazione ormai organici alla societa'. Ad Adro, invece, un gruppo di donne ha ritenuto giusto, in nome del "chi non paga non mangia", impedire che i figli degli immigrati non fruissero dei pasti a scuola. E questa logica e' stata mostrata come normale anche in TV, cosa che colpisce come un pugno nello stomaco.

Armenni ha citato il commento di Anna Harendt da Gerusalemme in occasione del processo ad Heichmann: non è cattivo, per lui era una cosa normale, era stata la riflessione sul comportamento del gerarca di Hitler. Il pericolo odierno, quindi, non e' quello dei grandi episodi di razzismo, ma quello della penetrazione nella nostra vita quotidiana. A giudizio di Armeni, c'e' stato un salto contenuto nella parola "sdoganamento". Infatti prima il razzismo c'era, ma non era ammesso, era nascosto. Perche' c'e' stato questo sdoganamento? Infatti oggi ad essere un po' razzisti ci si sente qualificati. Straniero e' il diverso e colui da sottomettere. Ma se la clandestinita' e' reato per legge, un immigrato puo' condurre una vita normale? Può non delinquere?

Razzismo - come emerge dal libro di Jalloun - e' discriminazione. Ma a en guardare tutte le recenti leggi in materia di immigrazione sono leggi ostili e primitive. Perche' per aprire un'attivita' - si chiede Armennni - occorre sapere l'italiano, mentre sappiamo benissimo che per fare la badante nelle nostre famiglie non ce n'e' bisogno? Smontare questi meccanismi e' un'operazione culturale e politica. Occorre che ciscuno si impegni per mettere in atto una controffensiva antirazzista.

Per Fouad Allam, questo libro ha un doppio merito e una doppia valenza: il primo merito e' di aiutare un sentimento iniziato in Europa negli anni '80. Non e' un libro per adolescenti ma e' triste e tragico e cerca di fare maieutica rispetto al male oscuro delle nostre societa'. Come indicato nella quarta di copertina del libro, non ci sono societa' ideali cioe' senza razzismo. Quello che occorre evitare e' che il razzismo cresca e si giunga al tempo delle catastrofi, come nel caso della Jugoslavia, dove ben sappiamo dove ha portato l'odio etnico. Nelle nostre societa' cresce l'appetito dell'odio.

Il secondo merito e' che il libro mostra la violenza contemporanea, perche' la violenza non e' solo fisica, ma anche della narrazione e del discorso. Allam, che ha lavorato sul terrorismo di matrice islamica, ha rilevato che nelle leggi e negli articoli, il riferimento alla sicurezza riguardo agli immigrati islamici e' il contrario della polis, delle regole per il vivere insieme. L'Italia, una volta patria dell'arte e' divenuta oggi patria dell'odio.

Per Allam, quello di Jelloun e' un libro che bisogna leggere e rileggere perche' aiuta a capire le dinamiche che stanno capovolgendo le speranze. La caduta del muro di Berlino nell''89 ha cambiato il paradigma dell'universalismo, idea secondo cui ognuno - che sia bianco, nero o giallo - e' una particella che aiuta il cammino del mondo. Dopo la caduta del muro e' divenuta comune la parola "etnia", non nel senso di riconoscere il diverso per conoscerlo, ma nell'accezione che aumenta la distanza. Non siamo piu' esseri umani, siamo 'etnie'. Un concetto antitetico al rapporto fra diversita' e democrazia. Se il razzismo dovesse crescere e portare ai disastri annunciabili, sarebbe uno scacco per l'umanita'.

Breve ma molto applaudito l'intervento di Oliviero Beha, che si e' detto onorato per l'invito a parlare del libro, poiche' considera Tahar Ben Jelloun "un intellettuale nitido". "Mi ha fatto impressione - ha detto il giornalista - la giustezza con cui repellono a Tahar Ben Jelloun il termine 'extracomunitari'" e l'uso della parola 'identita''. Beha ha detto che, siccome in questo Paese i cambiamenti sono venuti sempre da fuori, come negli anni '40 con la liberazione per mano degli Alleati e negli ani '90 con la caduta del muro di Berlino, e poiche' oggi in Italia non si vedono soggetti in grado di imporre un cambiamento, gli unici in grado di farlo a giudizio di Beha, sono gli 'altri', gli stranieri, perche' sono l'unica cosa che ci puo' far confrontare con noi stessi, farci cambiare da dentro (ad esempio per quanto riguarda la paura). La paura - a giudizio di Beha - e' una delle cose che ha cambiato questo Paese senza memoria (anche in materia di razzismi), quindi senza identità, quindi senza futuro, quindi ideale per avere paura. Il problema e' piu' nostro che loro (con riferimento agli immigrati) perche' abbiamo una crisi d'identita' e paura.

Essendo un esperto di calcio, Beha ha poi sottolineato che il riferimento a questo sport e' corretto, parlando di razzismo, e non soltanto per specifici episodi, ma perche' si tratta di un paese calcistizzato: si fa il tifo per tutto, anche per la politica. Allo stadio, ha detto Beha, ci sono due grandi componenti simboliche e antropologiche: guerra e religione. Percio' ci sarebbe da meravigliarsi se non accadesse cio' che accade.

Il giornalista ha ricordato che esiste una Costituzione materiale, che e' quella insita nei comportamenti, e una formale, cioe' la Carta fondamentale. La prima e' stata gia' aggredita e sconvolta, e si dice che la seconda e' da cambiare. Nei confronti di Balotelli, Beha vede una "forma razzistica 'recitata' . A suo giudizio, Balotelli - italiano che parla bergamasco - fa da parafulmine in un Paese che nei confronti degli altri ha paura.

Tahar Ben Jelloun ha cominciato dall'ultima parola pronunciata: "la paura", che diventa una sorta di industria politica, un modo di rivolgersi ai cittadini presentando come una minaccia cio' che arriva dall'esterno. Prima di parlare di razzismo, occorre dire che ci sono stati grandi eventi mondiali che hanno creato un clima di paura. Sempre piu' persone giungono dall'Africa e dal Sud in modo illegale per lavorare qui. Le persone hanno cominciato a chiedersi cosa stesse succedendo.

Per spiegare perche' avesse deciso di fare una nuova edizione del libro, Ben Jelloun ha detto di essere stato interrogato da alcuni bambini che gli hanno chiesto se i suoi libri sul razzismo avessero fermato il razzismo o no, ma non e' possibile eliminare il razzismo, c'e' una universalita' del razzismo, che e' dato insito nell'umanita'. Motivo di piu', a suo giudizio, per cercare di lottare contro i danni del razzismo, ma Ben Jelloun non crede che grazie ai suoi libri i razzisti lo saranno meno. Occorre invece agire sull'educazione e fare pedagogia, a partire dalla scuola primaria. Egli ha detto di credere nella virtu' della pedagogia e nella sua importanza per generare un buon cittadino, visto che qualsiasi ragazzino potrebbe divenire un ladro, un delinquente, un genio, eccetera: tutto dipende dal contesto e dall'educazione.

Lo scrittore ha parlato di come la democrazia in Europa sia giunta a dei limiti e ci si e' trovati in una situazione in cui si cerca di aggirare la democrazia, e in cui i media possono essere usati per influire sulla democrazia e vincere le elezioni. Ha quindi citato quanto sta accadendo in Francia relativamente alla proposta di legge sul caso del burqa (oggetto che, ha chiosato, mi inorridisce), un fatto che interessa forse 1500 persone ed e' in realta' un fenomeno folcloristico. Ma anche il Belgio e altri Paesi nordeuropei si stanno muovendo nella stessa direzione, ha detto lo scrittore, sottolineando che c'e' un grande pregiudizio nei confronti dell'Islam, quindi occorre parlare sui media e chiarire. Ben Jelloun ha detto di essere laico e credere quindi nella separazione fra Stato e Chiesa, di ritenere la religione un aspetto personale. Lasciare la religione nel privato (insomma, lasciare agli Islamici l'Islam, ndr) sarebbe rispettare la laicita' e quindi tutte le religioni.

L'autore ha poi toccato il testo relativo alla vulgata secondo cui sia il comportamento di alcuni stranieri a spingere al razzismo. Ma questa diceria, ha ricordato, era diffusa anche negli anni '40 con la nascita dell'antisemitismo. Per lo scrittore, invece, il discorso e' che se qualcuno - Islamico, Cinese, Italiano - ha commesso un delitto, deve occuparsene il tribunale, e il reo sia condannato senza riguardo e senza condizionamenti rispetto alla provenienza, ma non se ne puo' fare una generalizzazione. Quindi occorre spiegare agli stranieri storia, regole e lingua locale (come avviene ad es in Svezia con sei mesi di insegnamento della lingua), ma anche spiegare anche ai locali le culture degli "ospitati". Occorre non stimolare l'arrivo veloce degli stranieri, ma anche accogliere chi arriva in modo positivo.

Rivolgendo una domanda agli altri relatori, Ben Jelloun ha detto se ritengano valida la sua proposta di creare una nuova cultura sugli immigrati - siano essi economici, esuli politici, richiedenti asilo, eccetera - un compito che e' della politica. Infatti, ha concluso, una Europa meticcia e' il nostro destino, a meno di un nuovo Hitler.

In merito a tale idea, Fouad Allam ha parlato di "dimissione totale" dei grandi intellettuali italiani che hanno la parola pubblica. Ha poi detto che in Italia tutto e' ridotto alla dimensione dello spettacolo, ma quando lo spettacolo e' finito tutto resta tale e quale. Lo spettacolo, pero', risucchia e vanifica l'azione della societa' civile. Occorre una presa di coscienza, ha concluso lo scrittore, disperando che questa possa verificarsi.

Oliviero Beha ha parlato di "ricchezza dell'immigrato" che non riguarda solo le braccia ma anche la testa, la sensibilita' eccetera. Ha poi chiosato che noi siamo razzisti nei confronti dei poveri, ma non dei ricchi . Rispondendo ad Allam ha detto che in Italia i veri intellettuali "sono quelli che si sono prostituiti alla politica" e non si vedono in TV nel salotto di Vespa o simili contesti. Gli intellettuali veri non hanno la parola in TV. Per Beha, "I media hanno fatto un macello" anche in termini di identita', ad esempio titolando "Marocchino investe due persone", quando non viene scritto "Bergamasco investe...". Se scrivo "Idraulico ammazza la moglie", e' una informazione in piu', ma se scrivo "Marocchino investe…" mando il messaggio: attenzione, i Marocchini investono le persone. Si tratta quindi di agire sull'impostazione culturale.

Tahar Ben Jelloun ha detto che in Francia il fenomeno e' in calo perche' ogni volta che i media francesi fanno questo, sono immediate le reazioni indignate di tanti e delle associazioni contro il razzismo. Sul punto, Ritanna Armenni ha commentato che va considerato che in Italia l'immigrazione e' piu' recente rispetto alla Francia. Ha denunciato le colpe della politica nel creare paura ed ha detto che non c'è consapevolezza, ma la consapevolezza e' importante.

In conclusione, Tahar Ben Jelloun, rispondendo ad una domanda, ha detto che non scrivera' piu' saggi sul razzismo, ma continuera' con i suoi racconti, perche' anche quelli sono uno strumento per testimoniare.









Immigrazione, Sacconi:
«La famiglia come perno di integrazione sicura»

Il Messaggero, 16-05-2010

ROMA - Non ci saranno nè«assimiliazioni arroganti», né «multiculturalismo indifferente». Si partirà dall'affermazione de dell'identità nazionale per poi costruire percorsi di «incontro» con l'altro. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dubbi: il piano sull'Integrazione nella sicurezza, che «il governo varerà nei prossimi giorni», si baserà sul binomio   «identità-incontro» e rimarcherà il fatto che integrazione e sicurezza «sono due facce della stessa medaglia». In questo processo, un ruolo «straordinariamente importante» lo avrà la famiglia, «sede di incontro tra etnie». L'occasione per rilanciare i piani del governo in materia di immigrazione è stata la Giornata internazionale della Famiglia, celebrata ieri a Roma dal Forum delle Associazioni Familiari attraverso il convegno «Famiglia a colori: il futuro dell'Italia è interculturale». Principio condiviso anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

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