Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 maggio 2013

Profughi, bambini e dimenticati
Senza acqua calda e talvolta senza un letto. Sono ben 111 i minorenni rinchiusi nel Centro Cpsa di Lampedusa. Per legge, dovrebbero restarci 48 ore invece alcuni rimangono lì per settimane
l'Espresso, 03-05-2013
Roberto Di Caro
Ben 111 minorenni, dimenticati per giorni e giorni nel centro Cpsa di Lampedusa, senza acqua calda e talvolta senza nemmeno un letto su cui dormire. Lo racconta "L'Espresso" nel numero in edicola venerdì 3 maggio: l'inviato del settimanale è riuscito a visitare la struttura dell'isola che ospita i ragazzini, rinchiusi assieme agli adulti, 701 persone negli spazi che dovrebbero contenerne al massimo 300.
Ognuno dei profughi ha un'odissea alle spalle. Come Aman: sette anni di peregrinazioni, umiliazioni, fughe, botte, carcere per arrivare a Lampedusa. Ha 17 anni. Dall'Eritrea dilaniata da guerra e dittatura è scappato lasciando tutto e tutti quando di anni ne aveva nove: «In Etiopia ho passato venti mesi in un campo profughi Unhcr, poi con altri ragazzi sono passato in Sudan, dei trafficanti ci hanno rapiti e portati nel deserto, volevano venderci: a pezzi, un organo alla volta. Ma uno non muore se non è il suo tempo». Fugge di nuovo, in Egitto lo arrestano, un anno in carcere. Peggio quando passa in Libia, «da una galera all'altra, torturato dai poliziotti, insultato dalla popolazione, minacciato persino dai bambini». Sul barcone per l'Italia gli rubano anche gli ultimi soldi che ha, nella traversata vede morire due persone, gettate a mare. Sta qui da quindici giorni, non sa dove andrà, chiede una coperta in più perché di notte fa freddo, una scheda telefonica supplementare per chiamare i suoi, e se non può lasciare l'Italia «almeno portatemi in un posto migliore di questo, per favore».
Nel Centro di Lampedusa chi non ha un letto, compresi alcuni minorenni, dorme su materassi per terra, sotto le tettoie dei padiglioni o sotto quella che giù in fondo, oltre il cancello degli adulti, isola uno dei due prefabbricati bruciati nella sommossa di due anni fa: quando per effetto delle rivolte in Nordafrica il Centro e l'isola furono invasi da settemila migranti, un tappeto umano, un incubo durato 55 giorni. Niente acqua calda, è così da qualche giorno, problemi di manutenzione, ci si lava come capita.
"L'Espresso" ha accompagnato la visita ufficiale del Garante per l'infanzia e l'adolescenza, Vincenzo Spadafora. La gran parte di questi ragazzi sono "minori in transito": «Non pensano affatto di restare in Italia, vogliono solo raggiungere fratelli, parenti o connazionali nel nord Europa dove avrebbero anche opportunità di lavoro, ma noi glielo impediamo perché in base agli accordi comunitari il paese di prima accoglienza è quello che se ne deve far carico. E' pura follia, porrò la questione alla prossima riunione dei garanti per l'infanzia di tutta Europa». Per legge i minorenni non dovrebbero restare al Centro più di 48 ore, ma due somali li hanno recuperati 15 giorni fa su un barcone con 129 persone dopo 16 ore tra le onde: una fortuna, la Marina italiana li ha avvistati appena entrati in acque internazionali. Diciassettenni, da Mogadiscio uno e Kisimaio l'altro, anche loro hanno passato quasi due anni in Libia, picchiati, senza cibo né medicine, sotto Gheddafi come con il governo provvisorio, cosa vuoi che cambi per gente allo sbando come loro. Tutti gli altri stanno a gruppi, in piedi o accovacciati o seduti in un piccolo spiazzo, in silenzio o a parlare. Molti arrivano ora dal Mali della guerra civile e dei massacri islamisti. Come Kamadi e Djallou, sedicenni senza padre, madri che han detto loro di andarsene via, lontano dalla miseria, nelle intenzioni diretti in Svizzera e Norvegia dove hanno parenti: per il momento, dormono qui all'addiaccio.
Le ragazze sono diverse. Non sai, non ti raccontano che cosa hanno passato, giusto a Nasrà scappa detto che il padre era terrorizzato all'idea se ne andasse via da sola, e a Ucped (somala diciassettenne come l'amica) che la famiglia la voleva sposare a un uomo da lei indesiderato. Ma sono curate, sorridono e dicono: «L'Italia la sognavo fin da bambina, qui la vita è buona, soprattutto sicura, è una strada diritta, ora, capisci? Dormiamo in dodici in una stanza, attaccate una all'altra. Ma abbiamo un letto».



Immigrati, la storia di Karim rinchiuso a Ponte Galeria
Egiziano, in Italia dal 1996, oggi aspetta un figlio con una giovane milanese, ma la sua condizione di "irregolare" non gli permette di vivere con la sua compagna. E' uno dei sessanta internati nel Centro di identificazione e di espulsione più grande d'Italia. Tutti i reclusi maschi stanno facendo lo sciopero della fame per chiedere "Procedure più rapide, un servizio sanitario efficiente, l'espatrio facilitato di chi lo richiede
la Repubblica.it, 03-05-2013
RAFFAELLA COSENTINO
ROMA - Karim ha 24 anni, un forte accento milanese, una vita in Italia, una fidanzata italiana e un figlio in arrivo. Ma ha anche il passaporto egiziano e rischia di volare a migliaia di chilometri di distanza con il divieto di fare ritorno. Spedito in un altro continente, separato dal bambino quando ancora non si sono potuti nemmeno conoscere. La sua compagna ha saputo da poco di essere incinta.
Tutti in sciopero della fame. Karim è uno dei sessanta internati nel Centro di identificazione e di espulsione più grande d'Italia, Ponte Galeria. Tutti i reclusi della sezione maschile stanno facendo lo sciopero della fame per chiedere pacificamente che vengano accolte una serie di richieste. "Procedure più rapide, un servizio sanitario più efficiente, la traduzione delle notifiche nella lingua d'origine, che le visite dall'esterno vengano facilitate senza tanta burocrazia, che venga facilitato l'espatrio di chi lo richiede senza un trattenimento di lungo periodo, che i tossicodipendenti vengano accolti in strutture adatte alle loro esigenze di recupero, che chiunque abbia uno o più carichi pendenti possa presenziare al suo processo in modo che non venga condannato in contumacia", si legge in un documento fatto pervenire a Gabriella Guido, coordinatrice della campagna LasciateCIEntrare.
Il rispetto della dignità. "Il testo ha profondamente colpito noi tutti - dice Guido - Quello che chiedono i reclusi è che venga innanzitutto rispettata la dignità umana, che non viene "dismessa" all'ingresso di un centro di identificazione ed espulsione. La campagna LasciateCIEntrare  denuncia l'arretratezza e l'iniquità della normativa sulla detenzione amministrativa, che deve essere ridiscussa dal nuovo Parlamento al più presto". Il documento contiene anche un'accusa molto grave. I migranti chiedono "che non venga usata più violenza nè psichica nè fisica contro di noi (giorni fa è stata somministrata una puntura di psicofarmaci ad un ospite contro la sua volontà che ha avuto una reazione dannosa alla sua salute provocandogli gravi danni, ancora oggi non può parlare)". E concludono scrivendo: "Centri come quello di Ponte Galeria schiacciano la dignità delle persone e andrebbero chiusi per sempre. Noi stiamo motivando il nostro sciopero della fame. Ora voi motivate perché ' noi stiamo scontando una condanna senza aver commesso nessun reato".
"Mi vogliono portare via a forza". E' sempre più frequente incontrare nei Cie persone prive di permesso di soggiorno, straniere sulla carta ma italiani di fatto, che si oppongono al rimpatrio. Come Karim. "Sto impazzendo, non ce la faccio più. Dicono che sono entrato in Italia nel 2006 ma non è vero, sono qui dal 1996 - racconta - qualche giorno fa mi hanno detto che ero libero, che mi avrebbero lasciato andare da mia mamma e dalla mia donna, che è incinta di due mesi. Mi hanno detto: vai tranquillo che te ne stai andando a casa. Dopo che ho superato tutti i cancelli e le sbarre, sono arrivato alla fine e mi hanno detto che stavo andando sull'aereo. Mi sono opposto, gli ho detto che ho la mia vita qua, un bimbo che sta per nascere, un fratello piccolo nato in Italia, un altro fratello sposato con un'italiana, in Egitto non ho nessuno. Mi hanno risposto che verranno con la scorta, hanno intenzione di portarmi via di prepotenza. Parlo meglio l'italiano dell'arabo, vivo all'occidentale, mi sentirei un pesce fuor d'acqua in Egitto. Stanno calpestando tutti i miei diritti".  
Il passato di Karim. Così Karim è stato riportato in gabbia, con la sua storia difficile e le sue domande rimaste senza risposta. Arrivato in Italia da piccolo, rimasto orfano di padre, affidato a una famiglia marocchina dai servizi sociali, da adolescente ha fatto uso di droghe. Nel suo passato, già un anno di carcere e tre di comunità di recupero. "Sono guarito dalla tossicodipendenza, ne sono venuto fuori - racconta - ho mantenuto la mia promessa, l'ho fatto per la mia donna. Aspettavo di essere regolarizzato all'uscita dalla comunità, sono rimasto nella convinzione che avessero mandato l'istanza di rinnovo per il permesso di soggiorno, ho scoperto ora che non era mai stata spedita. Lo Stato ha pagato per tre anni la comunità e poi mi rovina la vita quando ne sono venuto fuori, io sinceramente non ci ho capito niente".
Non può dimostrare di essere padre di suo figlio. Rinchiuso nel centro di identificazione e di espulsione, Karim non può dimostrare di essere il padre del bambino. Il suo avvocato, Salvatore Fachile, si sta battendo perché gli permettano di fare il riconoscimento. La sua compagna, Federica, appena 21enne, fa la spola da Milano a Ponte Galeria. "Era andato a trovare degli amici a San Siro, lo hanno fermato e portato in questura - racconta lei - per due giorni non ho saputo nulla di lui, era come sparito, è stato un trauma. Al terzo giorno mi ha chiamata da Ponte Galeria. All'inizio non volevano neanche farmelo vedere perché c'erano sempre problemi con la mia richiesta. Stanno togliendo un padre alla mia bambina e un compagno a me". Federica ha già una figlia di pochi anni che considera Karim come suo padre. "Ieri l'ho portata a vederlo, mi chiede sempre: perché papà non torna?".
"Arcipelago CIE". Intanto, la campagna LasciateCIEntrare annuncia per il 7 maggio una conferenza stampa in risposta al rapporto sui CIE redatto da un task force istituita dal Ministero dell'Interno e condotta dal Sottosegretario Saverio Ruperto. Un contro-rapporto è stato preparato anche dall'Ong Medici per i Diritti Umani, che lo presenterà il 13, dal titolo: "Arcipelago Cie". Il rapporto Ruperto, lascito del vecchio governo al nuovo, ha suscitato molte critiche per le proposte in esso contenute, volte a fare dei Cie strutture più simili alle carceri, con personale formato dalla polizia penitenziaria e celle di isolamento per trattenere persone "di indole non pacifica" in modo preventivo, qualora si tema che possano causare danni alle strutture. Tutto questo contrasta con il fatto che non avere il permesso di soggiorno non è un reato penale, ma solo un problema amministrativo.
L'ultimo atto del governo Monti. Infine, un ultimo atto del governo Monti è stata l'ordinanza di Protezione Civile del 17 aprile 2013 che sblocca 13 milioni e mezzo di euro per la costruzione di due nuovi Cie, 10 milioni per quello di Santa Maria Capua Vetere e tre milioni e mezzo per quello di Palazzo San Gervasio. Quest'ultimo, in provincia di Potenza, era stato chiuso in fretta dal Viminale nel 2011 dopo l'inchiesta di Repubblica dal titolo "Guantanamo Italia".



Da profughi a imprenditori Progetto-pilota per micro imprese
A Mestre e Trento partiranno i corsi di formazione per la creazione di piccole attività economiche rivolte a titolari di protezione internazionale. L'iniziativa prevede l'organizzazione di corsi a Torino, Milano, Mestre, Trento e Roma, con la partecipazione di oltre 80 persone. Le risorse dal Fondo Europeo per i Rifugiati, promosso dall'International Training Centre of the ILO, insieme con il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR)
la Repubblica, 03-05-2013
ROMA - Domani, a Mestre e Trento partiranno i corsi di formazione per la creazione di micro-imprese rivolti a titolari di protezione internazionale. L'iniziativa, rientrante nell'ambito del progetto "RE-LAB: start up your business", prevede l'organizzazione di corsi nelle città di Torino, Milano, Mestre, Trento e Roma, con la partecipazione di oltre 80 persone in formazione.
Vie sperimentali. Il progetto pilota intende sperimentare vie alternative di accesso al lavoro, partendo dalla consapevolezza che le persone rifugiate, spesso ricche di risorse e di esperienze professionali qualificate, hanno portati che devono essere valorizzati e che, analogamente ai migranti, hanno una spiccata attitudine al lavoro autonomo verso cui queste potenzialità possono essere indirizzate, favorendo così percorsi di piena autonomia e integrazione. Il progetto è finanziato dal Fondo Europeo per i Rifugiati e promosso dall'International Training Centre of the ILO, insieme con il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), Micro Progress Onlus, l'Associazione Microfinanza e Sviluppo e il Comune di Venezia. Il progetto si avvale inoltre di una rete di organizzazioni che a vario titolo stanno offrendo il loro supporto all'iniziativa.
L'educazione bancarfia. Importante il contributo di UniCredit che domani a Mestre e a Trento porterà in aula il modulo formativo di educazione bancaria "In-formati", presso il CAF ACLI Mestre  di Via Ulloa e presso la "Trento Associazione Infusione" di via Saluga, dove educatori volontari di UniCredit incontreranno 40 rifugiati nei corsi "Il Dialogo Banca e Impresa", con l'obiettivo di illustrare le principali logiche sottostanti al processo di concessione del credito alle imprese. UniCredit si inserisce nel progetto "Re-lab Start Up your business" attraverso "In-formati", il programma di educazione bancaria con il quale dal 2011 a oggi ha già portato in aula più di 36 mila persone in 68 diverse città italiane, incontrando 6 diverse tipologie di destinatari (giovani, famiglie, anziani, imprese, immigrati, non profit) per supportare la crescita dei territori, l'inclusione economica dei cittadini e il contenimento di fenomeni di sovra indebitamento attraverso la realizzazione di corsi gratuiti tenuti volontariamente da personale della banca. Il corso in programma domani a Mestre e a Trento sarà caratterizzato, come tutti quelli di In-formati, da contenuti e stile di linguaggio semplice e pratico.



Quella libertà di stampa diversa a ogni latitudine
Oggi la giornata mondiale. Fare il giornalista in molti Paesi è sempre più un lavoro a rischio
La Stampa, 03-05-2013
Mario Calabresi
Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale dedicata alla libertà e alla sicurezza dei giornalisti. La si celebra da dieci anni e alcuni mesi fa avevamo deciso che valeva la pena farlo con un numero speciale, dedicato a tutti quei giornalisti che ogni giorno rischiano la loro vita per raccontare e testimoniare. Oggi per noi, che dall’8 aprile non abbiamo notizie del nostro inviato Domenico Quirico entrato in Siria per una serie di reportage nell’area di Homs, questa scelta è ancora più significativa e urgente.  
In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa. Ci sono Paesi in cui le due cose convivono.  
Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo.
Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
In Italia invece la domanda ha tante risposte. Da noi se vuoi vivere tranquillo è consigliato non partire per la Siria, l’Afghanistan, la Libia ma anche non fare inchieste sulla ‘ndrangheta o la camorra e non importa se il tuo lavoro lo fai a Napoli, a Modena, nella Locride o nell’hinterland milanese. Ma non basta. Se vuoi evitare minacce, aggressioni e fastidi lascia perdere pure gli anarco-insurrezionalisti, evita di avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav e non metterti a presentare libri di dissidenti cubani. L’intolleranza verso un’informazione libera e critica ha facce e radici le più diverse tra loro. L’Italia ha poi la variante giudiziaria: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti».  
Eppure il giornalismo non è mai stato attaccato, sminuito e dileggiato come in questi tempi, in cui viene accusato di essere parte della casta e indicato come complice del decadimento della politica e delle amministrazioni pubbliche. E dire che mai come negli ultimi anni il giornalismo italiano ha messo sotto accusa il sistema dei partiti, denunciando truffe, sprechi e privilegi e che se un’obiezione sarebbe da muovere non è alla timidezza ma alla mancanza di garantismo. L’onda del malessere e un certo qualunquismo dilagante non sembrano però essere capaci di fare distinzione alcuna.
Nell’ottobre dell’anno scorso – anno record per numero di giornalisti uccisi, 121, e incarcerati – ho partecipato a Londra, nella nuova sede della «Bbc», all’incontro tra i rappresentanti di oltre 40 media internazionali per discutere e sottoscrivere un documento in otto punti che parla di sicurezza, riconoscimento, solidarietà internazionale e di fine dell’impunità per chi perseguita o uccide un giornalista. Perché oggi nel mondo nove casi su dieci restano impuniti.  
Ma un diverso impegno internazionale, che faccia sentire la pressione dell’opinione pubblica su quei regimi che opprimono la libertà di stampa, può fare la differenza, specie quando si tratta di carcerazioni e minacce. Perché non in tutti i Paesi lo Stato è qualcuno che ti può difendere: mentre illustravo il caso di Roberto Saviano e degli altri giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta sono stato interrotto dalla giornalista russa Galina Sidorova, che ha dato vita a Mosca alla Fondazione per il giornalismo investigativo, con queste parole: «Ma io non potrei mai farmi scortare dalla polizia, in Russia sarebbe la cosa peggiore: non potrei più lavorare liberamente, così sarei continuamente controllata ed è proprio dalla polizia che molti di noi si devono guardare».
A Londra, a rappresentare l’Italia, c’era «La Stampa»: prima di partire mi ero seduto proprio con Domenico Quirico a discutere come si può aumentare la sicurezza dei giornalisti che entrano in zone di guerra. Domenico era reduce da poco più di un anno di un rapimento, avvenuto alle porte di Tripoli alla vigilia della caduta del regime di Gheddafi. Alle mie domande aveva inizialmente opposto un lungo ed eloquente silenzio, perché secondo lui il pericolo non può essere evitato o sterilizzato, sarebbe illusorio pensarlo. «Certo – aveva sottolineato – i giornalisti che hanno una solida organizzazione alle spalle, che non devono barattare la loro sicurezza in nome del risparmio, che hanno la possibilità di lavorare con calma e prepararsi bene, partono un po’ più sereni. Ma per me il vero giornalismo non passerà mai da comitive organizzate e intruppate, difese da guardie armate, che passano e vanno come fossero turisti. Io preferisco essere solo, con le guide locali, per dare meno nell’occhio e lavorare senza farmi notare».
Lo stesso senso del giornalismo che muove Yoani Sánchez, dissidente e giornalista cubana, che intende questo mestiere come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».
Per questo oggi, in attesa di pubblicare presto i suoi reportage dalla Siria, vi proponiamo una lunga intervista che Domenico ha rilasciato al mensile «Tracce» prima di partire, in cui è contenuta tutta la sua filosofia di lavoro.
Per questo abbiamo trascritto le convinzioni di Yoani Sánchez così come le ha raccontate domenica scorsa al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e abbiamo raccolto le testimonianze di chi vive e scrive sotto il segno del pericolo e della paura, dal Messico alla Russia, dal Pakistan alla Somalia.
Come diceva più di un secolo fa Lord Northcliffe, giornalista e poi editore inglese: «La notizia è quella cosa che qualcuno, da qualche parte, non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità».
Questo numero speciale è dedicato a tutti quelli che ancora ci credono.  



Adjim e gli altri : quando la libertà di stampa va in esilio
Una mostra di disegni sui giornalisti in esilio ricorda i rischi e l’importanza di chi nel produce informazione scomoda
per il regime al potere. Dal Ciad all’Iran, il percorso di chi arriva
al punto di non ritorno: la fuga forzata e una vita da rifugiato.
La Stampa, 03-05-2013
Giordano Cossu
Nella banlieue di Parigi, il miniappartamento di Adjim Danngar, in arte e firma Achou, è minuscolo: letto, pavimento e scrivania si confondono in un unico spazio di lavoro, riempito da una creatività che coinvolge non solo i classici inchiostro e colori, ma cartoni decorati, sagome bifronti, quadri e oggetti di ogni tipo. Come se i personaggi creati si sedessero poi accanto a lui e lo aiutassero a crearne di altri. Tutti militanti della libertà di stampa.
Adjim è giornalista e caricaturista, e dal 2004 rifugiato politico dal Ciad in Francia. Ha 30 anni oggi, ma ne aveva 22 quando nello spazio di poche ore decise che il suo futuro non poteva più essere nel suo Paese, a causa delle minacce e aggressioni continue. Il Ciad, poverissimo nonostante le grandi risorse naturali, si trova in un crocevia geopolitico chiave dell’Africa sahariana stretto tra Libia, Niger, Nigeria, Camerun, Repubblica Centrafricana e Sudan, tutte potenziali polveriere a causa dei movimenti di uranio, petrolio e altre risorse strategiche. Il controllo del potere è dal 1991 ininterrottamente nelle mani della stessa persona, il generale Idriss Déby.
Laicità, rapporti con il mondo arabo, guerra nel vicino Darfur, traffici illegali dei potenti, Adjim si è introdotto in maniera naturale, “senza pensarci”, in argomenti scottanti che hanno scatenato una serie crescente di minacce. Finché, come accade spesso, tutto precipita nell’arco di 24 ore: un interrogatorio di troppo in aeroporto, le minacce fisiche, il confronto con colleghi giornalisti che non lascia troppo spazio al futuro. 24 ore dopo, ottenuto un posto fortunosamente su un altro volo, il biglietto si trasforma in sola andata. E il Ciad, in un Paese di ricordi d’infanzia.
Nove anni dopo, le caricature e vignette di Adjim continuano a occuparsi di temi sociali, di lotte per i diritti umani, di integrazione: le rivoluzioni arabe, la caduta di Gheddafi, gli immigrati non desiderati in Europa. Nel 2011 è stato uno dei 60 giornalisti “fumettisti” di tutto il mondo che hanno partecipato alla mostra “Exil”, creata a Parigi dall’associazione “Maison des journalistes”, un’associazione che permette ai giornalisti rifugiati di avere un alloggio e sostegno per 6 mesi, di cui ha beneficiato anche Adjim. La mostra è ora in Italia (a Torino, in piazza Carlo Alberto, fino al 5 maggio) grazie all’associazione cugina “Il Caffè dei giornalisti”. Dalla censura alle torture, dal rapporto Europa-immigrati a quello con l’esilio e la lontananza forzata, la creatività non ha limiti per descrivere e spiegare cosa vuol dire dover scappare dal proprio Paese perché minacciati, e cosa comporta una delle professioni più pericolose al mondo: quella del giornalista scomodo al potere.
Secondo Reporter Senza Frontiere, già 19 giornalisti sono stati uccisi nel mondo in questo 2013. Furono 90 nel 2012, e a questi vanno aggiunti i cittadini e giornalisti imprigionati, o costretti a scappare, cifre spesso 10 volte superiori. Un recente rapporto di Freedom House colloca il Ciad al 168 posto (su 196 Paesi al mondo) per libertà di stampa. RSF, dal canto suo, censisce 179 Paesi e il Ciad è al 121 posto, in caduta libera rispetto all’anno precedente. Indicatori diversi, classifica diversa, ma l’essenza è lì: il Ciad è in quella vasta categoria di Paesi dove fare il giornalista può portare molti e seri problemi: una legge del 2008 permette di imprigionare giornalisti fino a 5 anni per diffamazione contro il presidente. Il caso recente di Jean-Claude Nekim, condannato nel settembre 2012 a un anno di prigione e una salata multa per “diffamazione”, ossia aver messo in discussione il malgoverno e il potere arbitrario del presidente “regnante”, ne è un esempio lampante.
Paesi come Siria e Iran, da anni agli ultimi posti delle classifiche di libertà dei media, da cui vengono Nart Abdulkareem e Karim Rehmani, anche loro rifugiati in Francia e “ospiti” della Maison des Journalistes.  
Secondo un rapporto del Comitato per la Protezione dei Giornalisti, dei 67 giornalisti uccisi nel 2012 nell’esercizio del loro mestiere, il 94% era nel proprio Paese. Se i media occidentali si soffermano sui propri corrispondenti in zone di guerra, la realtà è che i rischi maggiori li corrono i media e i giornalisti che fanno luce su quanto i regimi cercano di nascondere, vivendo per anni tra intimidazioni e minacce. Come è il caso di Nart, appena scappato dalla Siria dove era corrispondente per la TV degli Emirati, Al Arabiya. La Siria ha il triste primato di giornalisti uccisi nel 2012. “Mi collegavo in diretta al telegiornale, per telefono e sotto falso nome, e ho potuto farlo per alcuni mesi” spiega Nart “ma il regime di Assad, dopo aver rintracciato alcuni miei amici, è riuscito a risalire alla mia identità. Un giorno, guardando dalla finestra, sono riuscito a vedere la polizia mentre arrivava, e sono scappato appena in tempo lasciando tutto: computer, macchina fotografica, tutto. Sono riuscito a trovare una macchina fino al confine, e da lì passare in Giordania prima di riuscire rifugiarmi in Francia. Ma al Arabiya non ha fatto nulla per me neanche dopo la fuga, malgrado corressi dei rischi per loro”.  
Per Rebin, curdo iraniano, il rapporto con il suo Paese è doppiamente difficile: “Il regime esercita un controllo ancora più stretto sulle opposizioni in Kurdistan che nelle altre regioni”. Quando vede i disegni di un suo compatriota giornalista, con la bandiera della Repubblica Islamica (introdotta nel 1980) a indicarne la provenienza, ha uno scatto: “L’Iran non è rappresentato da quella bandiera”. In Iran, dove le elezioni si avvicinano, la censura raggiunge perfino giornalisti vicini al presidente Ahmadinejad a causa di posizioni più critiche verso la Guida Suprema Ali Khamenei. 4 anni dopo i moti del 2009 soppressi nel sangue, nulla lascia presagire un cambio di rotta in un Paese costantemente agli ultimi posti di tutte le classifiche di libertà di espressione.



Rom: la Cassazione rigetta il ricorso del Governo e mette fine all’“emergenza nomadi”.
Rigettato il ricorso contro la sentenza del Consiglio di Stato che stabiliva l’illegittimità dell’“emergenza nomadi”. Associazione 21 luglio: “Chiusa definitivamente la stagione dei Piani nomadi”.
Immigrazioneoggi, 03-05-2013
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal Governo italiano con il quale chiedeva di cassare la sentenza del Consiglio di Stato che nel novembre 2011 aveva dichiarato l’illegittimità della “emergenza nomadi” in Italia. A darne notizia è l’Associazione 21 luglio, da anni impegnata per la tutela dei diritti di rom e sinti.
La sentenza, pronunciata ieri, risponde alla richiesta avanzata dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti il 15 febbraio 2012 di rivedere quanto stabilito da Palazzo Spada che aveva messo in discussione il “Piano nomadi” voluto dal Governo Berlusconi e presentato dall’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Sentenza del Consiglio di Stato successiva ad un primo pronunciamento del Tar del Lazio su ricorso presentato dallo European Roma Rights Centre e da una famiglia rom ma che, diversamente da quanto stabilito in primo grado, dichiarava “l’illegittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 maggio 2008”, quello che istituiva l’emergenza.
La sentenza “chiude una delle pagine più buie dei diritti umani delle comunità rom e sinte in Italia – spiega la 21 luglio –. Il periodo dell’emergenza aveva scandito la nascita di diversi ‘Piani nomadi’, attraverso i quali, in alcune città italiane, politiche discriminatorie e segregative avevano causato sistematiche violazione dei diritti delle comunità rom e sinte. Dietro la giustificazione di un presunto ‘stato di emergenza’, le autorità delle città interessate, in deroga alle normative vigenti, hanno promosso politiche segnate da schedature etniche, costruzione di mega campi monoetnici e azioni di sgombero forzato”.
Una sentenza “storica”, che secondo l’associazione, “dice che è giunta l’ora di voltare pagina, per fare uscire dall’alveo dell’emergenza le politiche indirizzate alle comunità rom e sinte, da 5 anni ricondotte esclusivamente ad un’ottica securitaria”.

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