Milano, quando paura e disagio "rendono" più dell'integrazione

Maurizio Ambrosini, università di Milano

Ora si scopre il ghetto di via Padova, a Milano. Di fronte alla trasformazione delle città in luoghi di faticosa convivenza interetnica, si può reagire o affermando la propria contrarietà, o cercando di governare il cambiamento.
A Milano le istituzioni pubbliche hanno scelto la prima strada. Hanno sottratto risorse alle politiche di integrazione, messo i soldati per le strade, promosso le ronde.  Qualche mese fa, un parroco del quartiere ci diceva: “se invece di mandarci i militari, ci mettessero  a disposizione un paio di educatori, potremmo ottenere molto di più”. Parole sagge e inascoltate.

I protagonisti dei disordini hanno un profilo biografico abbastanza omogeneo: sono giovani uomini soli. In genere lavorano, più o meno regolarmente. Nel fine settimana, non sapendo dove andare, si ritrovano tra loro, bevono, talvolta importunano, talaltra litigano. Se si favorissero i ricongiungimenti, anziché ostacolarli, molti starebbero a casa o andrebbero a far la spesa con la famiglia. Se si favorissero luoghi e possibilità di aggregazione, avrebbero meno occasioni per mettersi nei guai.

Molti vivono in situazioni di precarietà e sovraffollamento, alla mercé di capi, capetti, fornitori di alloggi abusivi,  affittacamere a caro prezzo. Se ci fossero politiche abitative che ne favorissero la distribuzione sul territorio,  sarebbero ben lieti di affrancarsi.

L’integrazione non è utopia, è un obiettivo politico. A Torino (San Salvario), come a Padova (via Anelli) le amministrazioni locali  ce l’hanno fatta. A Milano non ci provano neppure, il disagio e la paura rendono di più.
Maurizio Ambrosini, università di Milano
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