Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 maggio 2013

La resa della Procura: inutile denunciare, i clandestini sono troppi
Basta un cavillo o un atto di autolesionismo: l'espulsione salta, la giustizia s'ingolfa. E i pm oberati frenano le forze dell'ordine
il Giornale, 15-05-2013
Paola Fucilieri

Stritolata dal reticolato burocratico di articoli di legge e disposizioni l'Italia è costretta a tenersi i suoi clandestini. Anche un assassino come il ghanese 31enne Mada Kabobo, il «killer» che a Milano sabato ha aggredito per strada, a colpi di piccone, sei passanti italiani uccidendone tre.
Nonostante il permesso di soggiorno come rifugiato gli fosse stato negato, infatti, lo straniero, aveva fatto ricorso.
E, nell'attesa, poteva rimanere qui. Proprio com'è accaduto poco più di due settimane fa anche a un terrorista come Abdel Hady Abdelaziz Mahmoud Kol, complice di Mohamed Game, il libico autore dell'attentato kamikaze alla caserma Perrucchetti il 12 ottobre 2009. Al 56enne egiziano il giudice di pace non ha convalidato il provvedimento di accompagnamento immediato chiesto dall'ufficio immigrazione della questura di Milano perché il suo avvocato aveva dichiarato di «avere intenzione» di presentare a breve ricorso al Tar contro la revoca del permesso di soggiorno del suo assistito.
E allora? Il reato di clandestinità è una sorta di scatola vuota? Emanuele Brignoli, 43 anni, ispettore capo alla squadra mobile di Milano e coordinatore dell'Osservatorio nazionale uffici immigrazione per l'Ugl polizia di stato, non ha dubbi: «Sicuramente sì. Tenendo conto che il reato non prevede la reclusione, ma solo un'ammenda pecuniaria da 5 a 10mila euro che nessuno straniero irregolare potrà mai permettersi di pagare. Inoltre - spiega Brignoli - la mole di procedimenti penali pendenti presso il giudice di pace di Milano contribuisce a rendere vana l'applicazione della norma».
In una circolare inviata lo scorso dicembre alle forze di polizia dalla Sezione definizione affari semplici (Sdas) della Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario di Milano, si ammette, senza troppi giri di parole, di non riuscire a perseguire i clandestini perché sono troppi. Così, per evitare ai giudici di pace di essere «inondati da un'insostenibile massa di procedimenti da far approdare al giudizio» nel documento si consiglia a polizia e carabinieri di andarci piano con le denunce per il reato di clandestinità. O, comunque, di procedere solo quando è strettamente necessario e in base a indicazioni fornite dalla Procura stessa.
«L'unico mezzo per allontanare i clandestini sarebbe l'espulsione - prosegue Brignoli -. Ma la normativa che la regola è facilmente aggirabile con un ricorso al Tar o una richiesta di asilo politico, anche pretestuosa. Se l'espulsione non è immediata, infatti, lo straniero dovrebbe essere trattenuto in un Cie (Centro identificazione ed espulsione) o venire sottoposto alle misure di controllo alternative, come il ritiro del passaporto o l'obbligo di presentazione all'autorità di polizia competente. Provvedimenti che però devono essere anch'essi sottoposti al vaglio del giudice di pace e che possono essere non convalidati per un qualsiasi cavillo».
Ma una volta ottenuto il provvedimento di espulsione, il biglietto, il volo e gli agenti necessari alla scorta del clandestino, cos'altro può succedere? «È sufficiente che lo straniero ingerisca qualche corpo estraneo o compia atti di autolesionismo per rimandare a tempo indeterminato l'espulsione effettiva».
«Oltre allo snellimento dei procedimenti amministrativi - conclude Brignoli -, la soluzione per rendere efficace e celere l'espulsione consiste, a mio parere, nell'identificazione certa del soggetto al momento del suo ingresso regolare in area Schengen attraverso la rilevazione delle impronte digitali. Proprio come succede a tutti gli stranieri negli Stati Uniti. Dove, tra l'altro, nessuno si lamenta. Inoltre va assolutamente rivisto il sistema del rilascio dei visti per lavoro stagionale, turismo, affari o studio. Che, con una politica blanda sulle espulsioni, si trasformano nel mezzo ideale d'ingresso e di permanenza in Italia oltre i termini».



Killer col piccone a Milano, l’immigrazione uccide o ci salva la vita?
il Fatto Quotidiano, 14-05-2013
Rita Guma
L’immigrazione uccide. Questo lo slogan di una campagna di Forza Nuova che punta sull’emozione per il gesto di un ghanese che a Milano ha ucciso a colpi di piccone alcuni ignari passanti. Delitto con le cui vittime siamo solidali, anche se riteniamo sia da attribuirsi, piuttosto che ad una attitudine criminale del soggetto legata all’etnia, ad una temporanea follia come in altri casi analoghi verificatisi  in Italia e nel mondo ad opera di persone di ogni nazionalità.
Potremmo rispondere alla generalizzazione operata da FN ricordando Cheik Sarr, il ragazzo senegalese morto affogato nel 2004 per salvare uno sconosciuto bagnante a Castagneto Carducci e Othman Naser Ben Abd Aziz, tunisino incensurato sprovvisto del permesso di soggiorno che nel 2006 salvò tre bagnanti che stavano per annegare nei pressi di Chieti, Iris Palacios Cruz, immigrata irregolare dell’Honduras morta nel 2006 nell’Argentario per portare in salvo la bambina italiana che accudiva e Victoria Gojan, la badante moldava clandestina che nel 2008, al Lido di Venezia, salvò dalla morte per inalazione di monossido di carbonio la coppia di anziani che accudiva o ancora  il trentenne immigrato irregolare senegalese, Sarr Gaye Samba Diouf, che nel giugno 2001, a Rimini, intervenne in difesa del gestore di una panetteria minacciato da alcuni avventori, uno dei quali – italiano – lo accoltellò a morte.
E, partendo da quest’ultimo caso, sarebbe altrettanto facile ricordare i tanti delitti in cui sono stati italiani ad uccidere in modo barbaro degli stranieri, anche bambini. Ma noi non generalizziamo casi isolati, seppur significativi, e preferiamo affidarci ai dati e al buonsenso.
Uno dei dati più rilevanti è il numero degli infermieri stranieri in Italia (di cui oltre il 40% romeni), che supera il 10% del totale  e che per quasi il 40% è costituito da extracomunitari. E sono figure essenziali, di cui non possiamo fare a meno: già nel 2008 un rapporto dell’OCSE denunciava nel nostro paese, soprattutto nel nord, la carenza di infermieri, con rischio di collasso del sistema sanitario nazionale, visto l’alto tasso di pensionamenti di queste figure rispetto alle assunzioni e vista la contemporanea crescita dell’età media della nostra popolazione. Dopo quel rapporto, gli infermieri stranieri in Italia passarono da 7000 a 38000 in due anni e continuano ad aumentare, per nostra fortuna. Vi sono poi più di un milione e mezzo di badanti, che ormai sono indispensabili per una famiglia su 10, come ricorda un rapporto del Censis, e costituiscono anche un risparmio considerevole per il welfare nazionale.
Per ciascun assassino immigrato vi sono perciò decine di migliaia di infermieri e badanti stranieri che alleviano sofferenze e salvano vite, quindi l’immigrazione (guardando ai numeri, non strumentalizzando le emozioni) salva le vite degli italiani. Per non parlare del contributo dato dagli oltre due milioni di immigrati regolari al Pil nazionale (10%), all’Inps (7 miliardi di euro), al fisco (3,2 miliardi di euro) e alle nostre pensioni.
E’ vero che l’immigrazione porta un aumento della criminalità in tutti i paesi ospitanti, ma gli stranieri nelle nostre carceri superano percentualmente gli italiani, con riguardo alla rispettiva popolazione, anche perché in maggioranza arrestati proprio per clandestinità, o perché hanno meno capacità difensiva degli italiani, mentre proprio in prigione trovano una “scuola” che addestra al crimine. Inoltre, rendere difficoltosa l’immigrazione regolare alimenta gli affari della criminalità organizzata (trasporti illegali di migranti, tratta di persone, sfruttamento della prostituzione), non di rado gestita da italiani.
Questi fattori dovrebbero stimolare politiche di regolarizzazione, come pure il fatto che la criminalità è alta solo fra gli immigrati irregolari e quasi assente per i regolari. Infatti, a parte i delinquenti di professione, presenti in tutte le popolazioni e culture, molti di coloro che migrano in altri paesi (con disponibilità a fare lavori rifiutati dagli autoctoni) vengono coinvolti in attività criminali proprio perché non hanno accesso ad un lavoro regolare, ad un contratto d’affitto e non riescono a soddisfare i bisogni minimi, venendo respinti dallo Stato nelle frange peggiori della società locale.



Belli gli immigrati visti da un salotto
il Giornale, 15-05-2013
Giuseppe Marino
Per Daniele, che a 21 anni usciva all' alba per aiutare il papá a consegnare i giornali,l'incubo doveva essere quella maledetta sveglia che gli scombinava pure i sogni: diventare cuoco, magari aprire un proprio ristorante, non dover più svegliarsi quando il resto dei quartiere dorme. O quasi: anche Alessandro era già in giro, agitato dall'incubo opposto, la sveglia che non suona più, il lavoro che non c'è (...)
(...) e che a 40 anni ti costringe a vivere ancora con la mamma. Ermanno, il pensionato, della sveglia non avrebbe più avuto bisogno, da quattro mesi non c'era più neanche sua moglie a dargli il buongiorno. Ma lui era fatto così, dava una mano agli altri anziani del quartiere quando poteva. E sabato l'orologio l'aveva puntato a prima dell'alba, per accompagnare una signora a fare gli esami in ospedale. Un gesto di altruismo, mentre tutto il quartiere dormiva. O quasi tutto. Mada Kabobo, ad esempio, no. Ed è curioso che fior di commentatori si siano posti ogni genere di interrogativo su di lui: dove abitava? Perché tanta rabbia? È sano di mente? E quando la mattanza di Niguarda ha mandato in ebollizione il dibattito sull'immigrazione irregolare e sui suoi precedenti violenti, ecco scaturire altre riflessioni. Il sociologo Mauro Magatti ci ha ricordato sul Corriere che «come Kabobo migliaia di immigrati vivono in condizioni umanamente opprimenti». Il sindaco Pisapia, si è chiesto come mai nessuno abbia dato l'allarme dopo le prime aggressioni. Evidentemente non gli è bastata la semplice risposta che erano le 5 di mattina di un sabato. Un'ora in cui, di solito, si dorme. Ma non Daniele, non Alessandro, non Ermanno. E su di loro si sono sentite poche domande. Le vittime di questa storia sono buone per piangerci su, per il lutto cittadino, ma su di loro i sociologi non si interrogano. E questo, forse, spiega perché il dibattito sull'immigrazione da noi sia così polarizzato e allo stesso tempo così superficiale. Come negli ultimi giorni, in cui abbiamo scoperto all'improvviso che lo ius soli è di sinistra e lo ius sanguinis è di destra. E pazienza se in realtà la maggior parte dei Paesi europei adotti sistemi misti. In tanti, in troppi dimenticano, dimentichiamo, gente come i tre milanesi qualunque uccisi a picconate perché non riuscivano a dormire, pressati dai propri problemi, o dal bisogno di lavorare o dalla voglia di fare una buona azione per dare un senso alla giornata. Conviene, è più facile, far coincidere la parte della società che fatica a convivere con gli immigrati con teste vuote e rasate. Così da una parte ci sono i buoni, che vogliono accogliere tutti in un grande abbraccio, e dall'altra i cattivi, gli zotici chiusi nel loro egoismo, insensibili agli altrui dolori. Spesso però, i buoni vivono in quartieri eleganti dove gli unici immigrati che vedono solo le loro colf. E dimenticano che invece gente come Daniele, Ermanno e Alessandro, quelli costretti ad alzarsi all'alba, condividono lo stesso spazio fisico e sociale con gli immigrati. Che sono in maggioranza brava gente venuta a lavorare, non come Kabobo. Ma hanno comunque bisogno di aiuto e lo chiedono allo stesso welfare con le sue risorse sempre più limitate, magari contendendosi con questi italiani di periferia gli stessi posti all'asilo per i figli. Non è un motivo per essere razzisti, ma spiega perché è più facile predicare accoglienza e tolleranza se si vive ai Parioli o a Brera. E spiega perché i sociologi si facciano certe domande e altre no.



Destra anti-immigrati nella piazza vuota
La Nuova Ferrara, 15-05-2013
Stefano Ciervo
Ottanta persone in corteo, l’unica scaramuccia è tra manifestanti sul dopo Fiuggi. Fatta spostare un’isolata contestatrice
Un pezzo di città a singhiozzo per tre ore, con via Darsena, un tratto di via Bologna e via Kennedy interdette a tratti tra le 15.30 e le 18, residenti che tornavano a casa con le sportine della spesa a mano («nessuno ci ha avvertiti»), bus deviati e diversi negozi con le serrande abbassate in una piazza Kennedy quasi deserta. E’ stato questo l’effetto più evidente della manifestazione anti-immigrazione di Forza Nuova, la prima iniziativa politica di estrema destra in città a memoria d’uomo. La Questura voleva evitare problemi con i manifestanti, un’ottantina provenienti da Treviso, Verona, Rovigo, la Romagna, le Marche e Bologna, diversi dei quali si erano persi per la città e che erano comunque eguagliati come numero da forze dell’ordine rinforzate da reparti della Celere. Il risultato è stato centrato, visto che il momento di maggior “tensione” è stata la scaramuccia tra... invitati al corteo, un paio di esponenti di Fiamma tricolore e La Destra dissidenti, ora Movimento identità nazionale, che si sono presi a male parole al concentramento ex Mof, «servo dei partiti», «zitti voi che dopo Fiuggi siete rimasti dentro». Dopo le scuse, è proseguito il tentativo di riunificazione degli spezzoni della destra, che era lo scopo collaterale del corteo come ha spiegato il segretario provinciale Fn, Massimo Piana.
Per il resto, si registrano solo scambi d’opinione al volo («mo lasa lì...» e risposta colorita) tra cittadini in bicicletta e l’ala ferrarese del corteo, e la contestazione silenziosa di una ragazza con il viso dipinto di bianco. Ha cercato di piazzare sull’acciottolato di via Donatori di sangue, sotto gli striscioni anti-immigrati, due cartelli con su scritto «Siamo tutti cittadini del mondo» e «L’homo sapiens è partito dall’Africa»; la Digos le ha chiesto di spostarsi, per evitare ogni grana, lei ha abbozzato un po’ malvolentieri, «hanno fatto finire il corteo proprio davanti alla sede dei Cittadini del mondo» ha poi detto per esprimere il suo disagio. In realtà, la richiesta iniziale di Fn era di proseguire fino a piazza Savonarola, la trattativa con la Questura ha poi partorito un tragitto più esterno ma qualcuno tra gli organizzatori non lo aveva capito, se è vero che ad un certo punto lo speaker ha detto al megafono «il corteo non ha potuto completare il percorso per la presenza in centro di elementi antagonisti...». Non era così, gli hanno spiegato i suoi, e la protesta è finita lì.
Contenuti politici? Pochini, slogan e striscioni a parte. «No allo ius soli, Inghilterra e Francia che l’avevano introdotto l’hanno stracciato» è il refrain ripetuto per l’intero corteo, nel corso del quale è stato ignorato il ministro Cecile Kyenge, responsabile della proposta di cittadinanza agli immigrati che nascono qui e di quella per l’abolizione del reato di clandestinità. «Contro banche e finanza mondiale, moneta nazionale» e «Europa agli europei» gli slogan di respiro internazionale; “Casa e lavoro non ce l’abbiamo noi, non ce l’avranno loro” il refrain domestico. Tra gli striscioni, da segnalare “Can che abbaia... poco cotto” con un cuoco cinese in primo piano. Nel comizio conclusivo, di fronte al banchetto di Porta Paola, le attuali politiche per l’immigrazione sono state fatte risalire «alla legge sull’aborto del ’78, che è costata 5 milioni di vite: proprio gli attuali immigrati».



Sfuggite agli aguzzini e collaboratrici di giustizia
Ma l'Italia le «premia» chiudendole nei Cie
La denuncia: immigrate costrette a prostituirsi finite nelle strutture «pur avendo collaborato con la giustizia».
Corriere della sera, 14-05-2013
Rinaldo Frignani
ROMA - Costrette a prostituirsi, segregate, spesso stuprate e picchiate. È la storia di migliaia di immigrate «deportate» con l'inganno in Italia da connazionali senza scrupoli. Vittime della tratta a cui, nel nostro Paese, capita anche di subire un sorta di violenza «istituzionale». Appartiene infatti a questa categoria l'80% delle straniere rinchiuse nei Cie. Basta non avere i documenti, per diventare «ospiti» dei Centri di identificazione ed espulsione. E le vittime della tratta i documenti non li hanno mai, perché vengono loro sottratti dagli sfruttatori. Il dato è contenuto in uno studio del Medu - Medici per i diritti umani - in cui si sottolinea anche che le immigrate costrette a prostituirsi «in alcuni casi sono finite nei Cie pur avendo collaborato con la giustizia».
LE BORSE DI PONTE GALERIA - Nei Centri gli extracomunitari, di entrambi i sessi, trascorrono il tempo in attesa dell'espulsione. «I divieti di possedere anche una penna, un libro o un giornale penalizzano gli immigrati», spiegano i responsabili dell'organizzazione impegnati l'anno scorso in un tour di tutte le strutture italiane, da quella di Trapani a quella di Gradisca d'Isonzo. Solo a Ponte Galeria, il Cie più grande d’Italia alle porte della Capitale, alcune cinesi sono riuscite a impiegare il tempo in modo costruttivo: hanno deciso di organizzare la fabbricazione di borse artigianali utilizzando posate di plastica, lenzuola monouso e prodotti per l’igiene. Ma il loro è un caso isolato.
NEI CIE POSTI LIBERI - Dei 7.944 stranieri trattenuti nei Centri di immigrazione ed espulsione italiani circa la metà sono stati rimpatriati nel corso del 2012. Ma in più di mille sono riusciti ad allontanarsi dalle strutture, mentre la novità è che le strutture non sono più piene, anzi hanno sempre posti liberi. «È assurdo però - sottolinea lo studio - che solo nel 2011 ci siano stati 494 stranieri comunitari, ovvero romeni, fra le persone rinchiuse nei Cie. Soltanto a Ponte Galeria sono state un migliaio fra il 2010 e il 2012».
GLI PSICOFARMACI - Nell'insieme il rapporto - chiamato Arcipelago Cie - conferma «in modo univoco - spiegano dal Medu - la palese inadeguatezza dell'istituto della detenzione amministrativa nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti. Il sistema Cie si dimostra anche fallimentare perché scarsamente rilevante e poco efficace nel contrasto dell'immigrazione irregolare». Oltre alla questione del tempo vuoto, sotto accusa, secondo l'organizazione indipendente c'è l'assistenza sanitaria. Metà degli ospiti - «visto che li chiamano ancora così» - infatti fa uso di psicofarmaci forniti dagli enti gestori.
Il Cie di via Corelli, a Milano (Fotogramma)Il Cie di via Corelli, a Milano (Fotogramma)
CROLLO DEI COSTI E DEI SERVIZI - Non manca il problema dei costi. «Nel 2011 - dicono ancora dal Medu - i centri sono costati 18,6 milioni di euro, senza contare le spese per le forze dell'ordine impegnate nella vigilanza. Nel 2012 le gare d'appalto per gli enti gestori sono state al ribasso, con un crollo della qualità dei servizi. A Crotone ogni ospite costa 21 euro al giorno, prima in media in Italia era di 70 (a Roma è 41 euro). Questo vuol dire che aumentano i rischi di rivolte e disordini, con danneggiamento delle strutture e quindi, paradossalmente, l'aumento di altri costi».
«I CENTRI? INUTILI» - Secondo il Medu, insomma, i Cie devono essere chiusi per inadeguatezza strutturale e funzionale e il trattenimento dello straniero ai fini di rimpatrio deve essere ridotto a misura eccezionale. Al posto dei centri bisognerebbe «adottare nuove misure di gestione dell'immigrazione irregolare con rispetto dei diritti umani e maggior razionalità ed efficacia, con diversificazione delle risposte per categorie di persone, gradualità e proporzionalità delle misure di intervento, nonché incentivazione della collaborazione fra immigrato e autorità».



La storia: “Io pizzaiolo egiziano, torno nel mio Paese”
Corriere della saera, 15-05-2013
Tullia Fabiani
Sta sulla soglia a braccia conserte. Dentro sua moglie stende la pasta nella teglia e la condisce. Ogni tanto passa qualcuno, lo saluta e chiede: “Come va, novità”? Lui risponde: “Ancora no, aspettiamo”. Adel vive in Italia da venti anni, da dieci fa il pizzaiolo dopo aver fatto l’autista, l’operaio, il cameriere. È originario di un piccolo paese “esattamente a metà strada tra Il Cairo e Alessandria d’Egitto” e lì sta per tornare “costretto dalla crisi”.
Ha messo in vendita il negozio di pizza e kebab che aveva aperto poco più di due anni fa, in un quartiere alla periferia Nord di Roma: “Non riesco più a pagare l’affitto del locale e quello della casa in cui abito con la mia famiglia, troppe spese e poco lavoro, ho sbagliato – racconta distogliendo lo sguardo, abbassandolo spesso – ho sbagliato ad aprire una mia attività, speravo di poter migliorare la mia condizione dopo tanti anni di lavoro come dipendente e invece adesso non ho altra scelta che quella di tornare giù con moglie e figli, almeno lì abbiamo una casa. Il lavoro si vedrà”.
Adel non pensava sarebbe andata così:  dal giorno che passò la frontiera a Ventimiglia non si è mai fermato: ha accettato vari lavori prima di riuscire a fare quello che più gli piaceva e riusciva, il pizzaiolo.  Per anni ha lavorato in una grande pizzeria romana:
“Guadagnavo bene, un contratto a tempo indeterminato, l’apprezzamento dei clienti e dei proprietari e la voglia, a un certo punto, di mettermi in proprio e provare a investire i risparmi di una vita. Ho chiesto a mia moglie e ai miei figli, che vedevo solo l’estate, durante le ferie, di trasferirsi a Roma:volevo veder crescere i ragazzi accanto a me, in Italia. Volevo dare loro un futuro diverso… invece”.
La crisi. Negli ultimi tempi il lavoro è diminuito:
    “Dall’estate scorsa c’è stato un progressivo calo, però gli affitti, le spese per la casa, per i figli, non sono variate. Negli ultimi mesi mi sono trovato a dover chiedere credito ai proprietari che per fortuna me l’hanno concesso, adesso spero solo di trovare quanto prima un acquirente per la pizzeria saldare i debiti e poi partire”.
I figli vorrebbero restare in Italia: “Soprattutto quello più grande, ha 16 anni si trova bene a scuola, con gli amici, nel quartiere. La scelta di tornare in Egitto ancora non l’ha accettata, ogni tanto mi chiede di ripensarci, di resistere e aspettare che passi questo brutto periodo, ma come faccio? Finché non vendo la pizzeria certo non possiamo partire, ma poi non credo che cambi qualcosa, mi sembra tutto fermo”. Lui la notizia che in Italia mancherebbero migliaia di pizzaioli qualificati non l’ha letta:
“Magari fosse così: in queste settimane ho chiamato tutti i miei ex colleghi, e gli amici che lavorano in vari locali della città, anche nelle zone più centrali frequentate dai turisti, ma la risposta è stata sempre la stessa:  il lavoro è a singhiozzo, certi giorni non ci si ferma un minuto, molti altri non c’è granché da fare e in questa situazione un altro pizzaiolo costa troppo”.
E cambiare mestiere? Un lavoro, ad esempio, nei tanti negozi di frutta e verdura, gestiti da connazionali? “Io so fare bene il pizzaiolo, questo vorrei continuare a fare in Italia, perché questo è il mio mestiere. Ma se dopo tanti sacrifici non è più possibile preferisco tornare in Egitto, da dove sono partito, dove ho almeno una casa. E dove spero di ricominciare, magari aprendo una pizzeria”.



Assistenti familiari, in Italia è boom: sono 1 milione 655 mila
CIRDI, 15-05-2013
«Nell’ultimo decennio l’area dei servizi di cura e assistenza per le famiglie ha rappresentato per l’Italia un grande bacino occupazionale.
Il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53%), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3% del totale dei collaboratori».
È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis e dall’Ismu per il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, presentata a Roma. «Sono 2 milioni 600mila – si legge – le famiglie (il 10,4% del totale) che hanno attivato servizi di collaborazione, di assistenza per anziani o persone non autosufficienti, e di baby sitting. E si stima che, mantenendo stabile il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei collaboratori salirà a 2 milioni 151mila nel 2030 (circa 500mila in più)».
«I servizi di collaborazione domestica in Italia – ricorda l’indagine – si caratterizzano ancora per la forte destrutturazione, anche quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Si configurano come un lavoro domestico a tutto tondo, con una quota dell’83,4% dei collaboratori occupati nel governo della casa, fino all’assistenza avanzata a persone non autosufficienti (15,3%) e a bambini (18,3%). C’è poi una sottovalutazione del valore delle competenze, visto che solo il 14,3% dei collaboratori ha seguito un percorso formativo specifico, sebbene il 60% di essi si occupi dell’assistenza di una persona anziana».
L’indagine del Censis sottolinea anche «l’assenza di intermediazione nel rapporto di lavoro». «Solo il 19% delle famiglie – si legge – si avvale di intermediari per il reclutamento. Ed esiste un’ampia area di lavoro totalmente irregolare (il 27,7% dei collaboratori) e grigio (il 37,8%) che si accompagna però al progressivo consolidamento di un quadro di tutele. La scelta lavorativa dei collaboratori ha un carattere residuale, se il 71% di essi si trova nell’attuale condizione per necessità e il 35,4% perchè ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41%). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali hanno fatto apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza (il 70%) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16% sta cercando attivamente un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani il 25%)». «In questo quadro – avverte il Censis – non possono essere trascurate le difficoltà che sempre più famiglie incontrano non solo nel reclutamento, ma anche nella gestione del rapporto con i collaboratori.
La pesantezza del fattore organizzativo le porta oggi a chiedere con forza, oltre agli sgravi di natura economica, una maggiore semplificazione per l’assunzione e la regolarizzazione dei collaboratori (lo chiede il 34% contro il 40% che richiede gli sgravi), ma anche servizi che sul territorio favoriscano l’incontro tra domanda e offerta (29%)». «Il 34,5% delle famiglie – chiarisce l’indagine – vorrebbe l’istituzione di registri di collaboratori al fine di garantirne la professionalità, il 39% vorrebbe invece che venissero create o potenziate le strutture che si occupano di reclutamento, mentre il 25,7% sarebbe pronto ad affidarsi totalmente a un’agenzia privata che sollevi la famiglia da tutte le incombenze di carattere burocratico e gestionale».
Secondo il Censis, «le vere incognite che oggi incombono sulla sostenibilità del sistema sono soprattutto di natura economica: il welfare informale ha un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari». «A fronte di una spesa media di 667 euro al mese – rileva – solo il 31,4% delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’accompagno (19,9%). Se la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5% sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4%) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2% ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2% ha intaccato i propri risparmi, il 2,8% si è dovuto addirittura indebitare. L’irrinunciabilità del servizio sta peraltro portando alcune famiglie (il 15%, ma al Nord la percentuale arriva al 20%) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa rinunci al lavoro per prendere il posto del collaboratore». «Intrappolate nella spirale perversa delle esigenze crescenti a fronte di risorse calanti – continua il Censis – il 44,4% delle famiglie pensa che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di aumentare il numero dei collaboratori o delle ore di lavoro svolte. Ma al tempo stesso la metà delle famiglie (il 49,4%) sa che avrà sempre più difficoltà a sostenere il servizio e il 41,7% pensa addirittura che dovrà rinunciarci. Tra le famiglie attualmente prive di badante, il 20% dichiara che in casa è presente una persona che ha bisogno di cura e assistenza. In questi casi, non ci sono esborsi economici da sostenere, ma un costo non irrilevante grava comunque sulla famiglia: la rinuncia a lavorare da parte di un suo componente». La ricerca stima che «nel 25% delle famiglie in cui è presente una persona da assistere, e non si possa ricorrere ai servizi di un collaboratore, vi è una donna (nel 90,4% dei casi) giovane (il 66% ha meno di 44 anni) che ha rinunciato al lavoro: interrompendolo (9,7%), riducendo significativamente l’impegno (8,6%) o smettendo di cercarlo (6,7%)». «Con una domanda crescente di protezione sociale – avverte il Censis – è indispensabile incrociare il welfare familiare, che impiega rilevanti risorse private, con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantirne la sostenibilità sociale».
Fonte: Il Messaggero



Germania: il Governo apre agli immigrati provenienti dall’Europa mediterranea.
Merkel “il nostro obiettivo deve essere una maggiore apertura nei confronti di chi arriva da altri Paesi”.
Immigrazioneoggi, 15-05-2013
Accogliere quote maggiori di immigrati provenienti dai Paesi dell’Europa mediterranea per contribuire alla coesione europea e aiutare la crescita del Paese.
È quanto si propone il ministro tedesco dell’Interno, Hans-Peter Friedrich, intervenuto ieri a Berlino al secondo vertice federale sulla demografia, cui ha partecipato anche la cancelliera Angela Merkel.
Per il ministro sul fronte del lavoro innanzitutto occorre che la Germania sfrutti in pieno il proprio potenziale, con una migliore formazione della forza lavoro locale. Ma poi l’economia tedesca si deve rivolgere all’Europa del sud, dove la disoccupazione giovanile è alta. Solo successivamente Berlino deve guardare verso Paesi al di fuori dell’eurozona.
La cancelliera Merkel nel suo intervento ha ricordato come occorra “fare di più per aumentare la mobilità in Europa”. Riferendosi solo implicitamente alla crisi economica, Merkel ha sottolineato che per ripartire bisogna “sviluppare la mobilità” nel mercato interno, puntando al modello statunitense, caratterizzato dalla “piena mobilità”.
Cosa può fare la Germania, Paese che ’soffre’ un invecchiamento medio progressivo della popolazione e ha bisogno di nuova forza lavoro? Per Merkel “il nostro obiettivo deve essere una maggiore apertura nei confronti di chi arriva da altri Paesi”.
“L’Ocse ha verificato che i presupposti per l’immigrazione in Germania sono molto buoni – ha aggiunto la Cancelliera introducendo un punto critico – ma la nostra capacità di richiamo è molto negativa: appariamo chiusi”.



Razzismo, fischi a Balotelli: l’ira di Blatter: «Una multa alla Roma è poco, chiamerò la Figc»
CIRDI, 14-05-2013
Josep Blatter bacchetta il calcio italiano per la mano troppo leggera contro i cori razzisti in Milan-Roma. «È sorprendente e non comprensibile che la Disciplinare abbia deciso solo una multa 24 ore dopo i fatti e senza indagini – dice il presidente Fifa – Solo una sanzione pecuniaria è inaccettabile, chiamerò la federazione italiana».
Per i cori di stampo razzista intonati da una parte dei suoi «tifosi» durante la partita di campionato di domenica sera con il Milan al Meazza, al club giallorosso è stata inflitta una muta di cinquantamila euro, più la diffida, con il rischio di vedersi squalificare l’Olimpico, ovunque le offese agli avversari di colore dovessero ripetersi.
Un episodio già grave in sè, ma ulteriormente amplificato dal prestigio del palcoscenico, tanto da varcare i confini nazionali e suscitare l’intervento del presidente della Fifa. «Sono sconvolto nel leggere degli insulti razzisti in Serie A la scorsa notte», aveva già scritto in un tweet Blatter. «Inaccettabile», gli aveva fatto eco il ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili Josefa Idem, che ha invitato i giocatori a prendere posizione contro l’intolleranza.
Per il ct Cesare Prandelli «è stato dato un segnale preciso. Penso che di fronte ai prossimi episodi non ci sarà la sospensione momentanea, ma l’interruzione della gara».
La Roma per prima si è dissociata senza tentennamenti dalle gesta di quegli sconsiderati, condannando «ogni forma di abuso razziale. Questo tipo di comportamento da parte di qualsiasi tifoso, inclusi i nostri, è totalmente inaccettabile – è stata la dura presa di posizione del club – Siamo impegnati ad affrontare con determinazione la questione con l’obiettivo di eliminare tale problema dallo sport e di promuovere il rispetto verso tutti».
Ma è l’intero movimento ad interrogarsi sul ripetersi di certi fatti. Dannosi dal punto di vista dell’immagine e sotto il profilo tecnico, visto il non grande appeal che la serie A già offre a campioni stranieri.
Il giudice sportivo ha sottolineato, tra l’altro, che i cori di scherno erano stati indirizzati non solo a Balotelli – che aveva reagito portandosi il dito davanti alla bocca – ma anche ad altri due giocatori di colore del Milan: non solo vecchie ruggini, dunque, tra tifosi giallorossi e l’attaccante ex Inter.
All’inizio del secondo tempo l’arbitro Gianluca Rocchi era stato costretto a sospendere la partita per 90 secondi, mentre l’altoparlante lanciava appelli agli ultrà giallorossi perché cessassero i buu. Altrimenti la partita rischiava di essere interrotta definitivamente. È stato «perfetto» nell’applicare il regolamento per stroncare l’inciviltà di alcuni, ha commentato il presidente dell’Aia, Marcello Nicchi. «Ovviamente la collaborazione degli arbitri è massima. Ma questo atteggiamento – ha sottolineato Nicchi – non può andare oltre le regole: il direttore di gara deve sospendere temporaneamente e non definitivamente. Non ci possiamo assumere responsabilità di ordine pubblico che spettano ad altri».
«La percezione è che in certe zone dello stadio si possa fare di tutto», è il parere del presidente dell’Assocalciatori, Damiano Tommasi. «Bisogna far sentire certe persone sempre più minoranza, portare fuori chi si comporta male». Missione non facile perché «è sempre molto sottile il crinale fra penalizzare la maggioranza che è allo stadio per godersi lo spettacolo e il punire la minoranza che lo inquina».
Fonte: Il Mattino.it






 

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