Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

17 ottobre 2013

Lampedusa, strage senza funerali
Il premier Letta aveva promesso esequie di stato. Invece non è accaduto nulla: 385 vittime senza ricordo. Amnesty chiede conto ad Alfano del controllo delle frontiere: «La Libia è un porto sicuro?»
il manifesto, 17-10-2013
Luca fazio
Con i morti, 385 cadaveri, tra cui molte piccole bare bianche dove si sono inginocchiate le autorità commosse, il governo italiano non ha avuto nemmeno il buon cuore di organizzare lo straccio di un funerale. E dire che il presidente del consiglio Enrico Letta, vergognandosi pubblicamente, si era spinto addirittura a promettere solenni funerali di stato. Invece, niente. «Se avessimo saputo che non si sarebbero mai celebrati gli annunciati funerali di stato per le vittime del naufragio, prima di fare partire le salme dall'isola avremmo celebrato noi un funerale. Una cerimonia funebre per dare l'ultimo saluto alle povere vittime. Un funerale di paese, come quelli che facciamo a Lampedusa. È ingiusto seppellire i profughi senza un funerale», ha detto il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. Ingiusto, e forse qualcosa di più. Il comune di Delia, un paese vicino a Caltanisetta, ieri ha dato la disponibilità per ospitare alcune salme dei migranti morti nel naufragio del 3 ottobre. 80 sono già state seppellite ad Agrigento, 8 a Canicattì, 25 a Mazzarino, e molti paesi siciliani hanno fatto sapere di essere disponibili ad accogliere anche una sola bara per conservare la memoria. Dopo aver esibito agli occhi del mondo un po' di commozione un tanto al chilo, li seppelliamo di nascosto qui e là.
Ma forse è inutile sprecare indignazione, meglio concentrarsi sui migranti ancora vivi, quelli che stanno sfidando il mare proprio in queste ore, come i 108 che ieri mattina sono sbarcati a Pozzallo, nel ragusano; o i 120 che ieri sera erano ancora a bordo di un gommone a sud di Malta e non riuscivano a salire su un'imbarcazione della marina maltese a causa del mare grosso. E magari chiedersi che fine faranno quando verranno intercettati nel "mare nostrum" dai nostri militari in missione "umanitaria". Le regole d'ingaggio della missione che costa milioni di euro sono a dir poco confuse e c'è poco da star tranquilli se il canale di Sicilia verrà scrutato notte giorno dai nostri Droni predator a caccia di "mercanti di morte" (e di profughi da salvare, naturalmente).
Qualche domanda se la pone anche Amnesty International Italia, una raffica di interrogativi che Angelino Alfano, visto il silenzio di questi giorni, deve aver considerato del tutto inutili. Come si concilia il soccorso ai migranti e il controllo delle frontiere? Quali sono gli accordi con la Libia? E soprattutto: dove verranno portati i migranti salvati dalle navi italiane? L'organizzazione umanitaria vorrebbe conoscere il luogo, un nome da collocare sulla cartina geografica, il cosiddetto "porto sicuro" dove sistemare le persone salvate, visto che lo stesso ministro Alfano ha ammesso che intercettare un barcone non significa poi dare automaticamente ospitalità ai migranti sul suolo italiano. «Vorremmo avere la certezza - scrive Amnesty International - che il governo italiano non consideri la Libia un porto sicuro». Per non parlare dell'impossibilità di prendere accordi con i paesi del corno d'Africa da dove scappano i migranti, per non dire dell'Egitto o della Tunisia. Già un'altra volta, il giovane Letta non aveva dato risposte. A luglio, poco prima del suo incontro con il primo ministro libico Zidan, l'associazione per i diritti umani aveva segnalato «l'inopportunità di ogni cooperazione in materia di controllo dell'immigrazione con un paese, la Libia, che viola i diritti umani di migranti, richiedenti asilo e rifugiati, sottoponendoli a detenzione sistematica, maltrattamenti e torture». C'è un altro aspetto non trascurabile che di fatto renderebbe obbligatorio caricare i migranti sulle navi per trasferirli sulle coste italiane: come ha certificato l'altro giorno il ministero degli Interni, cioè il luogo dove lavora il ministro Alfano, il 73% di chi sta tentando di sbarcare in Italia ha le carte in regola per chiedere asilo. E tra loro solo una minoranza ha intenzione di rifarsi una vita dalle nostre parti. Come i siriani, ha ricordato ieri Carla Del Ponte, membro della commissione Onu per la Siria, invitando Italia e Svizzera a non chiudere gli occhi: «Bisogna autorizzare tutti questi fuggitivi a entrare, perché poi non resteranno, ma appena tornerà la pace, rientreranno nel loro paese».



Dal Nilo i barconi per Lampedusa Gli scafisti? Ex detenuti in Italia
Mustafa: «Ho fatto tre viaggi quest’estate. I morti? Buttati in mare
Corriere della sera, 17-10-2013
Lorenzo Cremonesi
RASHID (Delta del Nilo) — Lasciano le sponde insanguinate del Medio Oriente proprio dove il grande fiume diventa mare. Sono quasi tutti siriani in questo periodo. Profughi allo sbaraglio. Ci sono disperati senza più niente da perdere, guerriglieri terrorizzati dopo le torture subite, ma anche medici braccati per aver curato le vittime del regime, professionisti, negozianti cui hanno bruciato casa e bottega, uomini d’affari che hanno venduto sottocosto ciò che potevano e cercano salvezza con la famiglia. Partono di notte, portando con sé al massimo sei o sette chili di bagaglio, tanti assolutamente nulla: sfidano il buio tra le onde su barchette colorate di verde e azzurro che sembrano giocattoli abbandonati sulla spiaggia. Più al largo, quando già l’acqua marrone di fango e inquinamento si è mischiata con il blu scuro del Mediterraneo, trovano i barconi «madri» lunghi anche 30 metri dei pescatori che hanno promesso di trasportarli in Italia: la porta verso la salvezza, la fuga dalla guerra, dal dolore, dal caos. Quelle stesse scialuppe verranno attaccate al traino e serviranno per lo sbarco finale. Ma prima ancora devono trattare con i mediatori, gli sciacalli, i signorotti della malavita locale. I pescatori arrivano per ultimi e li nascondono alle retate della polizia per settimane tra le casupole immerse nei palmeti. Finché giunge il momento e vengono condotti su auto scassate tra i viottoli adducenti alle spiagge che punteggiano di bianco i due rami maggiori della foce, tra Alessandria, Rashid e Damietta. Curioso che proprio tra i porticcioli primitivi di Rashid si trovi il luogo del ritrovamento 214 anni fa della Stele di Rosetta, sino ad oggi considerata la pietra miliare per la decifrazione dell’epoca dei faraoni e però un memento delle rapine compiute dagli europei.
«Sulle nostre barche non stanno tanto male. Possono mangiare e dormicchiare. Però il viaggio è lungo, dall’Egitto verso la Calabria o la Puglia dura tra i sette e dieci giorni, a seconda delle condizioni meteo. Ovvio che si possono incontrare burrasche, venti forti, e allora la situazione peggiora specie per i bambini e per chi soffre il mal di mare», racconta Mustafa, che nell’italiano non troppo stentato appreso durante i due anni e otto mesi trascorsi nel carcere di Ragusa non nasconde di essere uno scafista. Ne parla assieme ad Abbas, «compare» di prigionia, visto che è stato chiuso nelle celle di Enna per due anni e mezzo. «I Carabinieri mi hanno preso a Rossano, in Calabria, il 23 novembre 2011. E sono rimasto in una cella con sette compagni sino al 30 luglio 2013. Tutti i giorni la stessa pasta scotta. Nelle carceri italiane ci sono oggi almeno 200 scafisti», stima. E tuttavia non nasconde che lo rifarebbe subito se avesse un buon ingaggio. Lui e il suo «compare» sembrano essersi ripresi in fretta. Mustafa ha compiuto tre viaggi verso le coste italiane quest’estate. «Ogni volta con a bordo tra i 100 e 150 profughi. E sono tutti giunti a destinazione. Nessun affondamento. In caso di problemi i capitani possono chiamare i soccorsi con il satellitare Thuraya. I pochi morti sono stati a causa delle condizioni di salute individuali. Li abbiamo gettati a mare. Cosa potevamo fare senza cella frigorifera?», spiega. Comunque un buon affare. Ogni viaggiatore paga tra i 3.000 e i 4.500 dollari. Ma loro di soldi non vogliono parlare, come non forniscono le generalità. La polizia egiziana li ricerca, ha sparato di recente contro le barche causando vittime tra i profughi.
Cammini per i vicoli di Rashid, nelle viuzze presso il porto di Alessandria, o tra le strade larghe della «Sei Ottobre», la cittadina costruita nel deserto nell’ultimo ventennio a una trentina di chilometri dal Cairo dove sono raggruppati i nuovi arrivati dalla Siria, e scopri che le offerte di imbarco verso l’Italia sono all’ordine del giorno. «Il deposto governo dei Fratelli Musulmani aiutava gli immigrati siriani. Ma da luglio la giunta militare del generale Abdel Fattah Al Sisi ha cambiato corso: da ospiti graditi a indesiderati. La nostra esistenza è sempre più precaria. Io partirei subito», dice il 33enne Maher Labadi, che a Damasco aveva un’azienda di biancheria intima con 23 dipendenti, ma dopo essere stato minacciato dalle squadracce di Bashar Assad e aver subito il cannoneggiamento delle sue proprietà, tre mesi fa è approdato al Cairo con la moglie e due bambini di 3 e 5 anni. Gli hanno offerto di vendere dolci da ambulante. «Pensavo fosse temporaneo, volevo andare a lavorare in Svezia. Ma non vedo vie d’uscita. Gli scafisti chiedono 16.000 dollari per me e famiglia. Ne guadagno 8 al giorno e 6 vanno per l’affitto». Intanto sui siti Internet degli immigrati fioccano le offerte. La via per la Libia, da dove partire per l’Italia è molto più rapido e meno costoso, sta diventando difficoltosa a causa della destabilizzazione interna. I gestori del racket egiziani lo sanno e ne approfittano. Ultimamente è apparsa una nuova offerta: 5.500 dollari per un passaporto falso con un visto per l’Europa. Veloce e poco faticoso. Si prende l’aereo al posto della nave. Peccato che praticamente nessuno abbia i soldi, con il rischio oltretutto di essere fermati ancora prima di decollare.



Reato di clandestinità. Cancellieri glissa: "Governo rifletterà e deciderà unito"
Il ministro della Giustizia alla Camera dei Deputati. “Sono temi che coinvolgono le competenze di svariati ministeri”
stranieriiniitalia.it, 17-10-2013
Roma – 17 ottobre 2013 – Il governo interverrà sul reato di clandestinità, solo “in pieno accordo” e “dopo attenta riflessione”.
Lo ha detto ieri Anna Maria Cancellieri, ministro della Giustizia, intervenendo al question time della Camera. Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia, le chiedeva infatti che ne pensasse il governo dell’emendamento del M5S, approvato in commissione giustizia al Senato, che abroga l’articolo 10 bis del testo unico sull’immigrazione.
Cancellieri l’ha presa alla lontana, spiegando di ritenere “indispensabile stroncare il traffico criminale di esseri umani, in cooperazione con i Paesi di provenienza dei flussi di migranti e dei richiedenti asilo” . UN obiettivo che rende “necessari presidi adeguati lungo le coste da cui partono questi viaggi di disperazione e di morte e nel concreto e fattivo coinvolgimento di tutti i Paesi che fanno parte dell'Unione europea”.
Poi ha parlato dell’operazione “militare e umanitaria” Mare Nostrum, “che prevede il rafforzamento dell'attività di sorveglianza e soccorso in alto mare, finalizzata ad incrementare il livello di sicurezza della vita umana e il controllo dei flussi migratori attraverso l'impiego di dispositivi aeronavali”. Questa “avrà un effetto deterrente molto significativo per chi pensa di fare impunemente traffico di esseri umani”.
Solo alla fine del suo intervento Cancellieri ha parlato del reato di ingresso e soggiorno irregolare, tra l’altro senza rispondere alla domanda di Rampelli.
“Nell'attuale sistema – ha ricordato il ministro . la fattispecie incriminatrice prevista per l'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 296 del 1998 ha natura contravvenzionale, è devoluta alla competenza del giudice di pace ed è punita con la sola pena dell'ammenda. Si tratta di una fattispecie con carattere accessorio e complementare rispetto agli strumenti di tutela amministrativa previsti dal nostro ordinamento quali il rimpatrio volontario, il trattenimento nei centri di identificazione e di espulsione, nonché l'espulsione mediante accompagnamento coattivo alla frontiera”.
“Nel rilevare, infine, che i temi sollevati nell'interrogazione coinvolgono competenze di svariati dicasteri, cito tra gli altri il Ministero dell'interno, degli affari esteri, della difesa e degli affari europei, posso assicurare che tutte le iniziative in proposito saranno assunte dal Governo in pieno accordo e solo dopo attenta riflessione su tutti i temi coinvolti”. Nessun accenno nemmeno al parere dei “saggi”uscito la scorsa primavera dal ministero della Giustizia, quando era ancora guidato da Paola Severino, che era per l’abolizione del reato.
“A tale specifico riguardo – ha concluso Cancellieri - ritengo doveroso sottolineare che un più completo quadro normativo europeo potrebbe consentire di superare le divergenze delle legislazioni degli Stati, consentendo così di armonizzare l'iniziativa normativa nazionale con le previsioni dell'Unione europea”.



«La tratta di uomini va combattuta come il narcotraffico»
Avvenire, 17-10-2013
Antonio Maria Mira
«La tratta degli esseri umani è come il narcotraffico, gli uomini sono trattati come la cocaina. Ma le norme internazionali non ci consentono di colpire nello stesso modo i criminali che si arricchiscono su questi traffici, che sono di una gravità inaudita. Bambini che rischiano la vita per trovare una terra di speranza e criminali che mettono a rischio la loro vita». Le denuncia è del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho: tre giorni fa ha condotto l’operazione "Never more" permettendo nello stesso tempo di salvare 226 migranti su un barcone che stava affondando e di bloccare in acque internazionali la "nave madre" con 17 trafficanti. «Per intervenire – spiega – abbiamo dovuto interpretare la Convenzione Onu di Palermo. Ma ci vuole certezza. Dopo la nostra operazione, infatti, molti mi domandano: fino a dove si può intervenire?».
E lei procuratore come risponde?
Occorre un chiarimento da parte della comunità internazionale, per avere una disciplina condivisa da tutti che ci permetta di contrastare questi criminali. Ci vuole certezza in modo che in qualunque luogo ci siano soggetti che mettono a rischio la vita dei migranti e che lo fanno a scopo di lucro, non siano posti limiti a chi vuole bloccarli.
E invece?
La lotta al narcotraffico è per tutti gli Stati una priorità condivisa, mentre quella ai trafficanti di uomini non lo è, anche perché la tratta non è un reato riconosciuto da tutti.
Mentre ci sono analogie...
Proprio così. In primo luogo per quanto riguarda i profitti: la tratta di esseri umani viene subito dopo la droga. Poi ci sono molte analogie per quanto riguarda le strutture organizzative.
In che senso?
Sia per la droga che per gli essere umani siamo di fronte a strutture di tipo militare. Come i narcos colombiani, ci sono uomini armati che accompagnano i migranti, poi quelli che riscuotono le somme di denaro per il viaggio. E come per la cocaina si viaggia sulle navi: uomini nei barconi ammucchiati come la droga nei container.
Voi lo avete toccato con mano nel barcone che avete soccorso.
Era sfondato e imbarcava acqua a dimostrazione che una volta presi i soldi i trafficanti li abbandonano a morte certa. È come la droga che una volta tagliata dà la morte.
Queste organizzazioni criminali hanno appoggi in Italia?
Abbiamo verificato che alcune delle persone fermate erano già stata controllate in Italia. E questo sarà oggetto di approfondimenti per vedere se nel nostro Paese esistono basi stabili delle organizzazioni dei trafficanti.
Torniamo alla vostra interpretazione della norma.
Noi siamo potuti intervenire in acque internazionali perché la nave non batteva alcuna bandiera, altrimenti avremmo dovuto chiedere l’autorizzazione dello Stato di appartenenza, dimostrando che era stata usata per il traffico dei persone. E questo è difficile quando chi gestisce il traffico lo fa in modo "professionale". Conoscono bene le norme e così registrano le navi in Stati dove è arduo avere l’autorizzazione, un po’ come per i "paradisi fiscali".
Voi avete fatto un po’ una forzatura...
Non è stata una forzatura ma un’interpretazione letterale della Convenzione. L’alternativa era non fare niente. Per questo chiediamo maggiore certezza delle norme.
Intanto continuerete a interpretarle?
Noi ci crediamo. Crediamo che la legge debba restituire e garantire la libertà delle persone. Noi siamo solo gli strumenti. Speriamo che quello che abbiamo fatto sia un esempio per tutti.
Applicando anche il reato di clandestinità?
A noi non tocca criticare le leggi. Come pm abbiamo l’obbligo di applicarle e in modo uguale per tutti. Sono principi costituzionali. Certo possiamo interpretarle, ma tocca alla politica eventualmente cambiarle. Altrimenti ci sarebbe una commistione tra poteri diversi, sarebbe una dittatura.

 

I siriani e il “campo pestaggi”
La denuncia di una migrante contro le forze dell’ordine per i metodi usati a Pozzallo
Il Fatto, 17-10-2013
Veronica Tomassini
Siracusa In questa strada del pianto e delle buone intenzioni, di anatemi urlati pregni di tristezza civica e compassione, abbiamo incontrato un capitolo del-l’esodo che rompe tutti i piani. La fonte teme di esporsi, ha origini arabe, vive in Italia da molti anni; conserva alcuni documenti, audio e video, che riguardano profughi siriani. Ascoltiamo anche noi. La voce è quella di una ragazzina, dice di chiamarsi Yasmine, viene da Damasco, lo sbarco a cui si riferisce è quello del 7 ottobre scorso, sulle coste di Pozzallo. Yasmine ha 12 anni, così racconta: “Eravamo seduti in una grande stanza, non abbiamo capito nulla. Gli uomini sono entrati con i manganelli e le loro facce ci spaventavano, hanno iniziato a colpire le persone e io ho cominciato a piangere. Ci hanno messo in un angolo e ho pianto tanto”. Yasmine riferisce di uomini e donne che supplicavano gli agenti, chiedendo l’intercessione di un avvocato, qualcuno implorava la presenza di un rappresentante della Human rights watch, l’associazione non governativa per i diritti umani. Se solo tu avessi visto, dice la bambina nell’audio, “hanno preso un giovane e lo hanno picchiato alle braccia e alle gambe”. Colpivano alla cieca, fino a ferire a un occhio una bambina di 2 anni, incidente confermato da altri siriani dello stesso sbarco.
Le testimonianze sono tante, registrate e custodite dalla nostra fonte. La ragazzina non specifica chi fossero gli uomini, forze dell’ordine, agenti, il campo però è il centro di prima identificazione dove i profughi vengono radunati subito dopo lo sbarco per l’iter del riconoscimento.
ED È LÌ CHE SECONDO Yasmine e altri siriani si sono consumati terribili pestaggi. I siriani di quello sbarco in particolare sembrano abbastanza preparati in materia di diritto, tra loro ci sono intellettuali e professionisti; buona parte della classe medio alta arriva con i barconi, spiega la nostra fonte, conoscono le leggi, la Dublino 2, la Bossi-Fini, ed è la ragione per cui non vogliono essere identificati in Italia, ma nei paesi dove intendono richiedere asilo, di solito in Nord Europa, Danimarca, Svezia, dove è più facile il ricongiungimento famigliare. Yasmine e la madre giurano di aver assistito a violenze inaudite.
Ma c’è molto altro, come racconta ancora un siriano di quello sbarco, di quei pestaggi, Mohammed di Damasco, 18 anni, studente: “Ci hanno portato in un centro di detenzione (lo intende così, nda), promettendoci cibo e una doccia a ognuno. Invece abbiamo fatto appena in tempo a ottenere acqua per i bambini, perché hanno iniziato subito la procedura del riconoscimento. Ci hanno detto che, se non davamo le nostre impronte, avrebbero usato la forza. Abbiamo deciso di rifiutarci, eravamo un gruppo; non volevamo l’asilo in Italia. Hanno preso alcune persone e le hanno picchiate, siamo intervenuti per difenderle, hanno caricato anche su di noi. Hanno colpito così tanto che hanno fratturato le braccia e le gambe di un ragazzo e un altro lo hanno colpito alla testa. Hanno usato i manganelli, anche quelli con la scossa elettrica che miravano ai nostri piedi. Colpivano a caso. Ne hanno prelevati due, quei due sono tornati sulla sedia perché non potevano camminare a causa delle botte”.
I pestaggi secondo i testimoni si sono verificati anche in altri centri e sempre subito dopo lo sbarco, dettaglio non meno fastidioso, qualora fosse del tutto confermato. L’uso dei manganelli e della scossa elettrica è una prassi, ha riferito la nostra fonte, parecchio usata – dicono i testimoni - soprattutto negli sbarchi di queste ultime tre settimane. Yasmine conclude la sua confessione audio usando più volte la parola “damar” che in arabo vuol dire disfatta, quel tanto che attiene al dolore, al disfacimento, ad una morte morale. Mohammed sostiene di aver udito uomini urlare pietà e imprecare con frasi del tipo “siete un paese democratico, fermatevi, Bashar Al Assad avrebbe avuto più misericordia”.



Rifugiati: Brescia si prepara ad accoglierne un centinaio, alcune associazioni di Pavia si mobilitano.
Richiesti stanziamenti dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.
Immigrazioneoggi, 17-10-2013
Brescia ha deciso di dare il suo contributo nell’accoglienza dei rifugiati partecipando al bando varato dal Ministero dell’interno che permette agli enti locali di richiedere stanziamenti del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. I Comuni di Brescia, Breno e Cellatica, di concerto con le amministrazioni comunali e alcune associazioni di volontariato, stanno lavorando al fine di accogliere un centinaio di rifugiati e intendono richiedere i fondi per progetti nell’ambito dello Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), per il triennio 2014-2016. L’assessore alla Partecipazione del Comune di Brescia, Marco Fenaroli, ha dichiarato: “La prospettiva sarebbe di accogliere, tra città e territorio provinciale, tra i novanta e i cento rifugiati”.
Nei giorni scorsi anche alcune associazioni di Pavia hanno annunciato l’intenzione di accogliere i rifugiati nell’ambito dello Sprar, mobilitandosi ad individuare alcune strutture dove potrebbero essere accolti per piccoli flussi. Il vescovo Giovanni Giudici ha dichiarato: “È uno strumento che intende rispondere al fenomeno sociale dell’arrivo di persone provenienti da altri Paesi: un problema che va affrontato dalle istituzioni, ma che deve coinvolgere anche la società civile interessando ogni cittadino’’.
(Samantha Falciatori)



Quando Ellis Island era la nostra Lampedusa
La Stampa, 17-10-2013
Marco Bardazzi
Scene da un’epoca in cui Ellis Island era per un italiano quello che Lampedusa è oggi per un libico o un eritreo: la speranza di un futuro migliore. Dagli sterminati archivi della Library of Congress di Washington escono le immagini, gli oggetti, le lettere che raccontano l’epopea degli italiani d’America. Un vero e proprio album di famiglia, inedito in queste dimensioni: nessuno aveva ancora tentato l’impresa di andare alla ricerca delle memorie dell’immigrazione italiana in mezzo ai 150 milioni di oggetti conservati nei tre edifici della Biblioteca del Congresso americana.  
Il risultato è il volume «Trovare l’America», curato da Paolo Battaglia e Linda Barrett Osborne, pubblicato in due versioni - inglese e italiano - e presentato ieri a New York, al Consolato d’Italia. La Library of Congress ha messo la propria firma sul volume, insieme all’editore «Anniversary Books», anche per rendere omaggio all’impronta italiana che caratterizza la maggiore biblioteca del mondo. Non solo per lo stile rinascimentale del Jefferson Building, che ospita il cuore della Library, ma anche per le centinaia di scultori e scalpellini italiani che lo costruirono.
Le immagini e i documenti che emergono dagli archivi raccontano un contributo italiano enorme al patrimonio culturale degli Stati Uniti. Ma testimoniano anche le difficoltà degli inizi, la diffidenza del Paese di fronte alle centinaia di migliaia di italiani che sbarcarono a Ellis Island tra il XIX e il XX secolo, gli stereotipi che li accompagnarono per anni. Le foto mostrano «dagos» e «wops», come venivano spregiativamente chiamati, emergere pian piano dalle Little Italy che si erano costruiti, e farsi strada in America. Oggi chi si ferma ad ammirare la gigantesca statua del presidente Lincoln seduto che domina il Mall di Washington, la vede giustamente come uno dei simboli dell’America. In pochi sanno che l’onore di realizzarla fu dato ai fratelli Piccirilli, immigrati italiani che avevano realizzato nel Bronx uno degli studi di scultura più stimati del Paese.  
Il gigantesco Lincoln vide la luce in una Little Italy, quella del Bronx, in anni in cui gli italiani cominciavano a emergere e a farsi strada, grazie anche alla fama dei vari Enrico Caruso e Arturo Toscanini. Nel tempo, dovettero fare i conti anche con un altro tipo di fama, quella legata alle imprese di Cosa Nostra. Ma per ogni Al Capone, come documentano le memorie della Biblioteca del Congresso, c’era sempre un Joe Petrosino, il celebre poliziotto che riscattò l’immagine degli italiani tra le forze dell’ordine. E aprì la strada all’ingresso in massa tra le file di polizia e vigili del fuoco dei figli e dei nipoti degli immigrati dall’Italia. Un’integrazione ormai completata, testimoniata in modo drammatico dalla lunga lista di cognomi italiani tra i pompieri morti l’11 settembre 2001 nelle Torri Gemelle.  



Immigrati. Maxirissa nel centro d’accoglienza di Trapani: dieci feriti
Internazionale, 17-10-2013
Palermo, 17 ott. (TMNews) РMomenti di tensione ieri sera al Cara di Salinagrande, a Trapani. Una maxirissa ̬ scoppiata per futili motivi tra i richiedenti asilo ospitati nella struttura.
Otto di loro hanno riportato delle lievi ferite, e dopo essere stati medicati al Pronto soccorso, hanno fatto rientro nel centro d’accoglienza. Per altri due, invece, si è reso necessario il ricovero in ospedale.
   


Viaggio nell’inferno dei naufraghi
Esclusiva per Europa: Giovanna Loccatelli visita la stazione di polizia di Karmouz, Egitto, dove vengono rinchiusi i rifugiati scampati al naufragio al largo di Malta  
Europa, 17-10-2013
Dentro la stazione di polizia di Karmouz ad Alessandria d’Egitto. Qui è dove una cinquantina di rifugiati siriani e palestinesi, sopravvissuti al naufragio dell’11 ottobre scorso, sono stati rinchiusi. Uomini, donne e bambini costretti a vivere in condizioni disumane che, spesso, rasentano l’insostenibilità. La stazione di polizia ha l’aspetto di un vero e proprio carcere; ci sono due grandi celle: una per gli uomini e l’altra per le donne e i bambini. Il cibo e le medicine arrivano col contagocce e spesso in ritardo.
Le condizioni igieniche sono aberranti e inadatte a garantire i minimi standard di umanità: la sporcizia è lasciata per terra sul pavimento e raggruppata, alla meno peggio, negli angoli della stanza ed i bagni turchi sono quasi inaccessibili per quanto maleodoranti. Le persone giacciono per terra; se fortunate, su dei materassi sporchi e sudici. Alcuni dei rifugiati sono malati e necessitano, urgentemente, di visite mediche. Ma i loro bisogni sono per lo più inascoltati.
«Ho una malattia molto grave, un cancro», racconta una donna siriana, sdraiata in un angolo della stanza. «Dopo tante ricerche e due operazioni in Libano sono riuscita a trovare un medico tedesco disposto ad operarmi. Questo è il motivo che mi ha spinto a salire su un maledetto barcone diretto verso le coste italiane», sospira la donna. Che poi conclude: «La barca è affondata. Mi sono salvata, grazie a dio. Ma ora lo stato egiziano mi rispedirà, con ogni probabilità, nel mio paese. Dove nessuno potrà curarmi».
Nel corridoio, all’entrata della stazione di polizia di Karmouz, c’è un ragazzo, ventenne, sdraiato per terra. Apparentemente privo di conoscenza. La polizia fa segno di proseguire. Ma il dottor Taher Mukhtar – medico del Movimento di solidarietà per i rifugiati (un network di attivisti per i diritti umani che ha aperto una pagina facebook dove denuncia il peggioramento del trattamento che l’Egitto riserva ai profughi siriani) – si ferma per soccorrerlo. «Il ragazzo sta bene- spiega il medico. Non gli danno il permesso di vedere la famiglia, vuole disperatamente vedere la madre. Sta fingendo un malessere per farsi portare in ospedale e per poter chiedere, una volta arrivato lì, il permesso di parlare con i propri cari».
Il dottor Mukhtar racconta che i superstiti del naufragio sono abbandonati a se stessi: «Chi sta male, riceve delle cure sommarie. Mi reco, quotidianamente, nelle stazioni di polizia di Alessandria: visito i rifugiati e porto loro le medicine di cui necessitano. Ma spesso non è sufficiente. Alcuni avrebbero bisogno di operazioni chirurgiche che, però, vengono negate». Senza parlare, conclude il dottore, dei traumi psicologici che hanno subìto e da cui, probabilmente, non si riprenderanno mai: «Nell’ultimo incidente in mare una bambina di nove anni, Israa, ha perso il padre. Ora sta qui nella stazione di polizia di Karmouz: come vedi, ride e scherza con gli altri bambini non sapendo, ancora, che il corpo del papà è stato ritrovato senza vita. La madre si trova in Siria e la piccola verrà rimandata, molto presto, nel suo paese d’origine».
Nader Attar, un altro attivista e ricercatore del Movimento di solidarietà per i rifugiati, critica aspramente la marina militare egiziana, colpevole- a suo dire- di non aver salvato la vita delle persone in mare. «Quando l’ultimo barcone è affondato, le persone sono state salvate principalmente dai pescatori egiziani. La nave della marina è arrivata con netto ritardo sul luogo della tragedia. Inoltre, la prima cosa che hanno fatto è stata filmare e fare foto al barcone invece di fornire immediato soccorso. Ti dirò di più: i militari hanno sparato – loro dicono verso l’alto – ed ucciso due uomini che si trovavano sulla barca», tuona senza mezzi termini il giovane ricercatore.
Nella stanza-cella degli uomini ci sono una ventina di persone. Vogliono parlare, sfogarsi. Omar, un uomo di 58 anni, è il primo che vuole raccontare la sua storia: «Sono siriano di origine palestinese. Sono arrivato, legalmente, in Egitto il 3 ottobre scorso. E l’11 mi sono imbarcato, con due figli, su quel trabiccolo che è affondata miseramente qualche ora dopo la partenza. Grazie a dio nessuno di noi è morto. Ora stiamo tutti qui. Aspettando di essere rispediti in Siria. Dove, invece, moriremo», incalza freddamente l’uomo.
Vicino a lui, un ragazzo di 37 anni, Kaled, è arrivato il 3 agosto in Egitto: «Stiamo scappando dalla Siria – spiega il giovane – due miei fratelli sono morti a Daraa e, se ci rispediscono là, faremo la stessa fine». Quando è arrivato la prima volta, gli hanno fatto un visto di tre mesi; Una volta scaduto, con molta difficoltà è riuscito a rinnovarlo per altri tre mesi : «È stato molto difficile per me prolungare la mia permanenza in Egitto. Per questo ho deciso di provare il tutto per tutto cercando di raggiungere, invano, l’Italia», tuona mestamente Kaled.
Un bambino cerca di attrarre, in ogni modo, l’attenzione dei nuovi arrivati. Si chiama Mohamed. Ha 12 anni. È palestinese siriano. E’ arrivato al Cairo il 25 settembre con suo padre ed il nonno. «Mio nonno è morto in mare” singhiozza il ragazzino. Che poi aggiunge: “In Siria stavamo nel campo profughi di Yarmouk, nella periferia di Damasco». Il padre lo interrompe e gli fa segno di mostrare le cicatrici che ha sul suo corpicino esile; il piccolo obbedisce immediatamente. Abbassandosi i pantaloncini e alzando la t-shirt, indica con la manina le numerose cicatrici su tutto il corpo: principalmente sulla pancia, sulle cosce e sulle gambe. «A marzo, mentre uscivo di scuola, c’è stato un bombardamento e sono rimasto ferito. Pensavo di essere morto», aggiunge il bambino. Poi il padre, che accarezza dolcemente la testa del ragazzino, conclude alzando il tono di voce: «Sono stato un mese in ospedale coni lui. Ha subìto molte operazioni. La nostra vita è un continuo dramma, ora aspettiamo solo di morire insieme».
Infine un altro ragazzo, Omar, punta il dito contro il mercato nero degli scafisti e racconta come è entrato in contatto con loro: «Dopo avere sparso un po’ la voce in città, ci hanno consigliato di andare in un bar in un quartiere centrale di Alessandria. Lì abbiamo incontrato un uomo egiziano che gestisce questo business. Ci aveva promesso un visto per l’Italia: gli abbiamo creduto. Molti di noi non hanno scelta. Gli abbiamo dato i nostri documenti e i soldi (voleva tremila dollari a persona)». Il racconto è molto dettagliato: «Il giorno della partenza – continua Omar – ci hanno messo in un autobus, i vetri erano tutti coperti con del cartone. E ci hanno portato in un quartiere di Alessandria chiamato Max che affaccia sul mare. Lì ci aspettavano altre persone malintenzionate: ci hanno derubato di tutte le poche cose che possedevamo. E – armati di pistole e coltelli – ci hanno intimato di salire su piccole barche». Omar è molto lucido nel ricordare quella giornata: «Una volta saliti su queste barchette, di legno, fatiscenti, abbiamo preso il largo. E dopo poco tempo abbiamo raggiunto un barcone, più grande, che ci aspettava in mare aperto. A quel punto eravamo ammassati uno sopra l’altro. Inevitabilmente, il barcone è affondato dopo circa due ore: eravamo troppi a bordo, forse il doppio – magari anche il triplo! – del numero consentito». Omar ha gli occhi lucidi, si blocca, si alza in piedi e con voce ferma conclude: «Ti dirò una cosa: preferisco morire in mare piuttosto che per mano di un dittatore arabo». I presenti annuiscono con la testa e, finito il colloquio, si avvicinano ai propri cari sparsi nella fredda e misera stanza del carcere.



Cinese prima nata nuovo ospedale A Prato il web si riempie di insulti
l'Unità, 17-10-2013
Metà dei bambini che ogni anno nascono a Prato sono cinesi. Il trend è stato rispettato nel Nuovo Ospedale pratese, inaugurato recentemente. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare che il lieto evento si sarebbe trasformato in una palestra di becerume e razzismo a cuor leggero.
Simona, che di cognome fa Liu è nata da genitori cinesi, pesa quasi quattro chili ed è sana come un pesce. Coincidenza ha voluto che anche l'ultimo nato nel vecchio ospedale fosse un cinese, Luca Zaho ha visto la luce proprio sul filo di lana, poche ore prima della chiusura della struttura sanitaria.
Ancora una volta però è la rete il palcoscenico sul quale si scatenano i commenti al veleno conditi con frasi inquietanti e timori per la perdita di identità. Appena il sito giornalistico "NotiziediPrato" pubblica la notizia immediatamente parte il tam tam sul web e alcuni commenti sono così pesanti da spingere il direttore del sito, Claudio Vannacci, a rimuoverli e chi tenta di non stare al gioco del “dagli al cinese” viene subito coperto di insulti.
È il festival della xenofobia quello che va in scena e conferma quanta strada ci sia ancora da fare sul piano dell’integrazione. Non a caso il sindaco Robero Cenni, un industriale con la casacca del Pdl, ammette che «siamo ancora all’anno zero». Per il primo cittadino questo tipo di reazione alla nascita di una bimba cinese è spiegabile per una sorta di rabbia sotterranea di una parte dei pratesi per l’ingombrante colonia orientale «le politiche sanitarie devono essere aumentate per tutti, ma non a danno dei pratesi» spiega alla stampa.
Anche di quei pratesi che fanno affari d’oro affittando i loro capannoni ai cinesi? «Dove finiremo» si chiede uno riferendosi al fiocco rosa con gli occhi a mandorla. «Non mi stupisco più di nulla» scrive un altro sul sito pratese, come se a nascere fosse stata una extraterrestre.
Per fortuna Prato è anche altro. Infatti a festeggiare l’arrivo di Simona, da sottolineare la scelta dei suoi genitori di darle un nome italiano per sottolineare la loro voglia di sentirsi pratesi fino in fondo, ci hanno pensato la Fondazione Ami Prato e la Asl di Prato donandole un quadrettino ricordo che babbo e mamma hanno immediatamente appeso nella stanza dell’ospedale. Un piccolo, grande segnale.
Ma l’amarezza per quanto è successo rimane. E il presidente della Toscana Enrico Rossi non lo nasconde. «Se anche di fronte alla nascita di una bambina si scatena rabbia, odio e violenza verbale vuol dire che si è smarrita la bussola del vivere civile» commenta su Facebook non prima di aver salutato la nascita di Simona «una bella notizia». «Alla pratese e toscana - e spero presto anche italiana - Simona Liu e ai suoi genitori va il mio sincero abbraccio e quello della Toscana civile che sa accogliere ed essere solidale» conclude Rossi. Chissà se è riuscito a convincere Vincenzo che su “NotiziediPrato» suggerisce di chiamare «Beijing Hospital» il nuovo nosocomio.



Ragazza rom espulsa durante una gita bufera su Valls, la “gauche” si divide
La destra con il ministro. Ma il premier apre un’inchiesta  
la Repubblica, 17-10-2013
PARIGI — La accuse sono le stesse di qualche anno fa, quando al ministero dell’Interno c’era un uomo considerato troppo ambizioso, insensibile, che strumentalizzava a fini personali temi come immigrazione e sicurezza. Solo che adesso in place Beauvau non c’è più Nicolas Sarkozy ma Manuel Valls, icona di una nuova sinistra legge e ordine, di rottura, inviso a parte della gauche ma molto popolare nei sondaggi. Valls e Sarkozy sono arrivati a incarichi di governo giovani, si assomigliano anche un po’ fisicamente, appaiono entrambi scattanti, nervosi. Le similitudini non finiscono qui.
«Mi vergognavo molto, e ho pianto. L’unica cosa che adesso chiedo è tornare in Francia». La voce di Léonarda rischia di perseguitare a lungo Valls. La ragazza rom, 15 anni, frequentava un liceo francese, con ottimi risultati. Abitava insieme alla sua famiglia in un centro di accoglienza per richiedenti asilo a Levier, piccolo comune nell’est del paese, vicino al confine con la Svizzera. Tutto è cambiato qualche giorno fa. Con le maestre e i compagni, Léonarda era andata a fare un gita. La comitiva è stata improvvisamente fermata dalla polizia. Gli agenti hanno chiesto alla ragazza di scendere dal pullman. Lei non voleva, è scoppiata in lacrime.
Ora Léonarda Dibrani è a Mitrovica, in Kosovo. È stata caricata a forza su un aereo dalla polizia di frontiera. Il fatto è avvenuto lo scorso 9 ottobre, ma è stato reso pubblico nelle ultime ore da Réseau Education Sans Frontières, un’associazione che ha denunciato altre espulsioni nelle scuole quando governava la destra. A parti invertite, adesso è la gauche a essere sotto accusa. E Valls è difeso dagli esponenti di destra. «È stata rispettata la legge» ha commentato il ministro dell’Interno che da settimane predica la «fermezza repubblicana» con i sans papiers. Valls dice che la sicurezza «non è di destra». Ama usare frasi forti, come quando riprende una citazione di Michel Rocard: «La Francia non può accogliere tutta la miseria del mondo». È convinto che «i rom non hanno vocazione a integrarsi in Francia ». Nel caso della famiglia Dibrani sembra piuttosto il contrario. Léonarda e i suoi fratelli andavano regolarmente a scuola da tre anni, con buoni risultati. Il padre lavorava in una mensa per poveri. Secondo diverse fonti, la famiglia aveva pronto un dossier per ottenere documenti in regola. Una versione contraddetta dal ministro dell’Interno: la loro richiesta d’asilo, sostiene Valls, è stata respinta, non c’erano più ricorsi possibili.
Il ministro-sceriffo non arretra, si presenta come uno dei pochi politici che può fare argine alla scalata del Front National. E pazienza se vengono calpestati «i valori della sinistra» come ha sottolineato ieri Claude Bartolone, il socialista presidente dell’Assemblée Nationale. Il leader dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, ha chiesto le dimissioni di Valls che «non è degno della Repubblica ». Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, avverte:
«Non deve più accadere. Le scuole sono luoghi protetti». Il governo ha avviato un’inchiesta interna per capire chi ha dato l’ordine di prelevare la ragazza. «Se c’è stato un errore nella procedura, la ragazza potrà tornare in Francia» ha annunciato il primo ministro, Jean-Marc Ayrault. È iniziato il solito rimpallo di responsabilità tra prefetto e polizia di frontiera. Alla fine ci sarà magari un funzionario che pagherà per salvare l’onore di tutti. L’unico che per ora non parla è Hollande. Il Presidente continua a non intervenire sulla polemica, testimone silenzioso della crescente popolarità di Valls. Dal ministero dell’Interno, Sarkozy ha costruito la sua candidatura da Presidente. Tra place Beauvau e l’Eliseo ci sono solo pochi passi.



Al via in Norvegia il governo anti rom e tasse
il Giornale, 17-10-2013
Giornata storica in Norvegia ieri, dove il via al nuovo governo segna anche l'entrata al potere, per la prima volta nei 40 anni della sua storia, del Partito del Progresso populista e anti-immigrazione. L'esecutivo è frutto di un'alleanza con i conservatori guidati da Erna Solberg, che ha portato il suo partito alla vittoria nelle elezioni del 9 settembre e guida ora una nuova compagine nella quale tiene per sé il ministero degli Esteri, dell'Industria e della Sanità, ma è costretta a cedere all'alleata Siv Jensen dicasteri prestigiosi come Finanze, Giustizia, Lavoro e soprattutto quello del Petrolio e dell'Energia, portafoglio chiave in un Paese che al petrolio deve le sue immense ricchezze che fanno del fondo sovrano norvegese il più grande del mondo (oltre 600 miliardi di euro).
I temi che hanno infiammato la campagna elettorale - immigrazione, drastico taglio alle tasse, più sicurezza, più infrastrutture e grandi lavori (grazie a quella che viene definita la manna petrolifera), più armi alla polizia, un po' meno ambiente (in discussione trivellazioni e sfruttamento di aree finora risparmiate), meno divieti per l'alcool, giro di vite contro rom e clandestini - sono stati tutti mantenuti e confermati e rappresentano lo zoccolo duro della formazione che ha scalzato i laburisti di Stoltenberg, dopo otto anni di potere ininterrotto.
Come è tradizione a Oslo i 18 ministri (11 conservatori e 7 populisti) sono stati divisi per genere: 50% donne e 50% uomini; l'età media della coalizione è di 43 anni e la provenienza geografica dei membri del nuovo governo rispetta tutte le aree del Paese. Solberg, 52 anni, ha definito il suo nuovo governo «buono e competente», forse perché sono per ora caduti gli accenti xenofobi da molti criticati.

 

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