Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

26 gennaio 2015

Scuola, obbligo di stranieri per ogni classe 
ROMA Piano del governo per l`integrazione nelle scuole: basta con le classi-ghetto, e i docenti dovranno essere formati per l`istruzione multiculturale. Sarà necessario riservare dei posti agli studenti stranieri in ogni classe. In un`aula con 28/30 studenti, potrebbero essere "bloccati" ogni anno tra i 4 e i 6 posti, agevolando così l`iscrizione per gli studenti non italiani. La quota precisa è ancora allo studio, verrà indicata quando sarà ultimato il censimento delle città con il più alto tasso di studenti stranieri. 
Mozzetti a pag. 15 
Scuola, quote di stranieri per ogni classe 
Il Messaggero, 26-01-2015
Camilla Mozzetti 
Il piano del governo per l`integrazione: basta con le classi-ghetto e i docenti dovranno essere formati per l`istruzione multiculturale
L`ipotesi: in un`aula da 30 alunni, almeno 4 non italiani. Ma il numero varierà in base alla presenza di immigrati nelle città 
IL PROGETTO 
ROMA Sono circa 850 mila i bambini stranieri che popolano le scuole italiane. Più di 400 gli istituti con una percentuale di alunni di recente immigrazione che si aggira sul 50%. E le città del Paese in cui i tassi sembrano destinati ad aumentare, non si contano più solo sulle dita di una mano. A Torino, Milano, Roma e Prato se ne aggiungeranno probabilmente altre, di città. Persino capoluoghi di provincia. E ai piccoli e grandi studenti, che riempiono le aule e i laboratori delle scuole, che arrivano in Italia e che hanno bisogno, come gli altri, di costruirsi un bagaglio culturale, lo Stato deve poter garantire il diritto allo studio  senza affrontare la loro presenza in una logica emergenziale. 
IL PIANO 
Il governo, che sta marciando per licenziare il decreto sulla Buona Scuola- probabilmente dopo il Consiglio dei ministri del 20 febbraio -, è al lavoro per ultimare un capitolo extra della riforma. «Un tredicesimo punto», come lo chiama il sottosegretario 
all`Istruzione, Davide Faraone, assente dalla bozza di riforma presentata lo scorso settembre ma i cui contenuti, come l`integrazione degli stranieri, la didattica interdisciplinare e multiculturale, «non sono mai stati sottovalutati dall`esecutivo e soprattutto dal ministero dell`Istruzione», spiega il braccio destro della responsabile del Miur, Stefania Giannini. «Bisogna 
garantire agli studenti stranieri la possibilità di essere inseriti in classe in qualsiasi momento dell`anno - aggiunge il sottosegretario perché non possono ripetersi episodi di bambini che devono aspettare mesi per trovare un`aula che li accolga». 
L`aspetto fondamentale, comunque, non si riduce a recuperare un banco; punta, piuttosto, a sconfiggere quella ghettizzazione compiuta silenziosamente negli anni. Classi composte interamente da bambini cinesi e classi con soli ragazzi italiani come accade da anni a Prato - prosegue Faraone - rappresentano delle patologie che dobbiamo assolutamente modificare». 
L`obiettivo è ambizioso: far crescere tutti i ragazzi in una cultura meno provinciale. 
I DOCENTI 
In prima battuta, per non fare dell`integrazione una parola scevra di contenuto, si dovrà metter mano al capitolo docenti. Nell`organico funzionale sarà, infatti, prevista una quota d`insegnanti, in possesso di certificazioni che attestino la competenza 
per l`insegnamento dell`italiano a studenti stranieri, impegnati a colmare i gap linguistici dei bambini e dei ragazzi appena arrivati in Italia. Una quota di maestri e professori delle scuole superiori di primo e secondo grado, ancora da individuare  sulla base del famoso pacchetto assunzioni precari, si occuperà, dunque, della prima familiarizzazione con l`italiano dei bambini  stranieri anche attraverso dei laboratori in rete ed estivi. E per questo, arriveranno anche i fondi. Il pacchetto sulla Buona Scuola prevede una quota fissa, presumibilmente del 10%, da riservare alla formazione del personale in contesti multiculturali  e di complessità sociale, sia per i docenti appena assunti che per quelli in servizio da anni. 
LE CLASSI MISTE 
Il secondo aspetto riguarda il principio dell`equieterogeneità: niente più classi ghetto o aule separate, ma un`integrazione tra culture, riservando dei posti per gli studenti stranieri in ogni classe. In un`aula con 28/30 studenti, per fare un esempio, tra i 4 e i 6 posti potrebbero essere "bloccati" ogni anno, agevolando in questo modo l`iscrizione per studenti non italiani. La quota precisa però è ancora allo studio, verrà indicata quando sarà ultimato il censimento delle città con il più alto tasso di studenti stranieri. 
Sul versante della didattica, infine, il sottosegretario Faraone non esclude la possibilità di creare percorsi di plurilinguismo: «Sperimentando, ad esempio, l`insegnamento delle lingue non comunitarie come il cinese, l`arabo e il russo, cosa per altro prevista già da alcuni istituti». Si dovrebbe, inoltre, prevedere che gli alunni di madrelingua straniera possano evitare di aggiungere una quarta lingua, «in particolare alla scuola media - conclude il sottosegretario - dove è richiesto lo studio di una seconda lingua straniera. Per questi alunni l`italiana è già una seconda lingua straniera, oltre l`inglese». Il tredicesimo capitolo con buone probabilità sarà suddiviso in due parti. La prima, quella relativa agli insegnanti, alla loro preparazione e 
 ai fondi per gli aggiornamenti, confluirà nel decreto di riforma. L`aspetto riguardante la didattica, invece, come una restante parte del  piano Buona Scuola, sarà licenziato dopo il 20 febbraio attraverso una legge delega. 
 
 
 
A Stoccolma la nuova Siria "Questa è la terra promessa" 
L`odissea di Ahmed, in fuga da Damasco con documenti usa e getta 
La Stampa, 26-01-2015
MONICA PEROSINO INVIATA A STOCCOLMA  
Reportage 
Al Terminal 5 dell`aeroporto di Arlanda non c`è nessuno ad aspettare quell`uomo magro e visibilmente stanco. Il volo da Istanbul delle 23.35 è atterrato a Stoccolma in perfetto orario. Scarica famiglie, gruppi di ragazzi, nessuna donna. Ahmed è solo. Ha una  piccola borsa nera, un sacchetto di plastica marrone, una giacca a vento troppo leggera per la tempesta di neve che da ore si  accanisce sullo scalo svedese. Si guarda attorno, individua la scritta «Polis» sulla giacca di un agente che sorveglia i passeggeri. Esita, poi lo raggiunge: «Sono siriano. I miei documenti sono falsi. Aiutatemi». 
Benvenuto in Svezia 
L`agente sarà alto un metro e novanta. È massiccio, biondo. Prende la borsa e il sacchetto di Ahmed, li appoggia sul bancone della
dogana. Circonda Ahmed con un braccio, protettivo, guarda il passaporto, lo richiude: «Benvenuto in Svezia». 
Ahmed, 31 anni, è un ingegnere di Damasco. Per arrivare a Stoccolma ci ha messo due mesi e 6000 dollari. È uno dei 30 mila siriani che ogni anno chiedono asilo al Paese scandinavo. Tutto quello che gli rimane sta nella sua piccola borsa nera di nylon: due paia di calze di lana, una giacca di pile a rombi, 300 dollari, uno spazzolino da denti, una coperta di, quelle da aereo, una busta piena di carte, pantaloni della tuta. A Damasco non rimane più niente: la sua vita «da ricchi», come dice lui, figlio  di un costruttore «sempre pieno di lavoro», la casa di famiglia, le proprietà immobiliari, tre fratelli, i genitori: «La mia famiglia,  la mia vita, è stata sterminata». 
Le vie verso il Nord 
Ahmed ha un «contatto» in Svezia, un amico arrivato prima di lui, su un barcone salpato dalle coste egiziane a giugno. «Mi diceva 
che in Svezia rispettano i diritti umani, che si vive bene, anche se fa sempre freddo. Io mi sono potuto permettere un viaggio più 
facile del suo - spiega -. Avevo più soldi». Da Damasco è arrivato in Libano, in un campo profughi nel nord del Paese: «Lì lavorano gli "agenti di viaggio". Passano di tenda in tenda, ti procurano i passaggi e i contatti in Turchia, ma anche altro se vuoi». In Turchia ci si arriva con una staffetta di auto e piccoli autobus. «Per raggiungere Istanbul ci ho messo un mese. I trafficanti hanno come basi delle case private lungo il tragitto». Poi servono documenti: «Ne puoi avere di tutti i tipi, ma a me bastavano quelli del tipo usa e getta». Costano meno, ma li puoi usare solo una volta. «A Istanbul ho avuto paura: stavamo  in una stanzetta in dieci, tutti come me, tutti in fuga. Nessuno poteva uscire. Una donha ci portava da mangiare e basta. Abbiamo  aspettato per giorni prima di poter partire». 
Sull`autobus giallo 
Ahmed sparisce per un`ora in una stanza vicino alla dogana. Controlli di sicurezza. Fuori dal terminal lo aspetta l`«autobus dei rifugiati», come lo chiamano qui, un pullman giallo che trasferisce i migranti al centro di prima accoglienza di Marsta, a pochi  chilometri dall`aeroporto. A bordo c`è anche Atta, 45 anni, palestinese, ex parrucchiere. Lui, nel «Paese congelato», ci è arrivato dopo un viaggio di sei mesi. Da Gaza ha pagato - ma non vuole dire quanto - per usare i tunnel di Hamas e passare in Egitto, direzione Ras EI Bar, sulla costa. «Una volta che arrivi lì basta aspettare. Vengono loro». Loro sono gli smuggler - Mahmood, Abo sono i più conosciuti-, e lavorano tutti per il «Dottore», «The Doctor», un egiziano a capo della rete di trafficanti e scafisti. Il viaggio sul barcone è durato sei giorni. «Siamo stati fortunati, non siamo affondati». 
Appena arrivato a Trapani, Atta è fuggito: «Eravamo in 1050, metà di noi sono scappati per evitare che ci prendessero le impronte». Tutti volevano raggiungere la Svezia o la Germania: «Se ci avessero identificati il Paese a cui richiedere l`asilo sarebbe stato obbligatoriamente l`Italia. Raggiungere Milano è stato facile, a Trapani ci sono molti trafficanti che vendono i  biglietti dei treni». 
Centro di identificazione 
Il centro di accoglienza di Marsta in Maskingatan sembra più un centro benessere che un Cie. Legno chiaro, luci soffuse, salottini comuni, l`area per i bambini  piena di giochi, stanze per singoli o nuclei famigliari. I migranti arrivano con il bus giallo,  a piedi o con i mezzi pubblici. Il tempo massimo di permanenza è tre giorni, la media due, poi il Migrationsverket ti trova una  casa vera. 
Ad accogliere í migranti c`è il sorriso di Anna Andersson. Si passa dalla registrazione, dove si compila un modulo prestampato in cui si indicano le generalità, poi nel caso non si abbiano i documenti si passa nella ala dedicata ai colloqui. Un`altra Anna ha il compito di raccogliere tutto quel che serve: foto, impronte digitali, che vengono inserite nel database Eurodac, «ma solo per  vedere se ci sono richieste d`asilo avviate in altri Paesi», tiene a puntualizzare. Per rendere «meno choccante» il rilevamento di impronte questa ala del centro è ancora più accogliente: tende a fiori, comodi divani chiari, tappeti, nulla che possa ricordare  una stazione di polizia. 
Lo Stato pensa a ogni esigenza: nella borsa blu di prima accoglienza c`è tutto quello di cui si ha bisogno, in un altro centro, a  Orebro, c`è anche un servizio di sostegno psicologico. Se fa freddo si può far richiesta di abbigliamento pesante, alle madri con bimbi piccoli vengono dati pannolini, giochi e pappe, chi non ha soldi può fare domanda per avere un sostegno economico. Anche se in teoria non serve: vitto e alloggio sono garantiti, così come i trasporti (per i portatori dí handicap sono previsti buoni taxi), l`assistenza sanitaria, l`abbigliamento e una somma minima per far fronte alle piccole spese extra (circa 80 euro al mese). 
«Qua in Svezia fa freddo, c`è tantissima neve, è tutto silenzioso racconta Khalíd, 44 anni, ex insegnante di Aleppo. Ma appena arrivi capisci perché se digiti in arabo "voglio asilo" su un qualsiasi motore di ricerca compare automaticamente la parola "Svezia": qui ti rispettano, ti danno una nuova nazione, una nuova vita, un lavoro, una possibilità. Pensavi di avere perso tutto, poi ti trovi in mano nuove carte da giocare. Sta a te». 
 
 
 
Il «dottore» adolescente che ha fatto nascere il fratellino
Corriere.it, 26-01-2015
Alessandra Coppola
«Bravo collega!», gli ha detto il medico della Mangiagalli quando ha sentito la sua storia. E lui, sotto i baffetti leggeri da adolescente, ha riso per l’orgoglio e lo scampato pericolo. A quindici anni Wael, da solo, ha messo al mondo un bimbo (lo tiene in braccio nella foto), suo fratello, che si è ostinato a nascere nel momento meno opportuno, nel mezzo della Libia e di un viaggio rischiosissimo, la mamma che gridava «Sto per morire!».
«Ho passato mezz’ora a piangere seduto in un angolo — ammette il ragazzo, un viso paffuto e bello ancora infantile —. Poi ho detto: mamma tu non morirai, ci sono qua io!».
S’è rialzato uomo, ha assistito la donna in un lunghissimo travaglio, ha tagliato il cordone ombelicale con le forbici che c’erano, e ha pure cucito, con ago e filo di cotone. «Un buon lavoro», conferma la pediatra che ha visitato l’altro ieri il neonato a Milano. Mahmoud adesso ha due mesi e mezzo, pesa anche più della norma, ha una nuova tutina imbottita azzurra a prova di inverno, e dorme pacifico in una delle stanze di Casa Suraya, gestita dalla Cooperativa Farsi Prossimo, per i siriani di passaggio in città uno dei centri più tranquilli, confortevoli e sicuri in cui sperare di capitare.
La mamma, Hajar, 33 anni, che ha lo stesso volto tondo e grazioso del figlio «dottorino», racconta una storia lunga e articolata: «Posso riempire un quaderno intero». Tra le odissee dei rifugiati, una delle più complicate possibili: dalla Siria al Libano al Sudan quindi in Libia. per imbarcarsi verso l’Europa.
Si comincia dalla guerra civile in corso da quattro anni. «Vivevamo nel campo di Yarmuk», alla periferia di Damasco, padre, madre e tre figli. La battaglia arriva presto sotto casa. «Fuggiamo in Libano. Dopo due anni, però, mio marito con i suoi documenti palestinesi non può più restare. Ma per l’Europa ci chiedono 7.000 dollari a testa». Troppi. La famiglia opta allora per il più economico, e povero, Sudan. «Insetti ovunque, si dorme a terra, non c’è nulla. Incinta, vado in ospedale e ho paura: non voglio partorire lì». La donna pensa addirittura di rientrare in Siria «dai miei genitori». Il marito si oppone e decidono di dar fondo a tutti i risparmi per far viaggiare mamma e figlio maggiore verso Nord: «Voglio che il mio quarto bimbo nasca in Europa — dice candidamente —, spero che possa così salvarci tutti». Al settimo mese di gravidanza, Hajar, accompagnata da Wael, si affida ai trafficanti di Khartoum e parte.
«Concordiamo il prezzo di 6.000 dollari in due fino alla spiaggia da cui ci saremmo imbarcati. Viaggiamo in macchina, in carovana. Facciamo soste anche di giorni, a volte chiusi in una stalla con gli animali. Cambiamo diverse vetture e trafficanti».
Il più sgradevole è l’uomo che li conduce attraverso la Libia fin quasi alla costa. «Gli chiedo di affrettarsi, perché sto per partorire, lui mi zittisce». Le doglie arrivano alle quattro di notte, madre e figlio ormai in viaggio da due mesi sono chiusi con altri profughi in un appartamento di Ajdabiya. «Chiamiamo il trafficante perché la porti all’ospedale — racconta il ragazzo —, ma lui risponde che non possiamo uscire di casa. Promette di mandare un’auto, quelli che arrivano dicono di andare a cercare una levatrice». La donna intanto grida e si dispera. «Mai sentito tanto dolore». Nessuno viene ad aiutare. È a questo punto che il «dottorino» si rianima e interviene. Mahmoud nasce alle 7 del mattino e per tutto il giorno il neonato rimane sporco, «la sera qualcuno porta shampoo e acqua». I vestitini fatti con strisce di stoffa, il neonato resiste tenacemente altri due mesi in viaggio, poi in barca dalla Libia verso l’Italia. Infine, a Milano, si può assopire placido.
 
 
 
Se i musulmani restano stranieri.
Valentina Brinis
il Manifesto 23 gennaio 2015
L'attentato alla sede di Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso rilancia i mai del tutto sopiti discorsi degli islamofobi europei. E così, i primi chiamati a spiegare e interpretare quella vicenda, a dover giustificare il loro credo e a prendere le distanze dal fanatismo, sono stati i musulmani. Un atteggiamento che non si ritrova in fatti simili commessi in virtù di altri principi, come per esempio la strage di Utøya in Norvegia nel 2011. Qui fu l’intera Europa a indignarsi e la lettura accordata fu che Anders Breivic, autore di quel gesto, fosse un folle. Si evitò così di accreditare il movente da lui stesso dichiarato: ovvero la sua appartenenza ai valori di estrema destra in difesa del cristianesimo contro l’Islam. Nessun militante di certi partiti islamofobi fu chiamato in causa e nessun cristiano si sentì poi in dovere di rispondere moralmente a quanto era accaduto. E giustamente, aggiungerei. 
Nel caso francese, invece, i sette milioni di musulmani residenti in quello Stato dopo il 7 gennaio sono visti con sospetto, e per vivere tranquilli devono continuamente dimostrare la loro distanza dall’ideologia che ha mosso gli autori del disastro. E sono tenuti culturalmente ad attestare che esiste la possibilità di una convivenza tra islam e democrazia. Ciò, però, pone questi ultimi in una perenne condizione di stranieri che, per definizione, non condividono il patrimonio comune dello stato in cui vivono. Nel paese in questione, la Francia, si tratta di una nazione repubblicana. Ovvero di un’entità universale che non include solo gli autoctoni ma anche chi non è nato in quel territorio eppure lì vive condividendo i principi base che regolano la società. Si tratta proprio del “diritto di suolo” (ius soli), di cui molto si dibatte in Italia, per cui uno straniero ha il diritto di accedere alla cittadinanza perché essa non è strettamente legata alla nascita o ai legami di sangue. Nel caso francese questo sistema presenta un tratto che ha prodotto delle conseguenze molto lontane - quasi opposte - da quelle sperate. Esso consiste nella promozione di un atteggiamento assimilazionista che ha ostacolato a livello istituzionale il sorgere delle differenze religiose già esistenti (ed evidenti) all’interno dello Stato. Basti un esempio: nel 1989 un preside di una scuola francese ha espulso tre ragazze musulmane perché portavano il velo. Da qui, si formarono due schieramenti all’interno dell’opinione pubblica: da un lato c’era chi condivideva la posizione del preside inneggiando alla tradizione laica; e dell’altro coloro che la contrastavano considerandola una scelta frutto dell’intolleranza.
Le posizioni dei primi andrebbero oggi rilette approfonditamente alla luce dei fatti di Parigi del 7 gennaio scorso. Esse non prevedevano un riconoscimento pubblico delle differenze culturali e religiose derivanti dalla comunità di appartenenza perché il punto di unione era ed è costituito dall’essere cittadini, accomunati da valori universali che superano le barriere create dalle religioni. Un’unità che, dunque, ha appiattito le differenze piuttosto che valorizzarle. È in questo modo che si è bloccato quel processo di integrazione dei neo arrivati, degli stranieri.
Si tratta di un’esclusione celata, mascherata, ma che ha prodotto conseguenze terrificanti. E l’attentato alla sede di Charlie Hebdo ne è la dimostrazione. Non intendo ascrivere alle istituzioni francesi la responsabilità di quanto accaduto e tantomeno alludere a una qualche colpa originaria delle vittime, ma c'è un dato incontrovertibile: i carnefici erano cittadini di quello stato. I due incarnavano perfettamente il modello del "foreign fighter": nati in Francia avevano completato la loro formazione in un altro paese, la Siria. E una volta tornati in Europa manifestano la loro fedeltà a chi li ha istruiti, compiendo gesti barbari in stati considerati civili. Dal momento che l’odio alimenta solo altro odio, oggi negli stati europei, ad essere più esposti agli attacchi sono proprio i musulmani. Il problema che si pone è il seguente: come tutelarli da attacchi islamofobici? La soluzione è quella di creare un pensiero basato sulla capacità di distinguere, distinguere, distinguere. Ciò vale per la Francia, ma anche per l’Italia e per l'Europa tutta. Qui, infatti, i confini culturali interni sono ancora molti e sono certamente più difficili da superare di quelli che separano fisicamente uno stato dall’altro. Ecco perché è sempre più urgente pianificare politiche di integrazione che contrastino quella tendenza al relativismo che ha prevalso negli ultimi anni.
 
 
 
Cittadinanza, le domande per diventare italiani si presenteranno via internet
Gli aspiranti cittadini le compileranno online, allegando i documenti in formato elettronico. Si parte ad aprile (e intanto a  Modena hanno sospeso gli appuntamenti)
stranieriinitalia.it, 23-01-2015
Roma – 23 gennaio 2015 - Anche la cittadinanza italiana viaggerà via internet.
Finora online si prenotava solo l'appuntamento. Chi voleva diventare italiano scovava (con molta pazienza) e bloccava sul sito della Prefettura una data utile per presentare di persona la domanda e tutti i documenti necessari. Il moltiplicarsi del numero di richieste, non seguito da un'iniezione di personale e risorse nei suoi uffici, ha convinto però il ministero dell'Interno a fare un ulteriore passaggio.
Dalla prossima primavera, almeno in alcune province, sarà possibile presentare anche la domanda via internet, allegando gli altri documenti in formato elettronico. Il tutto attraverso un'area riservata del portale del ministero, come già avviene, per esempio, per le domande dei flussi.
La misura era stata annunciata qualche mese fa dallo stesso ministro Angelino Alfano, durante un'interrogazione alla Camera. Ora si passa dalle parole ai fatti, prima con un esperimento in un ristretto numero di prefetture, quindi con l'estensione al resto d'Italia.
La conferma arriva da Modena, dove il nuovo sistema, spiega la prefettura, verrà  attivato a partire da aprile. “Ciò consentirà un notevole snellimento delle procedure – si legge in una nota - e permetterà ai richiedenti di procedere alla presentazione delle istanze comodamente da casa”.
In attesa della piccola rivoluzione, però, gli aspiranti italiani che vivono a Modena dovranno armarsi di pazienza, perché intanto sono sospesi gli appuntamenti: “Questa Prefettura non metterà a disposizione dell'utenza ulteriori date di prenotazione per la presentazione delle istanze di cittadinanza in formato cartaceo”.
 
 
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