Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

28 ottobre 2013

Lampedusa, l'archivio di sommersi e salvati "Ecco le nostre storie, non dimenticateci"
Nasce la piattaforma digitale che raccoglie le voci di una tragedia infinita
la Repubblica, 28-10-2013
VLADIMIRO POLCHI
ROMA — C’è Zerit, biologo marino eritreo di 28 anni, che in mare ha perso suo fratello e c’è Costantino, che con la sua barchetta “Nika” ha salvato 11 disperati e c’è pure Vito, che ne ha tirati su finché la sua barca ha iniziato a ondeggiare e ora i profughi lo chiamano papà. Ci sono i sopravvissuti e i soccorritori, gli africani e gli isolani, uniti dal ricordo di quel nero 3 ottobre, quando quasi quattrocento persone, tra uomini, donne e bambini, sono rimaste inghiottite dalle acque di Lampedusa. E ci sono le loro lettere, il loro pizzini digitali affidati ora alla rete, per dire: «Non provate mai a dimenticarci».
Zerit G. scrive al popolo italiano: «Ho 28 anni e non sono un eroe, voglio che conosciate la mia storia e voglio sapere perché non sono stato invitato al funerale di mio fratello». A raccogliere la sua voce è “Sciabica”, parola di origine araba che significa rete da pesca: una rete gettata tra le storie di chi è rimasto sull’isola, ora che i riflettori si stanno spegnendo.
“Sciabica” è una piattaforma digitale, popolata di racconti e foto: un sorta di archivio della memoria, ideato da Fabrica (centro di ricerca sulla comunicazione, fondato nel 1994 e aperto a giovani creativi di tutto il mondo) e affidato a Internet.
«Sono stati gli italiani ad aver costruito la mia città, Elabaned, in Eritrea — scrive Zerit sul suo pizzino — sono il primo migrante della mia famiglia e sono un biologo marino. Volevo passare la vita a parlare coi pesci». Dopo essersi laureato in scienze marine, Zerit decide di raggiungere suo fratello Samuel in Sudan. Con lui prosegue per la Libia e poi da Tripoli fa il grande salto: sfida il mare per raggiungere le coste italiane. Samuel muore tra le acque il 3 ottobre a un’ora di nuoto dalla costa, Zerit tocca la terraferma a Lampedusa. Il suo ultimo dolore? Non aver potuto piangere i funerali del fratello: «Quando ho capito che non potevamo andare ad Agrigento e che ci sarebbero stati degli sconosciuti a gettare un fiore su bare di legno pregiato, mentre i corpi erano rimasti incastrati nel legno marcio del barcone — scrive Zerit sul suo pizzino raccolto da Michela Iaccarino di Fabrica — ho capito che lui stava morendo un’altra volta. Quando l’ora di ricordare la tragedia è arrivata, sono andato verso il mare. E al mare ho chiesto di Samuel, aspettando che almeno la sua anima quel giorno tornasse indietro».
Vito Fiorino ha 64 anni. È nato a Bari ed è cresciuto a Milano. A Lampedusa è venuto la prima volta in vacanza nel 1990. Il 3 ottobre 2013 ha salvato 47 persone: «Se le Nazioni sono davvero Unite come dicono – scrive – devono fare qualcosa adesso. Io ho fatto quello che andava fatto. Lo rifarei in ogni momento, in modo ancora più forte. Ogni giorno i 47 ragazzi mi vengono a trovare. Arrivano dove c’è il bar di mia figlia e mi dicono “ciao, papà”».
Costantino Baratta è nato a Trani nel 1957. Appena si è innamorato di sua moglie, si è innamorato anche della sua isola ed è rimasto a Lampedusa. Il 3 ottobre ha salvato 11 migranti: «Anche quando non ce la faremo più, quando su quest’isola non rimarrà più niente, noi continueremo ad aiutare questa gente. Ma se ci date un’altra medaglia, sarò io il primo a rifiutarla».
Poi c’è don Mussie Zerai, un prete cristiano nato in Eritrea. In Italia ha fondato l’associazione Habeshia e aiuta i profughi che riescono a raggiungere l’Europa. Mussie indirizza il suo pizzino alle autorità italiane: «Smettetela di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi». Il suo messaggio su “Sciabica” non morirà: Fabrica è alla ricerca di un’associazione culturale lampedusana a cui affidare il suo incubatore digitale, affinché nessuno possa un giorno dire «non ricordo».



Quattrocento migranti africani soccorsi dalla nave "San Marco"
Sono sbarcati nel porto di Augusta domenica. A bordo del barcone c'erano quaranta donne e ottanta minori. Il ministro Moavero: "Positivo il Consiglio europeo dei premier e capi di Stato"
la Repubblica, 27-10-2013
Un altro soccorso in mare, un altro sbarco di migranti in Sicilia. La nave "San Marco" della Marina militare, nell'ambito dell'operazione "Mare Nostrum", ha soccorso 408 migranti, sbarcati intorno alle 7,30 di domenica nel porto di Augusta. Si tratta di persone di varie nazionalità subsahariane, tra le quali quaranta donne e ottanta minori.
Un'emergenza che non si arresta, mentre il governo italiano, all'indomani del vertice europeo dei capi di Stato e primi ministri, conta per la prima volta sul sostegno dell'Unione. "Per rendere con un'immagine - dice il ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero - è come se sui migranti la Ue si fosse impegnata finora con una cassetta degli attrezzi di cui aveva aperto solo un paio di scomparti. Ora li abbiamo aperti tutti. E l'aver fissato sin da ora un percorso, con delle tappe precise, nella metodologia europea è un chiaro sintomo della volontà di affrontare e risolvere una questione. D'altronde non è che sulla crisi economica, iniziata nel 2008, l'Europa abbia garantito risposte più immediate".
Intervistato da "Avvenire", Moavero definisce "molto positivo" l'esito del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. "Le proporzioni delle tragedie avvenute nel Mediterraneo inducono la nostra sensibilità a pretendere risposte immediate. Questa esigenza deve fare i conti però con la 'meccanica' dell'Unione, la cui complessità è nota", spiega Moavero. "Io vedo comunque tre ordini di risultati ottenuti: oltre a un calendario, ci sono misure immediate, anche se parziali, a cominciare dal potenziamento di Frontex; e c'è una presa di coscienza da parte dei leader come mai prima d'ora".
"Erano tanti anni che il Consiglio europeo non si occupava di migrazioni. Ci si poteva limitare a manifestare una generica sensibilità sul tema. Invece c'è stata una reale discussione, sinceramente sentita, che ha occupato la gran parte della mattina di venerdì", sottolinea il ministro, secondo il quale "stavolta c'è una volontà effettiva di arrivare a un risultato".



Profughi siriani: l'attesa della partenza dal campo di via Novara
L'assessore Majorino e la deputata Lia Quartapelle visitano i siriani nella struttura allestita dal Comune. Palazzo Marino chiede un intervento da Roma e il gruppo parlamentare del Pd propone di concedere un permesso di soggiorno valido per l'espatrio
Redattore sociale, 27-10-2013
Lorenzo Bagnoli
MILANO – “Finora c'è una grande collaborazione con le associazioni: l'accoglienza temporanea sta funzionando. Però rivolgo un appello accoratissimo affinché Roma affronti la situazione: ci deve essere una risposta a livello centrale”. L'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino è al centro d'accoglienza temporanea dei profughi siriani a Milano. Sa che per quanto l'amministrazione si sforzi, i circa 70 ospiti attualmente presenti nella struttura vogliono lasciare Milano. Il via vai è continuo: gli ultimi 16 profughi sono arrivati in mattinata. “La risposta che il gruppo parlamentare del Pd propone all'esecutivo è emettere un permesso di soggiorno valido per espatriare”, spiega Lia Quartapelle, deputata milanese che accompagna l'assessore nella visita al campo. È lo stesso strumento già utilizzato per l'Emengenza nord Africa aveva suscitato clamore in Europa: la Francia di Sarkozy aveva chiuso le frontiere e Ventimiglia s'era affollata di tunisini che non riuscirano a varcare il confine.
Il campo d'accoglienza temporanea è ricavato in un centro polifunzionale che si apre in uno slargo al 451 di via Novara. Una ventina di prefabbriccati con tre stanze ciascuno. Tra gli spazi che dividono una casetta dall'altra giocano i bambini chi salta la corda, chi tira calci ad un pallone troppo sgonfio, chi si getta tra le braccia di tutti i volontari che si danno il cambio per assistere i profughi. Si respira un clima d'attesa. Pare che nessuno voglia abituarsi alla vita milanese, perché sanno che tra poco dovranno lasciarla. A parte Mahmoud, che s'informa a che ora si gioca a San Siro: lo stadio è giusto a un paio di chilometri dal centro d'accoglienza.
Come tutti i giorni, accanto alle famiglie ci sono i volontari dell'associazione Insieme per la Siria libera. La formano 15 siriani provenienti da tutta Italia. Ufficialmente, sono iscritti all'albo delle associazioni dal gennaio 2013. “Abbiamo raccolto acqua, cibo e vestiti per chi è arrivato in Stazione centrale e abbiamo contattato il Comune affinché si desse da fare per creare luoghi come questo”, racconta Ahmed Maani, uno dei fondatori dell'associazione. Accanto a Maani si raccoglie un drappello di uomini e donne, assetati di notizie dalle frontiere. Qual è il mezzo più sicuro per passare? Si riesce a partire? Controllano di più in Austria o in Francia? Sono poche le famiglie che hanno già da parte i soldi per potersi comprare il biglietto. Le altre attendono che i parenti ancora in Siria spediscano gli ultimi risparmi via money transfer. Serve qualcuno con la residenza in Italia per accompagnarli a riscuotere. “Questione di un paio giorni”. Talal spiccica qualche parola d'inglese. Ringrazia per l'interesse nei confronti della sua storia: si sentirebbe più sicuro a partire con dei testimoni. Souheir traduce quando i rudimenti d'inglese non sono sufficienti a comunicare. Nei suoi occhi si leggono i dubbi di chi ha sentito tropppe storie finite male, troppi uomini fermati alla frontiera. “Da dove è meglio passare?”, chiede. La domanda resta sospesa. Per scacciare i pensieri si mette a giocare a calcio con il figlio. C'è tempo per partire, almeno fino a domani.



Bossi-Fini, Manconi: per ora nessuna speranza di modificarla
Intervista al senatore Pd in occasione dell’uscita di “Accogliamoli tutti”, libro scritto insieme a Valentina Brinis. “Non è per buoni sentimenti: la nostra economia ha bisogno degli immigrati e questo impone di cambiare la legge”
Redattore sociale, 26-10-2013
Raffaella Cosentino
ROMA – “La modifica della legge sull’immigrazione è attualmente a un blocco, totalmente ferma”. È quanto dichiara a Redattore Sociale il senatore PD Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro scritto con Valentina Brinis per le edizioni Il Saggiatore, dal titolo Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati. “Abbiamo un presidente del Consiglio che dice che bisogna modificare la Bossi-Fini e un vicepresidente del Consiglio che dice che non si deve modificare – spiega Manconi – Più bloccato di così è difficile immaginarlo”. Eppure una modifica della legislazione appare necessaria. “La nostra economia ha bisogno di forza lavoro – continua – e sulla base di questo bisogno impone che si modifichino delle norme”.
Il titolo del volume, dichiarano gli autori “non è una provocazione, è una dichiarazione politica” ma anche “un possibile programma economico, sociale, culturale e legislativo”. “E’ possibile che ci sia un qualche scandalo – ci dice il senatore Pd – ma è uno scandalo voluto nel senso che il testo è scientifico, dall’inizio alla fine interamente giocato su dati demografici, economici e sociali”. Secondo Manconi il dato demografico costituisce il punto di partenza ineludibile di qualunque ragionamento sull’immigrazione. “Abbiamo sempre più bisogno degli immigrati – afferma – oggi in Italia ci sono 12 milioni di persone tra i 65 e i 105 anni, cioè uno su cinque ha oltre i 65 anni. Nel nostro paese lavorano un milione e mezzo di badanti. Se incrociamo i due dati emerge che abbiamo sempre più bisogno di persone addette al lavoro di cura. C’è un intero settore del nostro sistema sociale che si regge sul lavoro straniero e che non sarà svolto se non in minima parte dagli italiani”.
Il presidente della Commissione Diritti umani spiega che nel corso degli ultimi vent’anni in cui il fenomeno migratorio è stato più forte, non c’è stata concorrenza sul lavoro tra italiani e stranieri. “Il lavoro straniero inventa nuovi impieghi, rinnova vecchie attività, si inserisce in segmenti del sistema economico che i lavoratori italiani non coprono – continua Manconi - Dagli strilloni agli ambulanti, le imprese etniche sono diverse da quelle dei commercianti italiani. Agricoltura, siderurgia ed edilizia sono tre settori che si reggono sul lavoro degli immigrati”. Questa divisione del mercato del lavoro ha avuto un effetto positivo importante. “La mancanza di concorrenza sul lavoro ha evitato forme di razzismo che ci sono state in altri paesi e in altre epoche storiche” dice il senatore che rifiuta la divisione sterile in razzisti e antirazzisti.
“Il discorso che facciamo nel libro è tutto sui diritti, non esiste un’integrazione che si basi sull’atteggiamento solidale della popolazione locale nei confronti dei nuovi arrivati. La solidarietà e la società multiculturale sono cose ideologiche e astratte, il ragionamento va spostato su un piano tutto diverso – afferma Manconi - Se parliamo del caporalato, una battaglia contro il caporalato che veda protagonisti i braccianti stranieri è una battaglia che si trasforma in un processo di modernizzazione dell’intero settore dell’agricoltura. Diventa cioè una battaglia che coinvolge italiani e stranieri”.
E il titolo “non è assolutamente una provocazione – dice il presidente della Commissione Diritti Umani e sociologo – noi vogliamo veramente accoglierli tutti”. Sociologa e ricercatrice di A Buon Diritto è anche Valentina Brinis, coautrice del pamphlet. “Assolutamente non si può appiattire tutto il discorso sull’immigrazione sul razzismo, è una questione di negazione dei diritti” afferma la giovane autrice.
Il libro intende provare che l’accoglienza è utile in termini razionali e sociali, non è scontata perché non è basata su solidarietà e buoni sentimenti, ma su una battaglia per i diritti e che il suo contrario – la non accoglienza – è impossibile, inutile e dannosa da perseguire. Quindi, afferma il testo, i richiedenti asilo vanno accolti perché “protetti da precisi obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia”, non per sentimentalismo. Ma sarebbe anche un “disastro” sottovalutare le contraddizioni che il fenomeno migratorio comporta, “specie per gli strati più deboli della società, quelli che vivono un rapporto di maggior ‘prossimità’ con gli stranieri”. In ragione dello squilibrio demografico tra l’Italia e gli altri paesi europei, da un lato, e le popolazioni rivierasche e dell’intera Africa dall’altro, “accoglierli tutti – scrivono gli autori - è relativamente più facile che respingerli tutti, ma anche più agevole e utile che selezionarli”. Secondo Manconi e Brinis “ la pressione sui nostri confini è infinitamente più forte delle fragili barriere, comprese quelle goffamente militari o pesantemente repressive, che si decida di allestire. E soprattutto, accoglierli tutti è, sotto ogni profilo, più conveniente che respingerli. Più vantaggioso dal punto di vista economico. Più rassicurante da quello sociale. Più efficace sul piano dell’integrazione e della convivenza”.

 

Troppi allarmi sul «turismo sociale» minacciano la cittadinanza europea
Corriere della sera, 28-10-2013
Maurizio Ferrara
Vent’anni fa un coraggioso giudice della Corte europea di giustizia, Francis Jacobs, affermò in una sentenza che la cittadinanza dell’Ue conferisce diritti inviolabili di non discriminazione. Quando valica una frontiera nazionale, chiunque possegga il passaporto color porpora può dire civis europeus sum e invocare il rispetto di questi diritti.
La sentenza uscì appena dopo il Trattato di Maastricht (che istituiva, appunto, la cittadinanza Ue). Da allora nell’Unione sono entrati 16 nuovi Paesi e si sono firmati tre nuovi Trattati: Amsterdam, Nizza e Lisbona. Quest’ultimo ribadisce a chiare lettere i diritti di libera circolazione e non discriminazione. Ma la formula civis europeus sum sta rapidamente perdendo la propria efficacia. A essere sotto attacco è soprattutto l’accesso al welfare da parte dei non nazionali provenienti da altri Paesi membri. I governi di Berlino, Londra, Vienna e l’Aia hanno chiesto formalmente a Bruxelles di cambiare le norme vigenti per combattere il cosiddetto «turismo sociale»: gli spostamenti da un Paese all’altro in cerca dei sussidi più generosi. Dietro la richiesta si nasconde un malumore profondo, che riguarda il processo di integrazione in quanto tale. E che spinge a ristabilire i tradizionali confini, a «proteggere i diritti e gli interessi legittimi dei nativi» — come candidamente recita la lettera dei quattro governi. In tempi di crisi, malumori e paure in seno all’opinione pubblica sono comprensibili. Ma se i governi le cavalcano, cosa resterà dell’Europa? Se va bene, solo le fredde regole di «mutua sorveglianza» fiscale, neanche fossimo in una prigione. Se va male, potrebbe non restar nulla, i sogni e gli sforzi di tre generazioni andrebbero irrimediabilmente perduti.
Tutti i dati e le ricerche disponibili indicano che non c’è nessun turismo sociale di massa. Vi è, certo, un discreto numero di cittadini Ue che risiedono in Paesi membri diversi dal proprio: la loro quota è di circa il 2%, con punte sopra il 3% in Irlanda, Belgio, Gran Bretagna, Austria e Germania. La crisi ha accresciuto un po’ i flussi da Sud a Nord e da Est a Ovest. Si tratta però di persone attratte da opportunità di lavoro, anche manuale. Se prendiamo come riferimento la popolazione residente con più di 15 anni, scopriamo che sette migranti Ue su dieci hanno un’occupazione, di contro a 5 o 6 nazionali. Se perde il lavoro, il migrante riceve il sussidio pubblico solo se ha pagato tasse e contributi, esattamente come i nazionali. I governi firmatari della lettera sostengono che l’obiettivo dei cosiddetti «turisti sociali» sono soprattutto le prestazioni di assistenza finanziate dal gettito fiscale, come il reddito minimo. La Commissione europea ha però calcolato che i migranti Ue sono meno del 5% del totale di beneficiari di queste prestazioni. In alcuni casi (quelli che fanno più notizia) ci sono frodi o abusi. Ma si tratta di fenomeni che si possono contrastare con piccoli accorgimenti legislativi e controlli più efficaci. Non vi è sicuramente bisogno di mettere sotto accusa i principi di parità di trattamento e di libera circolazione — i quali peraltro, sempre secondo lo studio della Commissione, fanno bene anche al Pil.
Che dire degli immigrati che provengono dai Paesi extra Ue? I barconi di Lampedusa hanno di nuovo acceso i riflettori su di loro. Dopo il cordoglio e la compassione, sono ricominciate a circolare accuse di «opportunismo sociale» ancor più pesanti rispetto a quelle rivolte ai migranti Ue. Anche nel caso degli extracomunitari e del loro accesso al welfare valgono però le stesse considerazioni relative ai migranti Ue. Un recente studio Ocse stima che nella maggioranza dei Paesi europei (Italia compresa) il saldo fra ciò che gli extracomunitari versano allo Stato e ciò che ricevono in termini di prestazioni e servizi è meno favorevole rispetto a quello dei nazionali. Il contributo dell’immigrazione al Prodotto interno lordo (Pil) è inoltre positivo: nessun «pasto gratis», dunque.
Comprendere questa realtà può essere contro-intuitivo. E capire non significa dover accettare tutti gli effetti che l’immigrazione da Paesi lontani e diversi produce sul piano sociale, culturale e dei costumi. Teniamo però presente che le dinamiche di globalizzazione riservano a noi europei un futuro di «mixité»: una di mescolanza fra popoli e culture che potremo temperare e regolare ma non evitare. Per questo è fondamentale che l’Ue resista oggi ai ripiegamenti nazionalistici che avvengono al proprio interno. La civiltà che ha inventato l’idea di cittadinanza non può fallire nel trasferirla ora dal livello nazionale a quello sovranazionale.
Sull’edificio che ospita il Consiglio dei ministri Ue, a Bruxelles, spicca la scritta latina Consilium. Aggiungere la formula civis europeus sum potrebbe finalmente dare un’anima e una missione simbolica a questa istituzione, che oggi parla solo con i governi e ha smarrito la capacità di comunicare con i sui più importanti interlocutori. I cittadini d’Europa, appunto.



Come lo vedreste un poliziotto nero nella scorta di un ministro?
Corriere.it, 28-10-2013
Rania Ibrahim
Un paio di sere fa, durante una cena, presa dalla discussione fattasi incalzante, chiesi ai presenti se per caso si ricordassero almeno il nome di un ministro del governo Letta. Il verdetto era inequivocabile, pole position indiscussa: Kyenge, “quella nera”. In effetti, dal giorno del giuramento, la Kyenge senza tanti giri di parola ha rubato la scena a tutti. Dubito sia stato il suo intento, ma forse era proprio questo quello che voleva la politica: un mezzo di distrazione di massa. O realmente intendeva far passare un messaggio forte, di rottura, un tabù da superare?
A tal proposito, a Mantova in un incontro durante il Festival della Letteratura dove si è parlato di Diversity e Law Enforcement, il regista Fred Kuwornu, autore del documentario 18 Ius Soli, ha chiesto alla ministra Cécile Kyenge presente in sala di darsi da fare per una riforma a costo zero: ovvero, spostare almeno 40 dei ragazzi di seconda generazione che già servono nelle forze dell’ordine nelle scorte di tutti i ministri compreso le guardie al Quirinale e Palazzo Chigi, partendo anche dalla sua scorta, atto simbolico ma di grande “rappresentazione”, nel vedere finalmente poliziotti, finanzieri e carabinieri “colored” servire e proteggere le alte cariche della Repubblica e dello Stato come accade in tutti i principali Paesi Europei.
    Devo ammettere che con questa richiesta non mi trovo in sintonia con il regista Kuwornu.
Insomma, ho sempre criticato il termine quote rosa, figuriamoci le quote nere o colored. Non sarebbe meglio parlare sempre e solo di meritocrazia?  E’ questo di cui abbiamo più bisogno e che latita da sempre nelle dinamiche lavorative e di recruitment in Italia: pur capendo l’importanza e la forza dei simboli, credo che questi ragazzi si meritino innanzitutto di essere trattati come tutti gli altri loro colleghi, proprio per rispettare la loro identità di italiani, senza sottolineare per l’ennesima volta nella loro vita delle differenze. Decidere chi va in un ruolo piuttosto che in un altro in base al colore della pelle o l’origine etnica è una risposta che si ispira al marketing invece che alla civiltà. È tutto maquillage. Questi discorsi vanno bene al cinema o in televisione, il colore non può diventare una corsia preferenziale, la battaglia è quella sull’essere tutti ugualmente neutri, altrimenti perché non mettere più donne nelle scorte? Perché non più buddisti? E perché non più musulmani? Effettivamente, se questi ragazzi fanno già parte delle forze dell’ordine vuol dire che sono abili e pronti a percorrere la loro carriera con i loro mezzi.
    Le quote “colored”, a mio avviso, sono un concetto molto pericoloso.
Ci stiamo abituando a vedere colori e tratti somatici diversi ovunque, dopo tanti anni finalmente non solo tra le mura delle case bene delle famiglie abbienti o in qualche fabbrica del Nord Est, ma presto anche nelle aziende statali, nei negozi e supermercati, ma anche tra le corsie degli ospedali dove sono già presenti e nelle banche dove sono molto richiesti. Presto potremmo anche venire bloccati, o arrestati e ammanettati da uomini con divise delle forze dell’ordine di origini straniere…e scommetto che qualche insulto scapperà!
    Secondo voi avere poliziotti colored o di etnie differenti in ruoli visibilmente di rappresentanza sarebbe un fatto positivo?
Metterli in copertina, mostrarli come in una vetrina, aiuterebbe ad abbattere i muri del pregiudizio, o sarebbe causa di veleni, frustrazioni e tanto razzismo latente? Se un giorno il postino di origine ghanese, Rom o magheribina suonerà il campanello di casa vostra, aprirete subito senza esitazione o …vi rimbomberà in testa il famoso “non aprite quella porta”??!!!



A Colle Val d’Elsa inaugurata la seconda più grande moschea d’Italia.
Nel centro anche eventi culturali programmati da una commissione mista civile-religiosa nominata dal comune e dalla comunità islamica.
Immigrazioneoggi, 28-10-2013
È stata inaugurata venerdì scorso la moschea di Colle Val d’Elsa. L’edificio, sormontato da un piccolo minareto in cristallo e dalla mezzaluna, si estende tra i vigneti e gli ulivi del Chianti per una superficie di circa 300 metri quadrati. Potrà accogliere quasi 400 fedeli ed è costata 1,5 milioni, provenienti principalmente dalla fondazione Qatar Charity e dal Monte dei Paschi. L’interno è agghindato con un tappeto egiziano azzurro, un lampadario dorato dall’Arabia Saudita, colonne verdi e decorazioni in gesso marocchino.
L’interreligiosità sarà il fiore all’occhiello della moschea, dove saranno organizzati dibattiti e incontri promossi dal comitato scientifico paritetico composto da otto saggi, quattro nominati dalla comunità islamica e quattro nominati dal Comune di Colle Val d’Elsa. È la prima moschea italiana dove la programmazione degli eventi è cogestita da autorità civili e religiose.
Decine i fedeli musulmani, alcuni anche italiani, presenti all’inaugurazione, felicissimi di poter pregare in un luogo di culto “finalmente adeguato”. Sono circa 30 mila i musulmani nella provincia di Siena. Provengono da Marocco, Algeria, Kosovo, Albania, Tunisia, Senegal e molti di loro hanno figli nati in Italia.
Alla cerimonia d’inaugurazione, oltre all’imam Elzir, hanno partecipato i rappresentati di istituzioni e confessioni religiose: il rabbino di Firenze Joseph Levi e la presidente della comunità ebraica fiorentina Sara Cividalli, il prefetto di Siena Renato Saccone e il vescovo di Siena Antonio Buoncristiani.

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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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