Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

24 aprile 2012

Napolitano in moschea: grande attenzione alla primavera araba
il sole, 24-04-2012
Karima Moual
Per la comunità musulmana in Italia la visita fatta ieri dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla grande moschea di Roma si traduce in una frase: è un momento storico e simbolico di grande importanza e riconoscimento. Lo ricorda da subito molto bene l'ambasciatore dell'Arabia Saudita, e presidente dei Centro islamico, Saleh Mohammed alGhamdi che ripercorre la storia del centro dagli anni 70. Si è passati, ricorda l'ambasciatore, dalla posa della prima pietra da parte del presidente Sandro Pertini nell'84 alla visita di Oscar Luigi Scalfaro nel '97, in un continuum ideale fino alla presenza di Napolitano.
La platea nel salone per le conferenze della Grande moschea era gremita dei rappresentanti della comunità islamica italiana e del corpo diplomatico delle ambasciate arabe. Napolitano non prenderá la parola dal palco, ma è un illustre ospite che ascolterà Ad accompagnarlo i ministri Anna Maria Cancellieri e Andrea Riccardi. È quest'ultimo a prendere la parola per ricordare come «la sfida del futuro in realtà sia proprio quella della convivenza tra diversi». «Il presidente Scalfaro affermò - ricorda Riccardi - che nella Roma dei Cesari e dei papi c'è posto per tutti. Qualcuno aveva previsto dopo l'11 settembre lo scontro tra Occidente e Islam. Dieci anni dopo la primavera araba ha disegnato un nuovo scenario: le ragioni della convivenza sono più forti».
Napolitano in un breve commento fa riferimento alla Primavera araba. Poniamo «grande attenzione ai nuovi governi - dice - che si formano nei paesi della Primavera araba, come quello tunisino» e rimarca la volontà e i suoi sforzi «per rafforzare i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo» con un riferimento all'ormai prossima visita in Tunisia. A fargli da eco è Abdellah Redouane, segretario del Centro Islamico della grande moschea: «Tutte le prospettive - spiega Redouane - indicano che il flusso migratorio continuerà nel futuro e l'Europa rimarrà una delle destinazioni privilegiate. Ecco perché se sono importanti il lavoro la casa la scuola e la lingua, è altrettanto importante e urgente esercitare liberamente il proprio culto in luoghi dignitosi». E il riferimento sul dossier delle moschee in Italia non è poi cosi sottile. È ancora sull'integrazione che vanno le parole dell'ambasciatore dell'Arabia Saudita e alGhamdi, al presidente Napolitano: i musulmani in Italia sia italiani che immigrati sono una delle componenti più genuine della società italiana ed è loro speranza e nostro auspicio, che vengano riconosciuti il sostegno e le agevolazioni che la Costituzione italiana ha concesso alle altre religioni e culture». Il riferimento è all'intesa con lo Stato italiano, un traguardo a cui la comunità musulmana aspira ormai da tempo ma senza ancora riuscirci: E quale momento migliore per rilanciarlo se non in presenza del presidente della Repubblica.



Napolitano alla Moschea di Roma «Grande attenzione alla Primavera araba»
Il Presidente al Centro islamico culturale d'Italia. Una tunisina lo ferma e gli chiede del figlio scomparso, e lui: «Non pianga»
Riccardi: comunità musulmana non è meteorite
Corriere.it, 23-04-2012
ROMA - Poniamo «grande attenzione ai nuovi governi che si formano nei Paesi della Primavera araba, come quello tunisino». Sono le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in visita lunedì mattina alla Grande Moschea di Roma e al Centro islamico culturale d'Italia. Il capo dello Stato è arrivato accompagnato dai ministri Cancellieri e Riccardi, e dal presidente delle Enciclopedie italiane, l'ex premier Giuliano Amato.
LA VISITA - Dopo Sandro Pertini, che posò la pietra inaugurale, Oscar Luigi Scalfaro, che presenziò l'inaugurazione, lunedì è Giorgio Napolitano a varcare i cancelli della Grande moschea di Roma. Si tratta di una breve visita alla sala della preghiera e poi della partecipazione a una cerimonia commemorativa. Il presidente della Repubblica è accolto dagli applausi della comunità islamica romana.
Napolitano arriva alla Moschea (Ansa)Napolitano arriva alla Moschea (Ansa)
«SOSTEGNO A COMUNITA' MUSULMANA» - Ad accogliere il presidente, l'ambasciatore dell'Arabia Saudita in Italia Mohammad Al Ghamdi, che è anche presidente del Centro culturale islamico: «Le diamo il benvenuto, presidente, ricordandole che i musulmani in Italia sono una delle componenti più genuine della società italiana, nota per la sua sconfinata tolleranza, ospitalità e cordialità nei confronti dei popoli arabi e islamici». Poi, aggiunge: «Speriamo di ricevere il sostengo e le agevolazioni concesse alle altre religioni e culture, come previsto dalla Costituzione. Confidiamo che questo contribuisca a promuovere l'integrazione».
«NON PIANGA» - Una donna tunisina ha fermato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso della sua visita alla Grande moschea di Roma, e in francese gli ha chiesto di aiutarla per avere notizie del figlio immigrato dalla Tunisia e giunto in Italia, di cui ha perso le tracce. Il capo dello Stato l'ha ascoltata con attenzione e le ha risposto in francese: «Non pianga». La donna ha quindi mostrato la foto del ragazzo di 20 anni, il cui nome è Mohammad Rawati. La donna, Mahrzia El Rawafi, si è poi fermata con i giornalisti e ha spiegato che Mohammad Rawati è arrivato a Lampedusa l'11 marzo del 2011 insieme ad altri 40 immigrati per poi essere trasferito a Trapani. La donna, in Italia da tre mesi per cercare il figlio, è certa di aver visto le immagini di Mohammad al Tg5 durante un trasferimento in autobus. Da allora la signora non ha alcuna notizia ma - riferisce ai cronisti - due immigrati che sono arrivati con il figlio a Lampedusa dicono che il ragazzo fino a poco tempo fa era ancora con loro a Trapani.
«A ROMA C'E' POSTO PER TUTTI» - «La visita alla moschea è una cosa molto importante. La comunità musulmana in Italia non è un meteorite, l'architettura della moschea di Roma è un mix di elementi romani e islamici». Così il ministro per la Cooperazione e Integrazione, Andrea Riccardi, durante il suo intervento al centro culturale islamico alla presenza del presidente Napolitano. «Il presidente Scalfaro - prosegue Riccardi - dichiarò che nella Roma dei cesari e dei papi c'è posto per tutti. Roma è una città che accoglie e costruisce. Dal 1995 la Capitale accoglie questa moschea e Roma è un modello di integrazione».
IN TUNISIA - Napolitano ha aggiunto di essere in piena sintonia con le parole del ministro per la Cooperazione: «Mi riconosco nelle parole di Riccardi - ha detto il Capo dello Stato - cercheremo di dare sviluppo a queste istanze con atti concreti». «Come sapete - ha concluso - dopo la Giordania sarò in Tunisia per rafforzare i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo».



Malmström: corruzione, cancro che l’Italia deve saper estirpare
?Avvenire, 24-04-2012
Vincenzo R. Spagnolo
«Gli sforzi del governo Monti per disegnare nuove norme anticorruzione sono lodevoli e necessari. E la riforma del finanziamento ai partiti è importante. Spero che l’esecutivo italiano riesca a combatta con rigore la corruzione e a lavorare in favore di una trasparenza nella gestione del denaro pubblico. La corruzione è un cancro per le democrazie, accresce la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e fa sperperare decine di milioni di euro l’anno.
Non affligge comunque solo l’Italia. Entro il 2012, redigerò un rapporto con suggerimenti concreti per gli Stati membri sulla questione». Nella quiete ovattata degli uffici della Commissione europea, coi doppi vetri delle finestre a fare da schermo sonoro contro i borbottii del traffico romano, l’inglese asciutto del Commissario agli Affari Interni, Cecilia Malmström, svedese di Stoccolma, risuona senza incertezze. È atterrata nella Capitale per una serie di rendez-vous coi ministri di Interno e Cooperazione, Anna Maria Cancellieri e Andrea Riccardi, e col capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sulle prospettive dell’agenda europea in materia di sicurezza, flussi migratori e lotta alla corruzione. Prospettive che, in questo colloquio esclusivo con Avvenire, ha accettato di delineare.
Pochi giorni fa i ministri dell’Interno francese e tedesco, Gueant e Friedrich, hanno indirizzato una lettera alla Ue per chiedere la possibilità di sospensione, fino a un mese, delle norme di Schengen sul libero transito di persone e merci. Lei cosa ne pensa?
Ho letto la lettera. Trovo singolare la scelta d’inviarla durante la campagna elettorale per le presidenziali francesi. Ad ogni modo, non va nello spirito del trattato di Schengen. Ne abbiamo discusso in Commissione: la chiusura delle frontiere deve essere una extrema ratio e per tempi brevi. Inoltre, pensiamo che si debba implementare il sistema di spazio comune europeo e non frammentarlo su decisione dei singoli governi. Una riforma di Schengen ci sarà, i negoziati proseguono. La direzione per noi prevede more Europe, not less Europe. La presidenza danese sta facendo un buon lavoro, ma ci vorrà tempo. È difficile mettere d’accordo tutti gli Stati membri.
Ma la proposta di interrompere Schengen per periodi lunghi è sul tappeto o no?
Non è ciò che abbiamo proposto. Non è sano che i singoli Stati possano decidere da soli. Un confine fra due Paesi Ue è comunque un confine europeo. Interrompere Schengen non serve come scudo contro i flussi migratori irregolari, ci sono altri strumenti a disposizione.
Un anno fa lei ebbe una dura dialettica con l’allora ministro dell’Interno italiano, Maroni, dopo i respingimenti, poi condannati dalla Corte di Strasburgo. Tuttavia, il problema degli arrivi dal Nord Africa è rimasto e ricade sui Paesi frontalieri. Cosa farà l’Ue per affrontarlo?
Riconosciamo che l’Italia sia sotto pressione per gli arrivi di migranti, non solo a Lampedusa. Su altre rotte, lo sono anche Grecia e Spagna. Proseguiamo con l’opera di pattugliamento coordinata da Frontex, ma sosteniamo anche il governo italiano nel dialogo con i Paesi di provenienza. Entro l’estate sigleremo un accordo europeo di cooperazione con la Tunisia, una mobility partnership in tema di visti e collaborazione di polizia. Con la Libia, nell’attuale situazione, è più difficile stringere accordi. E ho fiducia che le primavere arabe spalanchino nuove possibilità di dialogo con l’altra sponda del Mediterraneo, con l’Egitto ad esempio.
Condividere il fardello dell’accoglienza, col cosiddetto "burden sharing", è ancora un obiettivo europeo?
Lo è. Preferiamo chiamarlo responsibility sharing, ma è difficile obbligare i singoli Stati membri a condividere un’unica posizione.
Lei si batte per un sistema europeo di asilo. Quali sono i prossimi passi?
Non si può accogliere tutti. Ma chi non ha diritto di soggiornare, deve poter essere rimpatriato con dignità e non con metodi brutali. Inoltre, oggi 10 Stati accolgono il 90% dei richiedenti asilo e ciò non è esattamente un peso condiviso. Per l’asilo è opportuno un sistema comune europeo, con una cabina di regia unica, per perequare gli ingressi. Entro l’anno spero che giungeremo a una decisione comunitaria.
La preoccupa il persistere di sentimenti nazionalisti e xenofobi in Europa? E come giudica la forte affermazione al primo turno in Francia del Fronte nazionale di Marine Le Pen?
Inquieta constatare che in diversi Paesi ci siano ancora rigurgiti discriminatori. In Norvegia, il processo al terrorista Anders Breivik ha rinfocolato retoriche xenofobe. Ma anche la crisi economica fomenta gli animi a cercare un capro espiatorio, ad esempio negli immigrati. Accade in Francia, Italia, Olanda, Ungheria, Danimarca e Svezia, il mio Paese. Ci sono leader politici disinvolti, che speculano sulle insicurezze della gente per incassare voti, e altri leader moderati che non si oppongono con forza. Ciò disegna un quadro preoccupante.
A più di un lustro dalle bombe di Londra e Madrid, il terrorismo fondamentalista è ancora un problema per l’Ue? La strage di Tolosa, in Francia, sembra confermarlo.
La minaccia ora è quella dei terroristi fai-da-te, i lupi solitari che si imbevono di radicalismo, si addestrano su Internet e progettano stragi. Per prevenirla, non bastano le leggi e l’intelligence. Serve una rete sociale di comunità locali, con la cooperazione quotidiana di leader religiosi, educatori e cittadini, per creare anticorpi adeguati.



Immigrati: Malmstrom, priorita' asilo europeo e patto con Tunisi
(ASCA) - Roma, 24 apr - Asilo europeo e patto con Tunisi per risolvere la questione immigrazione irregolare in Europa. La ricetta arriva dal Commissario europeo per gli Affari Interni, Cecilia Malmstrom, che, intervistata da ''Avvenire'', torna a parlare del problema sbarchi a Lampedusa e delle norme di Schengen che, pochi giorni fa, i ministri dell'Interno francese e tedesco, Gueant e Friedrich, in una lettera alla Ue, hanno chiesto di sospendere fino a un mese.
''Ho letto la lettera - spiega il Commissario -. Trovo singolare la scelta d'inviarla durante la campagna elettorale per le presidenziali francesi. Ad ogni modo, non va nello spirito del trattato di Schengen. Ne abbiamo discusso in Commissione: la chiusura delle frontiere deve essere una extrema ratio e per tempi brevi. Inoltre, pensiamo che si debba implementare il sistema di spazio comune europeo e non frammentarlo su decisione dei singoli governi. Una riforma di Schengen ci sara', i negoziati proseguono. La direzione per noi prevede more Europe, not less Europe. La presidenza danese sta facendo un buon lavoro, ma ci vorra' tempo. E' difficile mettere d'accordo tutti gli Stati membri''. In ogni caso, ''interrompere Schengen non serve come scudo contro i flussi migratori irregolari, ci sono altri strumenti a disposizione''. In merito alle difficolta' del Belpaese, Malmstrom spiega di riconoscere che ''l'Italia sia sotto pressione per gli arrivi di migranti, non solo a Lampedusa.
Su altre rotte, lo sono anche Grecia e Spagna. Proseguiamo con l'opera di pattugliamento coordinata da Frontex, ma sosteniamo anche il governo italiano nel dialogo con i Paesi di provenienza. Entro l'estate sigleremo un accordo europeo di cooperazione con la Tunisia, una mobility partnership in tema di visti e collaborazione di polizia. Con la Libia, nell'attuale situazione, e' piu' difficile stringere accordi.
E ho fiducia che le primavere arabe spalanchino nuove possibilita' di dialogo con l'altra sponda del Mediterraneo, con l'Egitto ad esempio''.
Certo e', conclude, che ''non si puo' accogliere tutti. Ma chi non ha diritto di soggiornare, deve poter essere rimpatriato con dignita' e non con metodi brutali. Inoltre, oggi 10 Stati accolgono il 90% dei richiedenti asilo e cio' non e' esattamente un peso condiviso. Per l'asilo e' opportuno un sistema comune europeo, con una cabina di regia unica, per perequare gli ingressi. Entro l'anno spero che giungeremo a una decisione comunitaria''.



Profughi nordafricani: denuncia dei Comuni solidali della Calabria, otto mesi di ritardo nei fondi, i fornitori bloccano i crediti.
I sindaci di Riace e Acquaformosa scrivono al ministro Riccardi “rischio di grave emergenza di convivenza civile”.
Immigrazioneoggi, 24-04-2012
Oltre otto mesi di ritardo nei pagamenti, fornitori che non fanno più credito e rischio per l’approvvigionamento dei generi alimentari. È la drammatica situazione dell’accoglienza dei profughi nordafricani denunciata in una lettera al ministro Riccardi dalla rete dei Comuni solidali della Calabria.
I primi cittadini scrivono quanto sta avvenendo in due piccoli Comuni calabresi: Riace, in provincia di Reggio Calabria, e Acquaformosa (Cosenza). Riace, in particolare, ospita 120 profughi. “Anche se ritardi nel trasferimento dei fondi per l’accoglienza sono sempre stati frequenti – si legge nella lettera – una situazione come quella attuale non si è mai verificata. I ritardi stanno mettendo a serio rischio la serena convivenza, fino a creare una grave emergenza di convivenza civile dovuta al rifiuto da parte dei fornitori storici di generi di prima necessità (alimentari, farmacie ecc.) di continuare a far credito”.
I sindaci dei due Comuni denunciano anche il fatto che i richiedenti asilo devono aspettare mesi prima di essere convocati dalla Commissione territoriale che deve valutare la loro domanda. Inoltre, scrivono “quasi il 70% delle domande vengono respinte senza neppure vedere riconosciute le esigenze di protezione umanitaria. Si tratta di un approccio ingiustificatamente restrittivo che non considera in modo adeguato che gli attuali profughi dalla Libia sono fuggiti da una guerra (talvolta imbarcati con la forza dalle milizie di Gheddafi) nel corso della quale hanno subito gravi traumi”.



Immigrati e media, il caso Italia
L'Expresso, 23-04-2012
Emilio Fabio Torsello
Sui giornali e in tv si parla sempre di 'emergenza' e di 'clandestini'. Quasi mai della loro vita nel nostro Paese. Ad esempio, voi sapete che cosa sono i 'kalifoo ground'?
Di Castel Volturno si ricorda solo la strage, di Rosarno la rivolta. Di cosa siano i 'kalifoo ground', cioè le rotonde dove trovare schiavi a giornata, invece, non si sa quasi nulla. Eppure ce ne sono tante nei dintorni di Napoli e Caserta, ma anche a Roma, a Milano, nel Sud Pontino, nel Salento, nel Foggiano, a Palazzo San Gervasio in Basilicata, in ogni angolo nascosto o isolato d'Italia, vicino ai campi o nei pressi degli smorzi.
E le rotonde sono tutte uguali, tutte: la mattina presto si popolano di nugoli di immigrati che aspettano il caporale di turno. Qualche ragazzo, per non perdere il posto, la notte si riduce a dormire con il sacco a pelo nei pressi del 'kalifoo ground.'
Storie, vicende di vita che a fatica trovano spazio sui giornali locali e ancor meno sulle pagine nazionali, nonostante si tratti di una realtà di sfruttamento capace di alimentare buona parte del Prodotto Interno Lordo italiano (tanto caro alle statistiche ufficiali). E quando queste realtà vengono raccontate - per casi di cronaca spesso eclatanti - si parla semplicemente di 'clandestini', senza approfondire le diverse fattispecie di migranti, le loro storie, le loro vite, spesso le loro morti. Mentre poco o nulla si sa su quanti arrivano in Italia con visti turistici e poi spariscono, o delle centinaia di 'ballerine' che arrivano dall'Africa o dai Paesi dell'Est con un visto «per motivi di spettacolo» e poi fatte sparite nel budello nero della prostituzione.
A osservarlo dall'esterno, quello dell'informazione italiana che negli ultimi decenni ha dovuto fare i conti con l'immigrazione clandestina appare spesso come un cortocircuito che non riesce a trattare in modo profondo il fenomeno dei flussi migratori, riducendo tutto a una dimensione emergenziale che decontestualizza un problema complesso e delicato.
Per capire come può migliorare sotto questo aspetto l'informazione italiana e come raccontare l'immigrazione, al Festival del Giornalismo di Perugia il panel "Immigrazione e Media: il caso Italia" organizzato dalla redazione del giornale on line Diritto di Critica: riunirà Laura Boldrini (portavoce dell'Alto Commisario per i Rifugiati dell'Onu) Eric Jozef (corrispondente in Italia per Liberation) e Corrado Giustiniani (cronista del Messaggero ed esperto di immigrazione).
Dalla Carta di Roma - voluta dall'Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa all'indomani della strage di Erba come strumento deontologico per guidare i cronisti nel raccontare l'immigrazione - ai fatti che hanno caratterizzato questi ultimi anni a cavallo tra l'epoca Berlusconi e il governo tecnico, l'incontro analizzerà quanto è stato detto e scritto fino ad oggi sull'immigrazione, senza dimenticare le vicende della Vlora fino ad arrivare all'ormai nota "emergenza Lampedusa", alla sua gestione e all'impronta che negli italiani è rimasta del fenomeno migratorio anche a seguito dei racconti testimoniati dai giornali.



Nel Paese dov’è sbocciata la Primavera araba la sfida al fondamentalismo islamico ora è arrivata nelle università
Tunisi, la battaglia del velo Contro l’uso del niqab e la sharia
la Repubblica, 24-04-2012

Giampaolo Cadalanu
L´ascesa dei fondamentalisti rischia di snaturare le conquiste della rivoluzione. In nessun luogo più che nelle aule dei campus si decide il futuro laico del Paese Fra scontri con la polizia, sit-in di studenti e scioperi della fame, infuria la battaglia per il niqab, il velo integrale, e l´imposizione della sharia. Con una presenza dei salafiti sempre più ingombrante
A Manouba gli estremisti chiedono lezioni separate per maschi e femmine
Accanto alla bandiera tunisina qualcuno ha issato quella nera con i versi del Corano
Una folla esultante ha accolto l´arrivo di un predicatore bandito dal governo
Molti temono che una nuova dittatura confessionale si insedi sulle ceneri del vecchio regime
Nei corridoi della facoltà di Scienze umane, Sausen Labidi chiacchiera con un compagno di corso seduto su una scrivania. L´abito tradizionale islamico la copre come la tonaca di una suora, spuntano solo il viso sottile e la punta delle scarpe. Lui, invece, esibisce un giubbotto di pelle, scarpe da ginnastica e un berrettino da baseball girato all´indietro. «Sono musulmana, mi vesto così. Ma sono anche tunisina, e orgogliosa di rispettare le regole del mio Paese. Se in aula il viso deve essere scoperto, per me va bene». Il velo va bene, ma anche sulle altre richieste dei salafiti Sausen ha le idee chiare: «Hanno proposto lezioni separate per maschi e femmine, credo che sia una buona idea. Sa, uno studioso britannico ha scoperto che le donne in genere sono più produttive dal punto di vista intellettuale quando non ci sono uomini presenti. No, qui ovviamente la religione non c´entra nulla».
A Manouba, una delle due università di Tunisi, gli studenti vorrebbero raffreddare le polemiche delle scorse settimane: «Uno studente salafita ha voluto appendere accanto a quella tunisina anche la bandiera nera dei fondamentalisti, con i versi che dicono "Non c´è altro dio che Dio, e Maometto è il suo profeta". Poi però, qualcuno ha tolto la bandiera tunisina, e le autorità universitarie sono intervenute», racconta Rebah, studente di Lingue in jeans, con la barba appena accennata. Poco più lontano, Mohamed esibisce invece una barba lunga, l´abito tradizionale e la cuffia bianca da preghiera. Chiarisce subito il credo suo e del suo gruppo: «Noi vogliamo studiare l´Islam. Vogliamo che la Tunisia adotti la sharia. Non seguiamo il Libro, vogliamo seguire l´esempio del Profeta e dei suoi amici». La Salafia, insomma.
Mohamed ha 27 anni ma nel viale alberato di Manouba cammina un po´ a fatica. Forse è un ricordo dei quattro anni che ha passato nelle galere di Ben Ali, perché durante il regime era proibito fare proselitismo religioso all´università.
Dopo la rivoluzione che ha dato l´avvio alla "primavera araba", però, gli integralisti hanno cercato un nuovo ruolo, muovendosi in modo molto aggressivo e cercando di influenzare Ennahda, il partito islamico moderato al governo. E il fronte dell´università è il più caldo. A gennaio cinque salafiti hanno avviato uno sciopero della fame per rivendicare il diritto delle studentesse a portare anche a lezione il niqab, velo integrale che copre anche il viso. A marzo i fondamentalisti hanno avviato un sit-in nel campus di Manouba, cercando di far boicottare le lezioni fino a quando il divieto di portare il niqab fosse stato cancellato. Il preside Habib Kadzaghli ha denunciato di essere stato «sequestrato», anche se forse gli è stato solo impedito di accedere al suo ufficio. Gli studenti laici hanno risposto con una manifestazione nel centro di Tunisi, con cartelli che dicevano: "No alle catene, no al velo, la scienza deve essere libera". Ma nei giorni scorsi i salafiti hanno di nuovo interrotto le lezioni, insistendo sul velo e chiedendo anche un luogo di preghiera all´interno dell´università.
Il ministro dell´Istruzione superiore Moncef Ben Salem, che fa parte del partito islamico Ennahda, sospetta che sia stata l´intransigenza del preside a far esasperare i problemi. «In tutto il paese c´è un centinaio di ragazze che usano il velo integrale. Ma le contestazioni sono scoppiate solo a Manouba», dice. Insomma, per il governo lo scontro all´università è più intemperanza giovanile che reale minaccia fondamentalista.
In realtà la presenza dei salafiti non è limitata alle università ed è sempre più ingombrante nel panorama tunisino. Il governo prende le distanze, garantisce che non si farà imporre nessuna agenda radicale. Said Ferjani, in passato esule politico a Londra e oggi alto funzionario di Ennadha, sottolinea che il governo non accetterà l´imposizione di uno stile di vita da nessuno, ed è pronto a proteggere la scelta individuale delle donne, che sia quella di indossare un burqa o di sfoggiare il bikini.
Ma in concreto la polizia appare troppo tollerante con gesti incendiari, come l´appello ad attaccare la comunità ebraica, pronunciato da un predicatore durante un corteo nel pieno centro di Tunisi. O l´accoglienza all´egiziano Heni Sbai, "bandito" da Ben Ali, il cui arrivo all´aeroporto della capitale è stato "facilitato" se non imposto da una moltitudine minacciosa sotto gli occhi degli agenti, nonostante il religioso sia ancora nella lista delle persone "indesiderabili" in Tunisia. O la provocazione di appendere la bandiera di Hizb Ettahrir, partito semiclandestino e favorevole al Califfato, proprio sull´orologio del centro città, nella ex piazza 7 novembre ora intitolata a Mohamed Bouazizi, il giovane venditore di frutta che diede l´avvio alla rivolta immolandosi nel fuoco a Sidi Bouzid, nel gennaio dell´anno scorso.
Il padre della patria, Habib Bourghiba, aveva imposto in Tunisia una visione rispettosa dell´Islam ma fondamentalmente laica. Si era persino esposto a bere un bicchiere di latte durante il Ramadan, perché Dio chiede la preghiera ma approva ancora di più il lavoro, e chi digiuna è troppo debole per produrre. Ora la ripresa integralista vuole rimettere tutto in discussione. Non tutti sembrano preoccupati: «L´alternativa alla tolleranza con i salafiti sarebbe stato il manganello», fa osservare un alto funzionario occidentale: «Se avesse scelto la repressione, il governo avrebbero dato l´idea che si tornava ai modi del vecchio regime. Non era davvero il caso».
Lina Ben Mhenni scuote la testa: «La verità è che non è cambiato niente. Eravamo in una dittatura, siamo in una dittatura anche oggi». La giovane blogger, protagonista della rivoluzione e candidata persino al Nobel per la pace, parla senza remore al JFK di rue de Marseille, dove servono birra senza problemi: «La prova che non è cambiato niente? È l´uso della violenza sul dissenso, il lancio dei lacrimogeni sui dimostranti pacifici durante le manifestazioni. Sono tornati gli stessi picchiatori dei tempi di Ben Ali, abbiamo foto e video che lo dimostrano. E non ci sono differenze fra Ennahda e i salafiti, sono solo due facce della stessa oppressione».
Poco lontano, sull´avenue Bourghiba, i caffè si svuotano con l´imbrunire. O meglio: gli uomini restano, aggrappati all´ennesima sigaretta, le donne sono già sparite. Durante il giorno l´hijab, il velo che copre solo i capelli, si vede più che in passato. Potrebbe essere conseguenza della maggior libertà, visto che ai tempi di Ben Ali gli entusiasmi islamici erano repressi duramente.
A Manouba, comunque, gli studenti non vogliono nemmeno sentir parlare di tornare indietro sulla libertà di abbigliamento.
Sumaya, che ha scelto di unire l´hijab ai jeans attillati, ha anche un´altra risposta per i salafiti: «La religione mi impone di coprire il capo. È una regola di Dio, e la seguo con orgoglio. Ma la divisione delle classi fra maschi e femmine non va bene. Non ci capiremmo più. E Dio ha detto: parlate tra voi».

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