Non chiamiamoli clandestini

Luigi Manconi

“Afgani pakistani usciti dalla Bibbia cancellati sulla sabbia / Dalla mafia del petrolio negati dal nostro odio che gli volta le spalle e riduce a un errore dello sguardo la loro voglia / di una stanza, di lavorare e partecipare” (Ennio Rega)
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Va da sé che l’Italia non è “un paese razzista”. E c’è da chiedersi se vi sia al mondo un paese definibile come razzista. Non c’è dubbio tuttavia, che vi siano stati sistemi politici organizzati secondo linee di discriminazione razziale, tracciate da conflitti etnici e da legislazioni discriminatorie; ed è altrettanto ovvio che quelle strutture non siano state bandite una volta per sempre, ma tendano a riprodursi. Diverso è il discorso relativo all’orientamento culturale e alla mentalità condivisa della popolazione di uno stato democratico. È qui che la definizione di “paese razzista” sembra davvero difficile da attribuirsi. Qui, certo, possono svilupparsi movimenti xenofobi e scontri etnici; qui possono essere adottate leggi e politiche discriminatorie: ma ancora siamo assai lontani da poter definire “razzista” la popolazione di quello stato. In tutti i paesi europei, negli ultimi due decenni, si sono manifestati movimenti e partiti fondati sull’ostilità nei confronti degli stranieri, che hanno conosciuto alterne fortune elettorali. In Italia il principale partito xenofobo, la Lega Nord, non ha fatto della lotta contro l’immigrazione il suo primo obiettivo, pur collocandolo in cima al proprio programma, ma ha sempre privilegiato il tema della secessione. E, tuttavia, la sua costante polemica contro lo stato centrale ha sempre avuto una sua aggressiva ricaduta nella stigmatizzazione dello straniero; e, dalla cruciale postazione del ministero dell’Interno, nella politica dei respingimenti. Ciò ha fatto della Lega il primo degli imprenditori politici dell’intolleranza. Ovvero coloro che trasferiscono nella sfera politica e utilizzano come risorsa elettorale il disagio prodotto dal faticoso impatto tra residenti e immigrati. Qui sta il nodo cruciale dell’intero problema. L’ansia collettiva nei confronti dello straniero, tanto più in una fase di acuta crisi economica, è un sentimento spiegabile: la traduzione di quel sentimento in conflitto politico è la più scellerata e colpevole delle strategie. Tutto ciò sembra diventare infine chiaro, ma c’è qualcosa che continua a essere costantemente sottovalutato e che rischia di risultare un formidabile fattore di precipitazione delle situazioni di crisi. È la questione del linguaggio. Finalmente si incomincia ad affrontare il tema, ma esso è così  sottile e pervasivo da non essere sempre colto nella sua criticità, in particolare quando si presenta con una sua “innocenza”, dovuta a una supposta neutralità. Ciò riguarda in particolare quello che forse è il termine più utilizzato nel vocabolario dell’immigrazione: clandestino. A questa parola si fa ricorso, da tempo, con speciale riferimento a coloro che sbarcano sulle nostre coste. Vi ricorrono  gli organi di informazione più insospettabili, o perché incapaci di cogliere il terribile peso colpevolizzante che il termine porta con sé, o perché incapaci di sottrarsi all’omologazione linguistica dominante. E così vengono chiamati clandestini i meno clandestini tra tutti i migranti: quanti giungono sulle nostre coste in pieno giorno o sotto la luce abbagliante di fari, riflettori, telecamere e flash, mostrando i loro volti allo sguardo invadente della curiosità dei residenti e di noi tutti, palesemente privi di ogni cosa e totalmente disarmati, nudi o semi nudi, piagati o febbricitanti, comunque assolutamente inermi. Per questi esseri umani, costretti a mostrarsi nella loro “nuda vita”, i democraticissimi e tollerantissimi operatori dell’informazione usano il termine clandestino. Che evoca, piuttosto, la figura di chi agisce nell’ombra,  trama nel buio, ci minaccia alle spalle. È solo un esempio delle peripezie, talvolta perverse, che conosce il linguaggio. Molto opportunamente l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, d’intesa con l’UNHCR, con l’adesione di Arci, Acli, Amnesty International, Centro Astalli, A Buon Diritto e molti altri, ha promosso la cosiddetta Carta di Roma. In essa si affronta la questione della “informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, (…)con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità (…)”. Di conseguenza, i promotori invitano i giornalisti ad “adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri”. Molto giusto. Speriamo che la Carta di Roma, come si dice, non resti sulla carta.
19.12.2011
 
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