Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

11 settembre 2013

Papa Francesco senza scorta al centro Astalli per i rifugiati politici: non abbiate paura delle differenze
Il Messaggero, 11-09-2013
ROMA - «Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze. La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti. Viviamo la fraternità». Lo ha detto il Papa al centro Astalli per i rifugiati in una visita durata più di un'ora. Il Papa era senza scorta: Bergoglio ha utilizzato la consueta "utilitaria" di colore blu che usa nei suoi spostamenti, a bordo della quale c'era come sua personale scorta il capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani.
Ogni rifugiato «porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere» ha detto il Papa: «grazie per le vostre testimonianze forti, sofferte. Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di drammi di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali.
«Grazie, perché difendete la vostra e la nostra dignità umana» ha detto Papa Francesco rivolgendosi direttamente ai rifugiati. Il Papa ha anche espresso critiche sui conventi chiusi chiedendosi: «A cosa serve tenerli così? Dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo». Il Papa ha poi voluto sottolineare la necessità che non basta limitarsi a una forma di elemosina, di garantire a ciascuno «un panino», ma occorre accompagnare con gesti concreti il percorso di integrazione di immigrati, profughi e rifugiati.
Agli operatori del centro Astalli, il Papa ha detto che bisogna «tenere sempre viva la speranza! Aiutare a recuperare la fiducia! Mostrare che con l'accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro, più che una finestra, una porta, e più si può avere ancora un futuro». «Ed è bello - ha aggiunto Bergoglio - che a lavorare per i rifugiati, insieme con i Gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per noi cristiani è espressione dell'amore del Padre in Cristo Gesù. Sant'Ignazio di Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i più poveri nei locali dove aveva la sua residenza a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondò il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede romana fosse in quei locali, nel cuore della città».
Prima di entrare nella mensa del centro Astalli, Papa Francesco si è intrattenuto per alcuni minuti a salutare i rifugiati ospiti della struttura in attesa all'ingresso. Erano presenti il Card. Vicario, S. Em. Agostino Vallini e il Vescovo ausiliare, S.Ecc. Matteo Zuppi, il P. Provinciale d'Italia dei Gesuiti, P.Carlo Casalone S.I., l'Assistente del P. Generale dei Gesuiti per l'Europa Meridionale, P. Joachin Barrero S.I. e P. Peter Balleis S.I., responsabile del servizio dei Gesuiti per i rifugiati internazionale.
All'uscita, il Papa è stato acclamato dalla folla, che a più riprese ha gridato il suo nome, in italiano e in spagnolo. Jorge Mario Bergoglio - che al suo arrivo aveva stretto le mani di tanti immigrati che lo chiamavano dietro le transenne - ha salutato con ampi gesti della mano, prima di salire su una berlina del Vaticano, una Ford Focus blu targata Scv 919, che si è diretta senza scorta motorizzata verso il Vaticano.
Sono state circa 500, tra ospiti, operatori, volontari e amici, le persone incontrate da Papa Francesco. Il Papa - spiega una nota del Vaticano - è giunto all' ingresso del Centro alle ore 15.30, mentre era in corso l'accesso alla mensa dei frequentatori del Centro. È sceso nei locali della mensa, situata nel seminterrato, e ha salutato rifugiati e volontari mentre era in corso la distribuzione del pasto. Poi ha sostato in uno dei locali della mensa, intrattenendosi e colloquiando con una ventina di persone. Quindi è passato per una breve sosta di preghiera nella cappellina del Centro e si è spostato lungo un corridoio interno fino alla Chiesa del Gesù.
Il Papa ha ricevuto il saluto del responsabile del Centro Astalli, Padre Giovanni Lamanna S.I., e di due rifugiati (Adam, sudanese e Carol, siriana), quindi ha rivolto ai presenti il suo discorso. Con la recita di una particolare preghiera - «Tu come loro», composta dal Padre Generale dei Gesuiti, Alfonso Nicolas -, è stato ricordato il Padre Pedro Arrupe, fondatore del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati e sepolto nella Chiesa del Gesù, alla cui tomba il Papa, accompagnato da due rifugiati, ha portato un mazzo di fiori. L'incontro, accompagnato da canti eseguiti dal Coro del Centro, si è concluso con l'offerta di alcuni doni da parte di rifugiati e volontari. Il Papa ha lasciato la Chiesa del Gesù intorno alle ore 17.



«I rifugiati nei conventi chiusi»
Papa Francesco ha visitato, senza scorta, il centro Astalli per gli immigrati. Davanti ai rifugiati e ai volontari ha detto parole impegnative: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e fare soldi. Servono ai rifugiati».
l'Unità, 11-09-2013
JOLANDA BUFALINI
ROMA -Non è il tipo da guardare alla pagliuzza nell'occhio altrui Papa Francesco. C'è un passaggio, alla fine del breve discorso che ha tenuto ieri davanti ai rifugiati e ai volontari del centro Astalli, nella chiesa del Gesü, che fa venire i brividi: «Cari religiosi - ha detto - i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e fare soldi. I conventi vuoti sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Parole forti e programmatiche secondo l'idea di una chiesa povera per i poveri. Del resto erano state forti e scioccanti anche le parole che il Papa aveva appena ascoltato dai rifugiati, il racconto delle storie atroci di chi è arrivato a Roma dal Corno d'Africa, attraverso il deserto e la Libia, per arrivare sulle coste italiane su una carretta del mare, di chi ha perso i compagni di viaggio, o visto distruggere dai mortai la propria casa, la propria città.
Adam ha 33 anni ed è arrivato dal Darfour racconta l'incendio del suo villaggio, dove sono morte nelle fiamme le sorelle piccole di 4 e 6 anni, di come si sia trovato arruolato dai ribelli mentre il fratello maggiore era nell'esercito governativo: «Siamo rimasti paralizzati a fissarci negli occhi - ricorda -. Uno di fronte all'altro. Non ci siamo detti nulla. Io ho buttato in terra il fucile e ho cominciato a scappare. La mia fuga è finita in Italia». Adam si scusa con il Pontefice per il suo pessimo italiano, Francesco risponde di non preoccupassi, che anche il suo italiano non è buono. Adam è emozionato, non trova le parole per dire la felicità di aver raccontato al Papa la sua storia.
Carol è una insegnante siri ana, «i nostri ragazzi - dice - sono stati arruolati o uccisi in una guerra per noi senza senso. Ai nostri figli viene di fatto impedito di andare a scuola. Mandare un bambino in un'aula a studiare vuol dire accettare il rischio di non vederlo tornare vivo». Purtroppo anche in Italia, aggiunge, le sofferenze continuano: «I nostri diritti umani e la nostra dignità sono calpestati dall'indifferenza». «L'integrazione è un diritto», risponde il Papa, «poter essere parte attiva, anche questo è un diritto. Voi rifugiati difendete la vostra e la nostra dignità».
Isabelle è arrivata da Medelline, dove è stata vittima di un sequestro da parte della guerriglia. Il Papa scherza con lei: «Il caffè migliore è qui o in Colombia?»,
La visita privata al centro per i rifugiati che ha sede in via degli Astalli, alle spalle della Chiesa del Gesù, è iniziata dalla fila per la mensa, che ogni giorno prepara 400 pasti, è proseguita all'interno, dove gli immigrati hanno raccontato al Papa le loro storie: il giornalista perseguitato e sfuggito alla morte in Camerun, l'ingegnere metallurgico nigeriano, il giocatore della nazionale di calcio somala, i ragazzi afghani, i Cristiani perseguitati in Pakistan.
Il Papa ascolta e poi risponderà a tutti, nell'incontro nella chiesa madre dei gesuiti, dove è la tomba di padre Arrupe, fondatore del centro di accoglienza. «Solidarietà - dice - è una parola che fa paura nel mondo sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia. Ma è la nostra parola! Servire significa accogliere le demande di giustizia e di Speranza per cercare insieme delle strade concrete di liberazione». Si rivolge a Roma, alle istituzioni, perché «nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto alla integrazione».
In sei mesi di pontificato è la seconda volta che Francesco mette al centro la questione dei rifugiati che cercano asilo dai teatri di guerra. Lampedusa e Roma, che «per tanti è la seconda tappa» ma è anche un calvario per la difficoltà di vedere riconosciuti i diritti al lavoro e all'alloggio.
Padre Giovanni La Manna, che dirige il centro, racconta insieme a padre Lombardi, in conferenza stampa, come è nata la visita. L'idea è venuta subito dopo l'elezione per l'attenzione manifestata dal nuovo Papa verso una chiesa povera per i poveri. Hanno scritto e il Papa ha risposto, tipicamente, con una telefonata. Poi c'è stato il rinvio dovuto all'urgenza di Lampedusa e una seconda telefonata, ad agosto: «Allora, vediamo quando posso venire ...». La Manna racconta l'impressione ricevuta da questo secondo contatto: «Ti immagini il Papa all'altro capo, con l'agenda in mano che segna lui stesso l'appuntamento. È proprio questo contatto diretto che pia- ce, dà speranza alla gente, che sente di essere ascoltata, che ci fa sentire utili, vivi»,
All'uscita, in piazza del Gesù , ad aspettarec'è una piccola folla di una Roma straniera e colorata. Immigrati e turisti con gli occhi lucidi per l'emozione.  Il Papa esce per salire sulla sua Ford Focus con cui si allontanerà senza scorta e senza sirene. Lo chiamano ognuno a suo modo: «Francisco !», gridano gli ispanici. «A France'...» lo saluta in romanesco un nativo.



«Rifugiati, carne di Cristo»
Avvenire, 11-09-2013
Mimmo Muolo
In fila con i rifugiati. Quasi fosse uno di loro. Solidale fino in fondo con le parole e con i gesti. Perché «la solidarietà – ha sottolineato – non è una parolaccia». E coloro che hanno questo status sono uomini e donne da «servire, accompagnare difendere». Sono anzi «la carne di Cristo». Dunque per aiutarli vale la pena anche di compiere scelte coraggiose e inconsuete: «Carissimi religiosi e religiose – dice a un tratto il Papa – i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati».
Quello che Francesco trascorre insieme con gli ospiti e i volontari del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati è un pomeriggio piovoso e grigio. Ma per molti di loro la presenza del Papa è davvero come un raggio di sole, che riscatta da tante amarezze, sofferenze, incomprensioni. Il Pontefice prima ascolta, poi parla. Ascolta le storie di Beatrice del Congo e di Frank e Teresa, arrivati dal Camerun quando lei era incinta di otto mesi di Adam, che ora è lì con mamma e papà. Le storie di Maniuna dell’Etiopia e di Was della Somalia, fuggiti per motivi politici, di Isabel della Colombia, scampata alla prigionia della guerriglia, e di Kaiser, giornalista cristiano del Pakistan perseguitato per la sua fede. E quando parla, nella grande e bella Chiesa del Gesù gremita da 500 persone, quei volti e quelle storie diventano parole di speranza. «Non dobbiamo avere paura delle differenze», afferma il Pontefice. Occorre invece «tenere sempre viva la speranza, aiutare a recuperare la fiducia». In sostanza «mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro, anzi, più che una finestra una porta».
Francesco si rivolge a Roma e al mondo intero, contemporaneamente. «Questa visita – commenterà al termine il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi – va letta in continuità con la visita a Lampedusa. E il discorso del Papa è molto importante». L’importanza in effetti sta tanto nella parte di denuncia quanto in quella di proposta. «Roma – nota, infatti il Pontefice – dopo Lampedusa e gli altri luoghi di arrivo, è la seconda tappa». Essa «dovrebbe essere la città che permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere». E invece spesso queste persone «sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a volte degradanti, senza la possibilità di iniziare una vita dignitosa, di pensare a un nuovo futuro». In altri termini Francesco invita a «servire», cioè «a stabilire prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà». «Solidarietà – sottolinea il Pontefice – questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola. Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione». Commenterà più tardi a tal proposito, padre Giovanni La Manna, direttore del Centro Astalli: «La legge italiana ha spacciato l’accoglienza come un reato, criminalizzando l’arrivo in Italia di profughi che fuggono dalle guerre, oggi dal conflitto in Siria». Francesco indica invece un altro percorso. «La sola accoglienza non basta – afferma –. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare sulle proprie gambe. La misericordia vera chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e lavorare».
Il Papa era giunto all’ingresso del Centro alle 15.30, mentre era in corso l’accesso alla mensa dei frequentatori del Centro. Sceso nei locali del refettorio aveva salutato rifugiati e volontari, fermandosi ad ascoltare le testimonianze di una ventina di ospiti e intrattenendosi successivamente in preghiera nella cappellina del Centro. Infine si era spostato nell’attigua Chiesa del Gesù.
Visita semplice e senza scorta, quella di Francesco. Che all’arrivo ha trovato ad accoglierlo il cardinale vicario, Agostino Vallini e il vescovo ausiliare Matteo Zuppi, il provinciale d’Italia dei gesuiti, padre Carlo Casalone e altri rappresentanti della congregazione religiosa cui anche il Papa appartiene. In chiesa il Pontefice ha ricevuto il saluto di padre La Manna, e di due rifugiati, il sudanese Adam e la siriana Carol. Proprio quest’ultima, con parole accorate ha descritto la tragedia del suo Paese. «I nostri ragazzi – ha detto – sono stati tutti arruolati o uccisi in una guerra per noi senza senso. Dovranno passare almeno 50 anni prima che in Siria si possano avere nuove generazioni. Siamo un Paese senza futuro». Ma in Italia, aveva aggiunto, «non vogliamo essere di peso». Il Papa, citando i passaggi più significativi dei due saluti nel suo discorso, aveva sottolineato «il diritto» dei rifugiati all’integrazione e a sentirsi parte attiva della società che li ha accolti. «Accompagniamo noi questo cammino?», era stato il suo interrogativo, volto a spronare le coscienze.
Durante la visita, infine, è stato ricordato anche padre Pedro Arrupe, fondatore del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, sepolto nella Chiesa del Gesù, alla cui tomba il Papa, accompagnato da due rifugiati, ha portato un mazzo di fiori. Francesco è andato via intorno alle 17, non senza un ultimo saluto pronunciato a braccio: «Grazie per la testimonianza, per l’aiuto, per le vostre preghiere, per il desiderio, la voglia di andare avanti, di lottare e andare avanti. Grazie per difendere la vostra, la nostra dignità umana». Quella dignità che nessun uomo può perdere.



Immigrazione, un ragazzo egiziano viaggia per 800 chilometri attaccato ad un camion dalla Calabria alla Toscana
Strettoweb.com, 11-09-2013
Danilo Loria
E’ partito dalla Calabria diretto in Toscana viaggiando per 800 chilometri incastrato sotto l’intercapedine esterna di una bisarca carica di auto. Un 15enne egiziano e’ stato salvato quando oramai era allo stremo dagli agenti della Sottosezione A1 della Polizia Stradale di Cassino che allertati da un turista hanno fermato la bisarca. Il proprietario di un camper, infatti, aveva segnalato al 113 la presenza di una persona le cui gambe si notavano dalla parte posteriore di una bisarca, li’ dove c’e’ il tubo di scappamento.
Quando i poliziotti in servizio lungo le corsie dell’autostrada hanno fermato la bisarca lo stesso conducente si e’ precipitato sul retro e con grande sgomento ha visto che nella parte piu’ nascosta del mezzo c’era appunto un uomo, anzi un ragazzino. Infreddolito, affamato e soprattutto provato dal lungo viaggio. Il 15enne e’ stato dapprima rifocillato, condotto in ospedale e poi trasferito in una casa-famiglia di Pontecorvo. Ha raccontato in un stentatissimo inglese di essere arrivato in Italia a bordo di una vecchia carretta del mare e che era diretto in Toscana dove pare ci fossero alcuni parenti.



Fuga dal centro di Pozzallo, se ne vanno 150 migranti
l'Unità, 10-09-2013
Flore Murard-Yovanovitch  
Sarebbero oltre 150 gli immigrati che sono fuggiti dal Centro di prima accoglienza e di soccorso (CPSA) di Pozzallo, nella provincia di Ragusa, nella notte di domenica scorsa. A fronte di una capienza massima di 130 posti, il centro dopo l'ultimo arrivo di 208 migranti nel pomeriggio di sabato ne «ospitava» più di 400. Collocato nel porto, in una zona franca, il capannone doganale si erge dietro un ulteriore recinto di barriere, cancelli e filo spinato. Quelle grate le avevo varcate il 3 settembre scorso in una visita autorizzata. Un cortile rovente. Il dormitorio, un'immensa aula di 400 materassi sfilacciati buttati a terra, senza lenzuola, dove uomini di tutte le età e provenienze, persino minori, dormono insieme. Di notte non si dorme, tra tafferugli, grida e musica. Un piccolo gazebo trasparente della polizia, pure negli spazi di riposo e schermo di video sorveglianza 24 ore su 24 nell'ufficio del direttore del centro. Queste erano le ultime misure securitarie per un centro che aveva già conosciuto sommosse nel passato.
Nessuna mensa, il pranzo lo si fa seduti, o sulle rare panchine all'ombra. Non funziona il servizio di lavanderia, né quello di barberia, nessuna privacy dei lavandini e carenti condizioni igieniche minime. Un unico mediatore in lingua araba per 200 migranti, nessun per l'inglese, due operatrici sociali, 2 medici convenzionati dal centro di cui uno anche medico autorizzato dalla Capitane- ria per i controlli sanitari a bordo delle nave (cioè impegnato negli numerosi sbarchi), a rotazione. Ma non c'è nessuna assistenza psicologica e post-traumatica per profughi che hanno sofferto traumi. L'accoglienza è scarsa ai minimi e al di sotto di tutti standard internazionali, e viola anche vari articoli dei Capitolato di appalto (per la gestione dei CPSA, di novembre 2008).
Il centro di Pozzallo manca soprattutto di un servizio di tutela legale e di orientamento a rifugiati e potenziali richiedenti asilo. In quella estrema sponda della Sicilia sud-orientale, sbarcano profughi in fuga da conflitti, Etiopi, Eritrei, Somali, e di recente egiziani. Persone, vittime di arresti e persecuzioni nei paesi d'origine, sfuggite a piedi attraverso il Sahara, e poi la Libia post-Gheddafi che discrimina e caccia gli subsahariani di pelle nera; alcuni persino stati detenuti mesi o anni nei lager e scappati imbarcandosi. Ed eccoli qua, quei soggetti vulnerabili, senza tutela legale né corretta informazione sul loro statuto. Per unico «documento»: i braccialetti di plastica al polso con il codice di identificazione (che serve per cibo, ricariche e uscite), quella cifra che ha preso il posto del tuo nome, e identità. «Cosi ti chiamano nel centro: K68», rivela Mohammed, un ventenne eritreo.
I tempi di trattenimenti sono lunghissimi, oltre quelli stabiliti dalla legge. Alcuni sono nel centro da qualche mese. Confinati in quella struttura per i ritardi delle procédure di asilo, la lentezza delle Commissioni territoriali, e per la man- canza di posti in altre strutture di accoglienza dello SPRAR (il sistema di protezione per i domandanti asilo e i rifugiati). Ci sono anche decine di minori non accompagnati. Sono nel centro da più di due mesi e mi chiedono: «La scuola dove? Io voglio imparare l'italiano». Chi sa se sono fuggiti pure loro.
Giornate di sola attesa, senza attività ricreative. Un limbo totale. Donne, somale, accasciate lunghe ore, sui materassi mi raccontano «dormiamo, mangiamo, dormiamo». Al buio sul proprio futuro. «Non so quando mi trasferiranno, sono qua da 22 giorni e vedo sempre altri trasferiti. Non mi hanno detto niente dei miei documenti, non ho vissuto nessun avvocato». Nessun che abbia pronuncia- to la parola «asilo». Ali, un rifugiato da Darfur aggiunge, «"Ricevi cibo di cosa ti lagni?", ci dicono o, non hanno nessun idea che non veniamo per migliorare la vita in Italia, che siamo sfuggiti per salvarci la pelle». Altri, come gli eritrei invece non avrebbero voluto fare la richiesta d'asilo in Italia, perché hanno parenti in altri paesi europei. Jamal: «Appena siamo scesi dalla nave ci hanno prelevate le impronte digitali, con la forza, nonostante mi rifiutavo. Perché io volevo andare in Svizzera dove ho miei parenti, non voglio rimanere in Italia».
Pozzallo: fino a domenica scorsa, circa 400 profughi e potenziali richiedenti asilo, confinati mesi in un luogo di trattenimento informale diventato di fatto di detenzione. Quella fuga collettiva segna, il fallimento dei sistema di accoglienza in Sicilia dove prevale la finta sicurezza al diritto alla protezione dei profughi alimentando il racket e la cosiddetta clandestinità, che dicono tutti di voler combattere.



Troppi bambini rom a scuola i genitori italiani ritirano i loro figli
Il caso a Landiona, in provincia di Novara. "Abbiamo cercato di convincerli a lasciarli qui, ma hanno preferito portarli a Vicolungo, il paese qui vicino", spiega il sindaco, Marisa Albertini. Anni fa grazie all'iscrizione del piccoli nomadi si era evitata la chiusura della scuola
la Repubblica, 10-09-2013
FRANCESCA DECAROLI
Troppi bambini rom in classe. È questo il motivo che nel primo giorno di scuola ha spinto molti genitori di Landiona, comune di 600 abitanti in provincia di Novara, a ritirare i propri figli dalla scuola elementare del paese e a trasferirli nell’istituto di Vicolungo. "Abbiamo cercato di convincerli a restare ma hanno preferito portarli via - afferma il sindaco Marisa Albertini - Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile".
Il fatto ha diviso il comune in provincia di Novara. Francesco Cavagnino, consigliere comunale di minoranza a Landiona, lo ha definito di "una gravità assoluta. Questa storia - aggiunge - getta discredito su tutto il paese, ma noi non siamo razzisti".
La scelta delle mamme e dei papà novaresi arriva il giorno il cui il Comune di Torino ha rinnovato l’iniziativa che prevede l’accompagnamento a scuola dei rom dei campi di via Germagnano e di strada Aeroporto. L’attività, nata in collaborazione con il Raggruppamento temporaneo SelaRom, l’anno scorso era stata premiata dal Ministero delle politiche sociali.
Una decina di anni fa, per tenere aperta la scuola del paesino, le famiglie rom era stata invitate a portare i loro figli a scuola. L'elementare era stata così salvata dalla chiusura. Un problema che rischia ora di riproporsi, ma per motivi molto meno nobili.
Sulla vicenda Franca Biondelli, deputata novarese del Pd, ha annunciato un'interrogazione parlamentare.

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