Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

01 aprile 2014

«Non si può offrire servizi di lusso ai turisti e trattare male i migranti»
Boldrini: ««Le politiche per il turismo andrebbero pensate in modo integrato con le altre politiche»
Corriere della sera, 01-04-2014
Un’affermazione da interpretare. E che sicuramente farà discutere. «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate» afferma la presidente della Camera Laura Boldrini. «Le politiche per il turismo andrebbero pensate in modo integrato con le altre politiche rivolte all’accoglienza degli stranieri che vengono da noi per ragioni di lavoro, di studio, di cura o semplicemente alla ricerca di pace, di diritti e di sicurezza» ha aggiunto la Boldrini.
Rapporto
Boldrini, ha aperto il suo intervento alla presentazione del Rapporto 2014 di Italiadecide, «Il Grand Tour del XXI secolo - L’Italia e i suoi Territori», in corso nella sala Regina di Montecitorio. Rapporto che, come evidenziato dal Corriere in un articolo di Gian Antonio Stella, vede l’Italia aver perso in 64 anni, significative quote del turismo mondiale (dal 20% al 4,4%). Perdita di quote di mercato però che secondo il rapporto, sembrano dovute soprattutto ad un calo della qualità media dei nostri servizi al turismo. Per Boldrini invece il Paese deve dare «l’esempio concreto di una cultura dell’accoglienza che sia integrale, a 360 gradi, e che sappia misurarsi con la sfida della globalizzazione, quella sfida che porta con sé, come è ovvio, anche maggiori opportunità di circolazione delle persone, e non soltanto delle merci, dei capitali delle informazioni».



Salvini: "No alla moschea a Milano. Boldrini è una clandestina"
Il segretario del Carroccio: "Nessun bisogno di moschee finchè l'islam non riconosce i valori dell'Occidente. Lo stipendio della presidente della Camera  lo pagano gli italiani, non i clandestini"
stranieriinitalia.it, 01-04-2014
Milano - 1 aprile 2014 - "Finchè ci sarà un solo consigliere della Lega a Milano non concederemo un solo metro quadro di spazio per la costruzione della moschea".
Lo ha ribadito ieri segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini. Una posizione già espressa nelle corse settimane dopo la campagna del CAIM per la costruzione di un luogo di culto per i 100 mila musulmani milanesi e per quelli che arriveranno in città in occasione dell'EXPO 2015.
Salvini ha detto che "finchè l'Islam tratterà la donna come un essere umano di serie B e non riconoscerà i valori e le conquiste di libertà dell'Occidente, di moschee a Milano non ne sentiamo alcun bisogno".
Il leader del Carroccio ha poi attaccato  Laura Boldrini per le sue dichiarazioni sull'accoglienza degli stranieri in Italia. "Boldrini è una clandestina, perchè è arrivata clandestinamente alla presidenza della Camera. Una che dice che non si possono accogliere i turisti e trattare male i clandesitni ha qualche problema".
"I cittadini italiani - ha aggiunto - le pagano lo stipendio, e non i clandestini che sbarcano. Quindi si ricordi chi le paga lo stipendio oppure non faccia più il presidente della Camera".



Alberghi a zero stelle
La Stampa, 01-04-2014
Massimo Gramellini
Illustri boldrinologi sono al lavoro per cogliere il senso profondo delle parole pronunciate ieri dalla presidente della Camera. «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo a volte inaccettabile i migranti». Secondo una corrente di pensiero, Boldrini ha inteso dire che i miliardari russi e le vecchie zie inglesi andranno smistati in appositi campi di rieducazione, mentre i nullatenenti in fuga dall’Africa verranno sistemati in Costa Smeralda su una flotta di yacht requisiti per la bisogna: una decisione che peggiorerebbe in maniera drammatica la nostra bilancia dei pagamenti, ma farebbe sensibilmente lievitare il conto in banca presso il paradiso. Altri decrittatori del sacro verbo pauperista si spingono a sostenere che Boldrini auspicherebbe la nascita di villaggi turistici misti, dove la vecchia zia inglese fraternizza col nullatenente subsahariano, pagandogli vitto e alloggio. Una scelta in grado di sanare «la insopportabile contraddizione» ma anche di provocare in pochi anni l’estinzione delle vecchie zie inglesi, a causa degli infarti al momento del conto.  
Infine una sperduta categoria di studiosi del boldrinismo a cui mi onoro di appartenere ritiene che la contraddizione tra il lusso e la miseria non si sana distruggendo il Billionaire, ma mettendo i disperati in luoghi un po’ più umani delle attuali gabbie. E magari cominciando a trattare in modo meno «inaccettabile» i troppi turisti che scappano dall’Italia per la carenza dei servizi, affinché con i loro soldi si possano poi accogliere meglio anche i migranti.  



CIE di Gradisca - Il GIP di Gorizia: condizioni disumane
Melting Pot Europa, 01-04-2014
Avv. Giovanni Guarini
Apposto un ulteriore tassello, questa volta da parte di una Autorità Giudiziaria, idoneo a completare il quadro delle condizioni praticate nei confronti degli ospiti dell’ex Centro di Identificazione e di Espulsione di Gradisca di Isonzo, chiuso di fatto in data 6 novembre 2013 per ordine del Ministero dell’Interno.
Il G.i.p. presso il Tribunale di Gorizia con ordinanza dd 31 marzo 2014, nell’ambito del procedimento penale nel quale alcuni trattenuti del C.i.e di Gorizia sono accusati di danneggiamento ed altri reati maturati nel contesto delle rivolte dell’estate del 2013, definisce «alienanti» le condizioni di vita cui sono stati sopposti gli ospiti del C.i.e. di Gradisca di Isonzo e «disumano» il contesto di vita al quale erano costretti gli ospiti all’interno del C.i.e. (cfr. allegato).
L’Autorità Giudiziaria ha preso posizione in merito ad una situazione, quella del C.i.e. friulano, già denunciata da numerose associazioni e organi istituzionali.
Così, già un comunicato del Presidente della Camere Penali Avv. Valerio Spigarelli dd. 9 novembre 2012 concludeva: «dalle carceri ai Centri di identificazione ed espulsione. Per la prima volta, le Camere Penali varcano le porte di un CIE, quello di Gradisca d’Isonzo a Gorizia. Una delegazione dell’Unione Camere Penali Italiane, guidata dal Presidente Valerio Spigarelli, insieme agli Avvocati Annamaria Alborghetti e Antonella Calcaterra dell’Osservatorio Carceri UCPI e al Presidente della Camera Penale di Gorizia, Avv. Riccardo Cattarini, ha verificato le condizioni di vita di coloro che vi sono ospitati, le problematiche della struttura e le criticità. E’ un luogo di effettiva detenzione dove gli stranieri, in vista dell’espulsione, in attesa della sola identificazione, sono trattenuti anche per tempi fino a 18 mesi. E ciò in condizioni igieniche desolanti, ammassati anche in dieci nelle celle. I CIE sono luoghi, almeno in questo caso, peggiori delle carceri, dove le persone sono private della libertà e delle garanzie minime a tutela della dignità umana. Di fatto si tratta di una vera e propria detenzione amministrativa, peraltro proibita dal nostro ordinamento, che non gode di alcuna delle garanzie giurisdizionali previste dalla normativa penitenziaria. Roma, 9 novembre 2012»
In data 13 agosto 2013 il Presidente della Commissione diritti umani del Senato. Sen. Luigi Manconi, denunciava del C.i.e. di Gradisca, in occasione di una caduta dal tetto con ferimento di due trattenuti: «condizioni di vita disumane, abusi e violenze, confusione, e forse peggio, nella gestione amministrativa».
In pari data l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione evidenziava in un comunicato che: « l’art. 21 del DPR 394/199 e la Direttiva generale in materia di centri di permanenza temporanea ed assistenza del Ministero dell’interno sull’organizzazione dei CIE prevedono che gli stessi vadano concepiti e concretamente gestiti "in modo tale che gli stessi pur garantendo il non allontanamento degli stranieri, non comportino alcun ulteriore affievolimento dei diritti della persona trattenuta". Diversamente, i trattenuti nel CIE di Gradisca si trovano da lunghissimo tempo in una condizione di totale privazione nell’accesso ad alcuni diritti fondamentali. Solo tra gli aspetti più evidenti si ricorda che :
- è vietato l’uso di cellulari;
- nel centro non è possibile svolgere nessuna attività ricreativa o di socializzazione, neanche all’aperto;
- non risulta possibile usare il piccolo campo da calcio da oltre un anno; la mensa, pure agibile, è chiusa;
- non è consentito neppure tenere libri e giornali;
- mancano le lenzuola.
I trattenuti non possono muoversi nel centro, sono limitati nelle stanze e possono accedere all’aperto a vere e proprie gabbie consistenti in uno piccolo spazio cementato, ricoperto da grate verso il cielo e da pareti di plexiglass sui quattro lati, luoghi che si arroventano senza pietà sotto il sole estivo.
In questa condizione di degradazione della dignità umana i trattenuti passano il loro tempo, spesso molti mesi, in una condizione di totale vuoto e spaesamento, con evidenti ripercussioni sulla loro salute psico-fisica.
Ampio risulta l’uso di psicofarmaci come già evidenziato nel rapporto di Medici per i diritti umani e in altri rapporti…» .
In data 5 novembre 2013, nella seduta n. 134 il Senatore Luigi Manconi proponeva una interrogazione dal seguente tenore testuale: «già nel settembre 2013 una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato si era recata in visita al Centro di identificazione e di espulsione (CIE) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), riscontrando numerose criticità, condizioni di vita disumane e tensione altissima; negli ultimi giorni nuovi disordini si sono verificati nel Centro. La notte tra il 30 e il 31 ottobre alcune persone trattenute sono salite sul tetto dell’edificio, mentre altri provocavano gravi danni alla struttura. Episodi che si sono ripetuti nelle notti successive, fino a quella tra il 2 e il 3 novembre; per disposizione del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, il CIE di Gradisca d’Isonzo è stato oggi svuotato, con il trasferimento delle persone trattenute, e temporaneamente chiuso, come ripetutamente chiesto negli ultimi mesi anche da parte di parlamentari e amministratori di quel territorio; gli spazi inadatti e inagibili del CIE sarebbero viceversa utili all’ampliamento del limitrofo Centro di accoglienza per richiedenti asilo, bisognoso di posti e di spazi per una migliore gestione del centro e una più adeguata accoglienza per gli ospiti, si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga che il CIE di Gradisca d’Isonzo debba essere chiuso definitivamente e che la struttura, una volta ristrutturata, possa essere utilizzata per ampliare il Centro di accoglienza per richiedenti asilo situato nei pressi»
Inoltre, la Risoluzione della Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani in seno al Senato della Repubblica Italiana del 5 marzo 2014 concludeva che: «Il centro di Gradisca d’Isonzo e` stato svuotato al principio di novembre dopo mesi di rivolte e proteste da parte dei migranti che ne denunciavano le condizioni inumane di trattenimento»
Infine, una ultima e decisa presa di posizione dell’Unione delle Camere Penali, si legge in un comunicato del 27 marzo 2014: «Il 9 novembre 2012 uscimmo sconvolti dal CIE di Gradisca: in nessun carcere avevamo visto quella rabbia e quella disperazione repressa che c’era negli occhi di chi era chiuso lì dentro. Nessun diritto, nessuna garanzia, ma solo i soprusi di chi aveva in appalto la gestione degli ultimi. Ora il gip del Tribunale di Gorizia ha rinviato a giudizio 13 persone, tra loro i dirigenti della Connecting Poeple accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello stato e inadempienze di pubbliche forniture, il viceprefetto di Gorizia e il ragioniere capo della Prefettura accusati di falso materiale e ideologico. E il CIE é stato chiuso»
Da processi in corso ancora agli albori arriveranno probabilmente ulteriori risposte per documentare lo stato di una struttura dove le condizioni minime ed inderogabili di tutela dei diritti sono state per troppo tempo disattese.



Dai respingimenti ai Cie, prove di “annullamento” degli esseri umani
Cinque anni di cronache italiane raccontati dalla giornalista francese Flore Murard Yovanovitch nel libro “Derive” mettono in luce le radici culturali e psicologiche della disumanità delle politiche contro rom e migranti
Redattore sociale, 31-03-2014
Roma – Un vaccino culturale contro la malattia dilagante del neorazzismo e della xenofobia, una cura necessaria per la società democratica che passa dalla denuncia puntuale dei tanti casi di disumanità con vittime rom e migranti. È il messaggio di fondo che si può cogliere nel libro di Flore Murard Yovanovitch, giornalista parigina di base in Italia, dal titolo “Derive. Piccolo Mosaico del disumano”, edito da Nuovi Equilibri Stampa Alternativa, con l’introduzione di Piero Coppo e la post-fazione di Fulvio Vassallo-Paleologo. Il volume esce in libreria domani. Cinque anni di cronache freelance di Flore Murard che vanno dai casi di violenze individuali come la storia dell’indiano Navtej Singh Sidhu bruciato vivo a Nettuno (e sopravvissuto) da alcuni giovani del posto, solo perché dormiva su una panchina, alle vicende delle psicosi di massa sfociate nei pogrom di campi rom, al razzismo istituzionale e democratico dei Cie, alle violazioni delle leggi internazionali con i respingimenti in mare. Cinque anni bui. L’obiettivo dichiarato del libro è di “rendere visibile l’oscurità”.
In fondo, sembra suggerire Murard, ciò che tutte queste vicende hanno in comune è la “pulsione di annullamento” dell’essere umano, che finisce per colpire tutti: carcerati e carcerieri, vittime e carnefici.
“Si tratta di un livello di violenza più profondo dove dalla negazione dell’altro si passa al suo annullamento – spiega Murard – Questa pulsione, infatti, fa dell’altro, del diverso da sé, un “non essere umano”, cancellando in tal modo (annullamento appunto) il fatto che la sua umanità sia irrimediabilmente uguale alla nostra”. Secondo l’autrice che cita e riprende alcune teorie psicologiche, “in questo concetto si nasconde la mente malata all’origine dei comportamenti disumani”.
La galleria degli orrori raccolti dall’autrice dal 2009 al 2013 focalizza l’attenzione sull’Italia ma lancia uno sguardo anche all’avanzata delle destre xenofobe in Europa, in paesi come l’Ungheria o la Grecia di Alba Dorata.
Ma principalmente è l’Italia a essere messa sotto la lente d’ingrandimento nel libro di Flore Murard. Il re è nudo. Il paese della brava gente scopre di fondarsi su un falso mito. E la disumanità avanza soprattutto se si guarda al fenomeno dell’accoglienza dei profughi di guerra. Nell’estate del 2013, fa notare giustamente l’autrice, la guerra siriana sbarca sulle coste siciliane, improvvisamente vera e viva nei racconti di intere famiglie costrette alla fuga dopo avere visto e subito inenarrabili atrocità. Ma coloro che si credevano in salvo in Europa non lo sono affatto. Toccata terra in un paese “democratico” si ritrovano solo all’inizio di una nuova odissea fatta di attese interminabili in luoghi alienanti come i centri di accoglienza, molti dei quali improvvisati e dati in appalto a soggetti discutibili senza trasparenza. E’ lì che le persone, private dei documenti, dei diritti e della dignità a causa di una legge che non funziona e di un’accoglienza vergognosa, si ritrovano a parole ‘ospiti’ e libere, ma in realtà come detenute, private della libertà di muoversi e di decidere del proprio destino.
Ma ‘Derive’ non è solo una sequela di fatti e la denuncia di politiche sbagliate. Il tentativo è quello di andare oltre e spiegare le radici culturali e psicologiche che fanno deragliare un intero paese dai binari della democrazia e dei diritti umani. L’accoglienza dei migranti è spesso in mano a realtà cattoliche e sulla retorica dei deboli da assistere Murard punta il dito e l’attenzione. Secondo l’autrice c’è una “confusione culturale” attorno al tema delle migrazioni in Italia che non porta ad affrontare la questione inquadrandola nell’ambito dei diritti di cittadinanza, ma la fa retrocedere alla “dimensione della carità cristiana”.
Ma la “non-esistenza” o “dis-esistenza” alla quale costringiamo gente che è fuggita dalle guerre per un’ingiustizia della storia, mentre noi viviamo al sicuro nelle nostre esistenze precarie, porta a implodere la nostra stessa umanità.
Il racconto della nostra storia recente è impietoso. Ci ricorda come solo nel 2009 respingevamo i profughi nel Mediterraneo, ricacciandoli verso un destino di torture e morte, e premiavamo con il consenso politico gli slogan populisti di destra che urlavano “fermiamo l’invasione” quando i respinti erano meno di mille. Il tutto condito dall’immaginario dello scontro di civiltà e dalla fabbrica della paura oliata dai media.
Grande spazio ha anche il racconto dei Cie, dei muri, delle telecamere di sorveglianza e del filo spinato, della detenzione dei migranti che in Italia è arrivata all’inverosimile: costruire gabbie gialle semimobili per fare radere i “trattenuti” di Lamezia Terme. Il volume si chiude con due interviste illuminanti sul tema delle deportazioni forzate. Una a Fernand Melgar, regista del documentario vincitore a Locarno “Vol Special” girato in un centro di detenzione amministrativa svizzero e una allo scrittore Erri De Luca.
Il “cuore della contraddizione” del centro di internamento svizzero di Frambois, secondo Melgar è “il tentativo di applicare in modo più umano una legge disumana: di migliorare un luogo disumanizzato”. Un sistema che gli ricorda “la banalità del male di Hannah Arendt” in cui ogni funzionario è deresponsabilizzato, esegue ordini, mette timbri, ma non ci si può sottrarre alla responsabilità collettiva.
Erri De Luca li chiama “Centri di Infamia Estrema” , dannosi per la salute pubblica e spiega il perché: “tollerare sul nostro suolo campi di concentramento è degradare la nostra vita civile. Quei Cie sono un marchio d’infamia per tutti noi”. (Raffaella Cosentino)



Se questo è un uomo
Corriere delle migrazione, 01-04-2014
Lassad
È stato testimone oculare della protesta delle bocche cucite a Ponte Galeria e si è impegnato attivamente per cercare una soluzione. Grazie a una richiesta di sospensiva, oggi è fuori dal Cie, con la speranza di tornare ad essere un uomo libero. Il 28 marzo, Lassad, cittadino tunisino da 22 anni in Italia, è intervenuto a un convegno che si teneva presso Palazzo della Giunta Regionale del Lazio (si trattava di un incontro organizzato per presentare la mozione della consigliera regionale Marta Bonafoni in cui si chiede la chiusura di Ponte Galeria e l’attivazione, nel frattempo, di un monitoraggio sul centro) e ha raccontato cosa significa trovarsi un quei “manicomi a cielo aperto” che sono i Cie. Ecco cosa ha detto.
«Vivo in Italia da 22 anni. Gran parte della mia storia è qui. Me ne sono capitate tante e tanti sbagli li ho fatti, ma li ho pagati. Poi mi capita che stavo rientrando con le buste della spesa, mi fermano degli agenti, mi chiedono i documenti e mi portano al volo a Ponte Galeria, in quel posto che chiamate Cie. Mi sveglio la mattina, faceva freddo, era dicembre e mi ritrovo 13 uomini che si erano cuciti la bocca per protestare. Ecco, una storia così ti segna l’anima, non te la togli di dosso. Ti accorgi di essere in una specie di lager, un lager che esiste perché ogni vita ha un prezzo. Quello che viene dato a chi ci tiene dentro. Mi pare siano 41 euro. La nostra vita costa 41 euro, cosa è 41 euro, il valore in borsa, il numero delle scarpe, è calcolato in base al nostro peso, allo spazio che occupiamo? Non lo so. Ditemelo perché io non trovo le parole per capirlo. Un prezzo per le nostre sofferenze, voi che siete entrati dentro avete visto in prima persona il prodotto che è valutato in base a un prezzo. Io no, non mi stupisco di niente, mi sembra di vivere negli anni Quaranta per quello che mi hanno raccontato e per quello che ho letto. Sento un vento gelido di destra che soffia forte e da ogni parte.
Che vi devo dire? Il mondo è bello fuori, basta non calpestare i diritti di chi ti sta vicino. Io mi sento una specie di pesce fuori dall’acqua. Non ho più un paese, non sono né di qua né di là, quale dovrebbe essere la mia casa. E come non ricordare quelle scene, quelle urla, io restavo con la bocca aperta. Queste cose sapevo che succedevano 70 anni fa. E penso alla Storia. È fatta per essere messa nei libri o per essere ricordata, bisogna battere un colpo verso il mondo. Oggi ero alla fermata della metro di Rebibbia, vicino il carcere, c’erano manifesti molto belli con persone che scavalcavano un muro e una scritta, “Liberi tutti”. Sante parole. Eppure sento dire tante cavolate, sento dire che è stata abolita la schiavitù ma credo che grandi come Lincoln si rivolterebbero nella tomba. Quanti secoli ancora dobbiamo aspettare per non dare più un prezzo ad una vita umana cari miei? Dio crea le persone e le persone vengono vendute e comperate, sono quotate sul mercato. Chi lo avrebbe mai detto che ci saremmo ridotti così.
Oggi sono fortunato, sono seduto al posto del Presidente della Regione, ho conosciuto tanta brava gente, ciò che fate voi dà un senso alla mia e alla vostra vita. Altrimenti siamo tutti inutili, finiamo in un mondo meschino, è per gente come voi che riesco a dormire la notte. Voi siete persone che stanno rimpiazzando Fanon. Lo sapete cosa diceva? Diceva che nel mondo esiste chi è pro e chi è contro, e la causa principale si chiama razzismo. Forse non sono ancora tempi per il fascismo ma dobbiamo stare attenti, non mi sbaglio perché dobbiamo far capire che la diversità è una risorsa e dobbiamo saperla sfruttare e ascoltare, non marchiarla. La diffidenza è la madre di tutte le cazzate. Scusatemi se parlo in maniera così confusa, ma così posso dire tutto quello che ho dentro. Io sono fuggito tante volte per vivere, Ponte Galeria, Trapani, Regina Coeli e poi ancora Trapani. Ho camminato per 80 chilometri lungo la ferrovia per andarmene lontano da lì. Poi mi hanno ripreso a Roma e non ci ho capito più nulla.
Il tempo non passava mai, dovevo tenere la testa allenata e ho cominciato a contare. La gabbia in cui stavamo ha 206 sbarre, giri intorno al perimetro e le luci ti fanno perdere la ragione, di notte non distingui i colori, tutto ti sembra grigio. E io contavo: la lunghezza della gabbia è di 18 passi e mezzo, la larghezza di 8 passi e mezzo, il corridoio è di 128 passi. Non vi basta? Di notte speravo che spegnessero le luci per poter vedere le stelle, io le distinguo, cercavo di vedere l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore invece di guardare le telecamere che stanno dappertutto. Mi dicono che il Cie non è un carcere e ci chiamano ospiti. Ma io ero solo un fottuto numero con cui mi chiamavano ogni giorno, sono questi gli ospiti? Ma perché non me lo hanno tatuato addosso il numero invece di dire parole finte sul trattenimento, invece di parlare di valori che esistono solo sulla carta e che ci scivolano addosso. Non posso pensarci, stavo camminando tranquillamente per strada e mi sono ritrovato in un manicomio a cielo aperto.
Io debbo molto anche ai giornalisti, alcuni sono anche qui presenti. Ho saputo che nel 2011 il ministro dell’Interno aveva fatto una circolare per impedirvi di entrare, come mai? Non voleva farvi vedere quello che ho vissuto io? Quello che hanno vissuto gli altri? Di solito se un funzionario dello Stato compie un errore così grande si va a vedere se ne ha fatti altri, con questo Ministro è avvenuto? Credo di no, perché altrimenti avreste potuto aggiustare le leggi, cambiarle, riempirle di valori. Ma noi siamo solo gli oggetti, le merci per un business, di mezzo c’è l’economia che secondo me è corrotta. Sembra che in Italia a troppi convenga restare così, ma ancora si può evitare di cadere nell’abisso, si possono impedire altre disgrazie. Trovate un rimedio, trovatelo voi, troviamolo insieme, non è colpa mia se da tunisino sono nato nella parte sbagliata del Mediterraneo.
Si è capito che i Cie non funzionano, lo ha detto bene il dottore che ha parlato prima di me (Alberto Barbieri, di Medu Ndr), ha parlato di ingiustizie e di soldi sprecati, di una istituzione che non serve. Se non lo capiscono gli altri o non lo accettano non va bene. Si continuerà a produrre sofferenza per tutti, per chi è dentro, per i parenti di chi è dentro, molti hanno mogli e figli in Italia, per tutti quelli che temono ogni giorno di essere presi e rinchiusi per nulla, senza aver fatto niente di male.
La vita di quelli come me è una continua roulette russa da cui non possiamo uscire. Dateci una possibilità di vivere regolarmente, di lavorare, di darvi una mano a far crescere questo Paese. Un giorno ci ringrazierete. Ma oggi, e voglio concludere, mi avete dato una speranza, se farete un monitoraggio continuo nel centro, ne potrete aiutare tanti a Ponte Galeria e scoprirete tante cose che non vanno. Scoprirete anche che ad esempio, può sembrare una cosa da niente, ma lì non c’è uno psichiatra mentre la gente impazzisce. C’è in carcere, a volte c’è in caserma, perché in un posto dove si sta tanto male non ce ne è uno?»



I migranti di via del Gaggian: vite nel limbo alla periferia di Mestre
Storia di una accoglienza indegna
Meltig Pot Europa, 01-04-2014
Via del Gaggian è uno sterrato che corre a ridosso dell’argine del canal di San Giuliano. Siamo nel quartiere residenziale della Cipressina. Solo 5 minuti d’auto dal centro di Mestre e già si respira aria di campagna. Le case, tutte piuttosto ariose, sono sparse nel verde di giardini sobriamente curati, tra siepi di bosso e spazi destinato ad orto.
Il civico numero 22 si trova proprio in fondo alla strada. Per passarci davanti bisogna proprio andarci apposta e vien da chiedersi se non sia proprio questo uno dei motivi che lo hanno fatto scegliere come casa di accoglienza per i profughi.
La nostra storia comincia quando scoppia la guerra civile in Libia. E’ il febbraio del 2011. Una dopo l’altra, le città lealiste cadono in mano ai ribelli, ma intanto le milizie del Colonnello si abbandonano ad inaudite violenze nei confronti della popolazione civile e di chi rifiuta di indossare la loro divisa. A farne le spese sono anche molti lavoratori provenienti dai Paesi sub sahariani. Questi ultimi, considerati già “inferiori” rispetto ai libici prima del conflitto, durante la guerra civile vengono perseguitati e uccisi sia dalle milizie di Gheddafi che dai ribelli o perché rifiutano di arruolarsi nelle milizie o con la comune accusa di essere dei mercenari al soldo dell’altra fazione. Per chi non gode di amicizie locali comincia una spietata caccia all’uomo. Molti di loro sono quindi costretti a cercare riparo in Europa. Sono vite in perenne fuga. Profughi due volte, potremmo dire. Prima cacciati dal loro Paese natio dalla fame e dalla miseria, poi costretti ancora alla fuga dalla Libia in guerra. Eppure in Italia tiene banco la questione se sia il caso di concedere loro o no lo status di rifugiati, perché come aveva dichiarato un deputato della Lega nord “non sono libici e perciò non centrano niente con quella guerra. Cosa vogliono da noi?” Il dibattito che si scatena nel nostro Paese è semplicemente indecoroso. Ancora si grida all’emergenza, ancora si invocano filtri di ingresso. Ancora il Governo intensifica una inutile presenza dell’esercito e della marina militare alle frontiere sud. I giornali ironizzano sulle scarpe di marca indossate da alcuni profughi, senza considerare che molti di loro, prima dello scoppio del conflitto, avevano impieghi regolarmente retribuiti nelle aziende di estrazione del gas o del petrolio e che di “grandi firme” taroccate a regola d’arte sono pieni tutti i mercati d’Africa.
Tra Italia ed Europa si scatena uno scaricabarile vergognoso su chi debba prendersi cura di questi profughi. La stessa Italia e la stessa Europa che per decenni hanno seguito una politica di cieca collaborazione con il sanguinoso regime del Colonnello Muammar Gheddafi.
Alla fine, siamo nel mese di aprile, il Ministero dell’Interno vara il programma chiamato “Emergenza Nord Africa”. Ma l’accoglienza che il nostro Governo prepara, con Silvio Berlusconi presidente e Roberto Maroni ministro dell’Interno, parte da presupposti sbagliati. In piena ottica emergenziale (come dice lo stesso nome) e securitaria, a coordinare il tutto è la Protezione civile cui spetta il compito di affidare alle prefetture o agli assessorati regionali l’incarico di responsabili del piano di accoglienza.
Nel Veneto come nella Lombardia, il cosiddetto “soggetto attuatore” viene individuato, dopo varie vicissitudini politico-istituzionali, nel Prefetto secondo il principio - sbagliato - che le migrazioni siano fondalmentalmente solo un problema di ordine pubblico, e senza considerare che i prefetti non sono preparati ad affrontare una tale questione sociale. Le rivolte dei sindaci e dei presidenti delle Provincie, in particolare di quelli del Carroccio, che si dichiarano assolutamente indisponibili ad ospitare questi migranti nel loro Comune, vengono subito smorzate dai finanziamenti che il Governo stanzia per l’accoglienza. Appare subito chiaro che i profughi sono un affare. Portano “schei” come si dice nel Veneto. Bisogna anche tener presente che non vengono emanati bandi né stabiliti criteri per selezionare chi può ospitare i profughi. Alla fine inoltre, non vengono nemmeno richieste pezze giustificative, Niente regole, tanta emergenza, tantissimi soldi. Una affare da 46 euro al giorno a migrante. Finché dura...
Accoglienza degna? No grazie!
Business e discriminazioni. L’ “affare profughi” procede a livello nazionale con pratiche di accoglienza - o meglio dire di detenzione - in deroga all’ordinamento giuridico (basti pensare a quanto accaduto in luoghi come Manduria) e tutto questo va a braccetto con campagne politico-mediatiche imperniate sulla retorica della paura e dell’invasione.
In questo panorama desolante, Venezia prova a tracciare una rotta diversa. nel maggio del 2011 la rete “Tutti i diritti umani per tutti” cui partecipa pressoché l’intero arcipelago associativo e movimentista della città, lancia la campagna Welcome e propone un piano di accoglienza degna. Le sigle e i nomi che aderiscono sono tanti. Partecipano comitati, associazioni, spazi sociali e sindacati. Ricordiamo, tra le varie realtà, Emegency che offre una copertura sanitaria gratuita, l’Arci e la Cgil che mettono a disposizione la mensa, la cooperativa Caracol che offre posti letto, la scuola Liberalaparola del Rivolta che propone corsi di italiano... Una accoglienza dal basso, professionale e assolutamente gratuita. “Non rifiutiamo il denaro che il Governo ha stanziato - dichiarano i portavoce in una conferenza stampa - ma non ne terremo un centesimo per noi. Consegneremo tutto ai migranti”.
La Prefettura di Venezia non prende neppure in considerazione la proposta e, nonostante le tante richieste, non degnerà le associazioni neppure di una risposta, sia pure negativa.
Appare subito chiaro che la Prefettura vuole trattare direttamente con la Caritas che a Venezia gestisce quasi tutto il “mercato del bisogno”. Non servono bandi d’asta o altri orpelli democratici o consultivi perché, come abbiamo già detto, tutta la questione è trattata sotto l’utile spinta dell’emergenza. Più o meno come funziona con le Grandi Opere!
Ed è proprio la Caritas presieduta da don Dino Pistolato che si pappa la fetta più grande della torta, anche grazie alle pressioni del Ministero che preme per soluzioni immediate e garantite.
Ma non avendo spazi sufficienti e guardandosi bene dal prendere in considerazione i posti letto che la Caracol avrebbe messo gratuitamente a disposizione, l’ente decide nella fase di “prima accoglienza” - durante l’estate 2011 - di parcheggiare molti dei migranti al porto di Marghera e in particolare all’interno di un capannone isolato dal resto della città costringendoli per settimane e anche mesi a dormire stando ammassati e senza avere dagli operatori Caritas alcun supporto.
Di male in peggio
Dopo questa prima fase di accoglienza assolutamente inadeguata, la Caritas decide di stipulare una serie di contratti d’affitto con appartamenti di privati e case di proprietà di altri enti, per la maggior parte della sfera cattolica. Quasi centocinquanta migranti gestiti dalla Caritas in provincia (più della metà del totale) vengono quindi alloggiati in una mezza dozzina di appartamenti situati in via Martiri della Libertà, via Ca’ Marcello, a Spinea. Alcuni anche a Venezia, nelle struttura chiamata le Muneghete di proprietà dell’Ire, Istituto Ricovero ed Educazione, altri in un albergo a Chioggia e in un ostello a Giare di Mira, sulla Romea.
Il nucleo più grosso, 24 persone, viene alloggiato proprio in questo stabile di via del Gaggian di cui abbiamo detto in apertura e che l’Opera Santa Maria della Carità gli affitta per la cifra non propriamente regalata di 12 mila euro al mese per due anni.
Altri migranti vengono dirottati verso altri enti come la Opere Riunite Buon Pastore i cui dipendenti sono “soci” della cooperativa “Il Lievito” che ha come presidente don Dino Pistolato, oppure la Fondazione Groggia che offre asilo ad alcuni minori e che ha pure lei come presidente don Pistolato, oppure la fondazione Mariport dove don Pistolato è solo nel consiglio di amministrazione. Ma il più, come abbiamo detto, viene assorbito dalla Caritas presieduta da don Dino Pistolato. Per completezza, bisogna segnalare che anche a Jesolo l’accoglienza non è stata un fiore all’occhiello e qui la Caritas non c’entra perché la gestione è andata alla Croce Rossa.
Ma torniamo a Venezia. Per far fronte ai bisogni degli “ospiti”, l’organizzazione cattolica si guarda bene dal rivolgersi a chi ha esperienza nel settore e preferisce assumere, tramite la sopracitata cooperativa sociale Il Lievito quattro operatori.
La convenzione con la Prefettura è quanto di meglio un contraente possa sperare perché non prevede nessuno, o quasi, controllo sulla gestione e sulla spesa. Quattro operatori, per quanto pieni di buona volontà, si rivelano chiaramente insufficienti nella proporzione per affrontare la situazione, anche per un’evidente carenza nella conoscenza delle lingue. Sebbene venga fatto uso di un paio di mediatrici linguistiche per l’arabo, non sempre possono essere presenti nei momenti di bisogno, dovendosi occupare di un centinaio di migranti. Persone reduci da una sanguinosa guerra e non di rado in difficili condizioni psicologiche, sparsi in una mezza dozzina di strutture tra Venezia, Mestre e l’entroterra. Da sottolineare che nessuno degli operatori aveva mai lavorato prima con richiedenti asilo e rifugiati. I controlli della Prefettura presso la struttura sono stati piuttosto tardivi e comunque insufficienti.
La situazione che si crea è a dir poco vergognosa. “Non avevano neppure lo spazzolino da denti - mi raccontava un ragazzo di Razzismo Stop - eravamo noi a dover provvedere ai bisogni più elementari. Inoltre la Caritas non ha mai organizzato neppure un corso di italiano o iniziato un percorso di inserimento lavorativo. Li hanno tenuti per due anni parcheggiati in quelle case e poi, quando il rubinetto dei finanziamenti statali si è chiuso, li hanno buttati per strada senza complimenti”.
"Cosa dovevo fare per non morire anche io?"
Riportiamo ora le impressioni di Diego, un ragazzo che è stato tra i primi ad avvicinare i profughi di via del Gaggian. “La prima volta in cui misi piede nella struttura di via del Gaggian per la compilazione di un modulo c3, ricordo che incontrai un ragazzo molto più giovane di quanto non risultasse dalle rilevazioni operate a Lampedusa da Save the children. Mi stupii fra l’altro di come parlasse un inglese piuttosto fluente considerato che mi era stato descritto come persona “quasi analfabeta” da parte degli operatori. Quando ci sedemmo per iniziare la stesura, di fronte a me si trovava una persona visibilmente sofferente sebbene non sembrasse accusare di un particolare male fisico; semplicemente ansimava, quasi gli risultasse faticoso respirare. Tra qualche singhiozzo ad interrompere le frasi che a stento gli uscivano dalla bocca, lo osservavo andare a ritroso con la mente a ricordare eventi dolorosi. Scene di battaglie, di guerriglia e morte. Il padre. Il fratello. Il pugno appoggiato al gelido tavolo si stringeva mentre l’indice dell’altra mano ripercorreva la cicatrice sulla guancia. Se n’era andato dal suo Paese perché non aveva più nulla a cui tenesse, per cui valesse la pena. Per non morire. Che altro c’era bisogno di sapere sulla sua vita, si chiedeva imprecando disarmato. E poi la Libia. Il razzismo verso chi in faccia porta una gradazione più scura, le difficoltà di vivere nell’utopia di ottenere un permesso di soggiorno, lo sfruttamento da parte di imprese edili europee. Infine ancora una guerra, una guerra che non gli apparteneva, come nessuna del resto; una guerra che però lo travolge. Privato di ogni cosa, spogliato non solo idealmente, a compiere l’ennesimo viaggio che lo spinge verso l’Italia. Accatastato in un Centro come altri migliaia, trasportato come un pacco a gonfiare qualche tasca. Perché rispetto ai finanziamenti si parla sempre di chi li esborsa, la collettività contribuente, di quale dovrebbe essere il loro eticamente alto utilizzo, quasi mai del fatto che chi effettivamente ne usufruisce non coincide con chi ne dovrebbe essere il destinatario. Se non troppo tardi e per creare scalpore, non di certo per sottolineare le conseguenze reali sulla vita delle persone. Ed è in questo quadro che nasce in un giovane ragazzo un pensiero, una volontà che a rigor di logica potrebbe sembrar paradossale, un urlo di sofferenza, tanta è la frustrazione, tanto il senso di impotenza per chi da mesi, da anni, vive in un tale stato di aleatorietà; per chi dopo tutto questo viene lasciato a passare le proprie giornate senza potervi dare un significato, anzi sentendosi incolpato. ‘Meglio tornare al mio Paese. Meglio tornare alla mia guerra, che non è mia e mai lo sarà, ma almeno mi permetterà di morire in piedi lottando per la mia vita. Qui mi è stato tolto anche questo diritto’.”
La partenza e il ritorno
Due anni dopo, quando il fondo del barile è stato raschiato, e oramai alla storia dell’emergenza non ci credono più neppure i giornalisti, per i migranti di via del Gaggian è l’ora di fare le valigie. E’ il febbraio del 2013. Il contratto d’affitto è scaduto. Alcuni partono per il nord Europa in cerca di un impiego. Altri si sistemano in alloggi in affitto a Mestre o nelle immediate vicinanze. Un gruppetto però rimane nella casa. Di loro nessuno si farà carico. Ci sono anche quattro coppie che potrebbero rientrare nella categoria cosidetta “vulnerabile” di “famiglie” ma, non avendo figli, questa protezione non gli può essere applicata.
Oramai questi migranti non fanno più reddito e continuano a vivere nella casa, dimenticati da tutto e da tutti.
Passano i mesi e se li conti anche i minuti. Piano piano, la casa torna a riempirsi. Sono quelli che non ce l’hanno fatta a mantenersi nel nuovo alloggio, quelli che hanno perso il lavoro e quelli che non lo hanno mai trovato. A far ritorno per ultimi sono quelli che erano andati all’estero con un permesso umanitario in tasca. Permesso che ha la validità di un anno e che per tre mesi ti consente di girare per l’Europa. Sono vittime di una assurdità burocratica che neanche Kafka avrebbe mai immaginato. Molti di loro avevano trovato lavoro in un altro Paese europeo ma hanno dovuto rinunciarci e rientrare in Italia per rinnovare il permesso di soggiorno. Salvo scoprire che questo, con la fine dell’emergenza, non può essere rinnovato proprio perché non hai più il lavoro.
Tra preti, denunce e tv rotte
Ora in via del Gaggian vive una cinquantina di persone. Sono per lo più migranti sub sahariani con alle spalle un paio di guerre e storie di fughe per mari e per deserti. Vivono come possono. C’è chi, come Mohammed ha un diploma di saldatore e ripara vecchie tv che gli portano i volontari della Chiesa Valdese, chi prova a sbarcare il lunario lavorando in nero come muratore. Le condizioni sono difficili, pure se tutti si danno da fare per mantenere in piedi la struttura. L’intasamento delle fognature al quale la proprietà non intende porre rimedio, certo non aiuta.
Come inevitabilmente accade, la struttura abbandonata a se stessa si è trasformata in un polo di attrazione anche per spacciatori di sostanze pesanti e di violenti. E’ notizia di qualche giorno fa, l’arresto di due persone che non fanno parte del gruppo di profughi inizialmente ospitato nella casa, per spaccio. “Da soli non abbiamo la forza o la possibilità di controllare chi viene a dormire - mi spiega un altro migrante -. Sono mesi che nessun operatore della Caritas si fa vivo. In queste condizioni, dormire qui rimane un pericolo anche per noi. Abbiamo paura ma non abbiamo altro posto dove andare”. E’ innegabile comunque che la struttura stia diventando un problema sociale, per la gente del quartiere quanto, come ha spiegato il migrante, anche per chi vi abita. Ma è anche evidente che la situazione non si risolve solo con una azione di forza, chiudendo la struttura e buttando per strada chi vi abita.
Lo ha ribadito anche il parroco della vicina chiesa di di San Lorenzo, don Andrea Favaretto. “E’ incredibile come i responsabili dell’epoca, Stato e Prefettura, si siano completamente disinteressati della questione - spiega -. Per quasi due anni i profughi sono stati assistiti ma non impegnati in lavori socialmente utili che li avrebbero edificati. Il Prefetto invita a fare un esposto per chiedere il suo intervento. Ma non poteva pensarci prima, prendendo in mano la situazione già sei mesi fa? I delinquenti devono essere allontanati ma chi ha davvero bisogno, invece, deve essere aiutato”. Don Andrea dimentica di citare anche la Caritas, assieme allo Stato e alla Prefettura, tra i responsabili, ma non gli si può chiedere più di tanto. In fondo, proprio dal volontariato vicino alla chiesa - parlo dell’associazione I Sette Nani che lavora alla Cipressina - sono state organizzate le uniche attività sociali volte ad aiutare i profughi, come corsi di cucina, di lingua, sagre e partite di calcio.
Eppure, tanto la pia Opera Santa Maria della Carità quanto la Caritas oggi premono per lo sgombero, pur se non sono ancora arrivare a chiederlo formalmente alla prefettura. Adducono questioni di decoro (su cui siamo tutti pronti a pontificare quando teniamo il sedere al caldo) e di sicurezza (altro termine che, assieme ad “emergenza”, viene sempre e regolarmente citato a sproposito). Non passa settimana che non ci tocchi leggere nei quotidiani cattolici e locali articoli di denuncia dai toni più o meno coloriti sul degrado in cui versa la strutture e sui rischi sociali che questa comporta all’intero quartiere. Ma la questione vera è che la Caritas vorrebbe riaffittare lo stabile per farne un centro contro la tossicodipendenza, un settore dove i “rubinetti” sono ancora aperti. Il proibizionismo serve anche a questo.
Intanto, in via del Gaggian. Mohammed continua a riparare le sue televisioni rotte. Quello è l’unico tetto che ha sulla testa e non ha nessuna intenzione di andarsene.

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