Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 aprile 2012

Lampedusa, il dramma dei profughi "Dieci di noi sono morti in mare"
I dieci sarebbero stati sul gommone soccorso ieri con 48 profughi a bordo
la Repubblica, 03-04-2012
Lampedusa, il dramma dei profughi "Dieci di noi sono morti in mare" Cadaveri di immigrati sulla banchina di Lampedusa
Ancora una tragedia della disperazione nelle acque del Canale di Sicilia. Dieci migranti, sei somali e quattro eritrei, sarebbero morti in mare durante la traversata tra la Libia e le coste italiane. Lo hanno riferito i 48 profughi soccorsi ieri a bordo di un gommone, che navigava a circa 60 miglia a Sud di Lampedusa, dalla nave Orione della Marina Militare e da una motovedetta della Guardia costiera.
Ieri, nel primo pomeriggio, la Nave Orione della Marina aveva soccorso un barcone in difficoltà con a bordo 48 migranti, di cui 12 donne (tre delle quali incinte), a circa 60 miglia a Sud di Lampedusa. L'Unità della Marina Militare, impegnata nel Canale di Sicilia in attività di vigilanza pesca e controllo dell'immigrazione, è intervenuta in seguito alla segnalazione di aereo di pattugliamento della Guardia Costiera. Il soccorso si è reso necessario per le condizioni del mare, l'approssimarsi del tramonto e per le precarie condizioni di galleggiabilità del natante. Sul punto è confluita anche una motovedetta della Capitaneria di Porto di Lampedusa. Il comandante della Orione, il Capitano di Fregata Luca Licciardi, designato comandante della scena d'azione dal Maritime Rescue Coordination Centre di Malta, ha disposto il trasbordo dei naufraghi sulla motovedetta, che si sta dirigendo verso Lampedusa sotto scorta della stessa Orione.



Giovani in carriera? Sono i cinesi d'Italia
Corriere della sera, 03-04-2012
DARIO DI VICO
Boran Shang ha 27 anni, si è laureato in finanza a Bologna e vorrebbe lavorare per un'azienda come Acqua di Parma o Fendi. Feng Xu di anni ne ha 31, è specializzato in siti web e si vuole occupare di commercio elettronico. Lin
Ma è una ragazza molto carina che ha studiato moda per 4 anni a Padova e ora cerca un impiego nel visual merchandising. Liu Jiahui detto Luigi ha 26 anni e aspetta un'azienda che lo assuma nel marketing dei prodotti di lusso.
Nello slang dei giovani cinesi d'Italia questi ragazzi sono dei «banana», gialli e asiatici fuori quanto bianchi e occidentali dentro. Sono loro la nuova frontiera del business delle aziende italiane che vogliono sbarcare in Cina e cercano le professionalità giuste, qualcuno che conosca entrambi i mondi e possa legarli.
Dei giovani immigrati cinesi di seconda generazione sentirete parlare sempre più spesso. Sono loro i veri protagonisti della «primavera di Prato», del timido tentativo delle due comunità in riva al Bisenzio di parlarsi, di superare la politica della chiusura. I giovani cinesi nati negli anni 80 sono stati la prima ondata, alcuni si sono integrati e altri no ma in fondo hanno dissodato il terreno. I nati negli anni 90 hanno il passaporto italiano, mordono il freno, frequentano gli occidentali più che la loro comunità. Ieri in 150 erano a Milano nei saloni dell'Assolombarda chiamati dalla Fondazione Italia-Cina per quello che sta diventando un appuntamento tradizionale, il Career day. Il giorno in cui le grandi aziende italiane, dalla Barilla alla Brembo, da Fendi all'Iveco, da Prada alla Manuli, mandano i loro uomini delle risorse umane e in un pomeriggio passano in rassegna ciascuno una cinquantina di ragazzi cinesi. Come Lu Lu, nata a Pechino e arrivata a Milano per specializzarsi in disegno industriale al Politecnico. Lei ha passaporto cinese, è orgogliosa del suo Paese e un po' preoccupata del destino politico dell'Italia. «Vi vedo un po' spenti» dice.
I genitori di molti di questi ragazzi sono i titolari dei ristoranti cinesi presenti in tutte le città d'Italia. Una generazione abituata a soffrire e che dopo averne viste di tutti i colori vuole per i figli un futuro da manager e non da camerieri. Sperano che il made in Italy li ingaggi per «fare avanti e indietro» tra Milano e Shanghai come sogna Sun Yu Xue, una ragazza di 22 anni che ha già fatto la commessa da Bottega Veneta e vuole però mettere a frutto i suoi studi milanesi e fare la stilista. Le aziende italiane guardano con curiosità a questi giovani. Preferiscono prendere loro piuttosto che un «uovo», come è chiamato in gergo un occidentale che sta da troppo tempo in Cina. È rimasto bianco fuori ma ormai dentro è giallo, troppo simile agli asiatici. «Solo oggi abbiamo incontrato 60 ragazzi — dice Stefania Vino, manager della Vibram (scarpe) —. Hanno un grande spirito di iniziativa e rappresentano un veicolo per far conoscere il prodotto italiano più velocemente». Le fa eco Elisabetta Giannoni della multinazionale Ralph Lauren: «Sono giovani curiosi, innovativi e che vivono con la valigia pronta». E disponibili a fare anche un'esperienza da commessa negli show room per turisti. «È utile per capire i clienti» dicono.
Che i giovani italo-cinesi amino le griffe della moda italiana lo si vede da come sono vestite le ragazze e dalle mani che si alzano quando dal banco delle chiamate si sente arrivare una parola magica tipo Prada. Lu, Liu, Chang e gli altri amano sempre di più il loro Paese, godono nel sentir dire che ormai è la seconda potenza mondiale e dell'Italia parlano con aria bonaria. «Siete capaci di godervi la vita ma rischiate di diventare un Paese sorpassato» dice Lin Ma. Boran Shang vive a Forlì ma si considera un cosmopolita, è fidanzato con una ragazza slovacca, da noi ha lavorato da Yoox e pensa che la Cina abbia bisogno della tecnologia e del management italiano ma quando parla del nostro Paese ci ammonisce: «Non crescete e quindi resterete indietro». Il mondo per i giovani asiatici assomiglia a un treno ad alta velocità e l'Italia è il vagone di coda che rischia di staccarsi da un momento all'altro. Chi resterà di sicuro a Milano è Chang Ju-Lan: ha sposato un italiano conosciuto a Londra quando studiava, ora ha tre figli e fa l'interprete free lance. Cerca un'azienda che la faccia viaggiare ma non si trasferirà. «Da voi vivo divertita e rilassata».



Immigrati, l'appello della diocesi "Cittadinanza ai minori nati in Italia"
Una lettera del consiglio pastorale della diocesi di Milano ai parlamentari italiani ed europei
e ai consiglieri regionali : "Serve una riforma delle norme sull'acquisizione della cittadinanza"
la Repubblica, 02-04-2012
Il consiglio pastorale dell'arcidiocesi di Milano, in una lettera indirizzata ai parlamentari europei e nazionali e ai consiglieri regionali della Lombardia residenti nella diocesi di Milano, chiede che venga riconosciuta la cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia. Il consiglio pastorale ha reso pubblico il documento frutto di un lavoro iniziato il 5 giugno scorso sul tema 'I migranti: per una pastorale e una cultura del vivere insieme'. La conclusione a cui è giunto il consiglio diocesano è che occorre, "come comunità cristiana, affrontare le sfide dell'immigrazione non solo sul piano degli interventi caritativi ed emergenziali ma anche e soprattutto su quello educativo, culturale e pastorale, affinché si pongano le condizioni di quel 'vivere insieme' (convivenza) principale obiettivo da perseguire di fronte all'attuale fenomeno migratorio".
Il consiglio pastorale diocesano auspica "un sereno confronto tra politici e istituzioni per una valutazione serena e obiettiva delle norme sull'immigrazione, in rapporto al rispetto della dignità umana, alla tutela della vita e della famiglia, alle esigenze di giustizia sociale". Dando esecuzione a una specifica mozione, la giunta del consiglio pastorale diocesano, sentiti il coordinamento diocesano associazioni, gruppi, movimenti ecclesiali, ha rivolto ai politici un appello "affinché promuovano una riforma delle norme sull'acquisizione della cittadinanza italiana, riconoscendola ai minori stranieri nati in Italia, senza dover attendere la maggiore
età, eliminando così limitazioni a diritti e facoltà ingiuste e non comprensibili per chi è di fatto sin dalla nascita inserito nella vita civile e sociale del Paese".
L'auspicio è che "i rappresentanti del potere legislativo colgano l'occasione per porre mano a una riforma semplice, ma di alto valore civile, auspicata anche dal capo dello Stato". L'appello "non intende indicare una soluzione legislativa specifica, ma vuole sollecitare che si affronti finalmente la questione, superando una situazione oggettivamente ingiusta, che vede gli stranieri nati in italia dover attendere necessariamente la maggiore età per diventare cittadini".



L’immigrato che sfiderà Tosi
Per la prima volta uno straniero si candida a sindaco di Verona
Giornalettismo, 03-04-2012
Un immigrato contro il sindaco della Lega. Si chiama Ibrahima Barry ed è un operaio di 49 anni nato in Guinea, il primo candidato di origini straniere alla carica di amministratore della città di Verona. Alle prossime comunali sfiderà l’amata camicia verde Flavio Tosi.
“DALLA PARTE DEI PIU’ DEBOLI” – Parla di lui L’Arena:
    Per la prima volta Verona ha un candidato sindaco immigrato. Si chiama Ibrahima Barry e si è presentato ieri mattina, in piazza Bra. Sposato, con quattro figli, è nato in Guinea nel 1963 ed è diventato cittadino italiano nel 2009, dopo 24 anni trascorsi nel nostro Paese, di cui gli ultimi 15 in terra scaligera. Il caso di Barry, tra i pochi in Italia, segue le candidature a sindaco avanzate da immigrati in altre città, tra cui la Milano delle ultime elezioni comunali e, in questi giorni, Genova. «Ora la sfida tocca anche Verona, caricandosi di ulteriori significati politici», dice Barry, che si propone per la carica di primo cittadino con il sostegno del Partito di Alternativa Comunista, Lega Internazionale dei lavoratori-Quarta Internazionale.
LA STORIA – Il candidato-immigrato in Italia ha trovato impiego come operaio dopo un corso biennale:
    Falce e martello in chiave trotzkista, ma rivisitati ai tempi della crisi economica: «Ci interessa stare dalla parte delle fasce sociali più penalizzate. E quindi gli immigrati, certo,ma anche gli italiani con difficoltà sul lavoro o disoccupati, anziani con pensioni da fame, casalinghe, giovani che non riescono a trovare un’occupazione. Senza distinzioni diprovenienza, religione e ceto», elenca Barry. La sua storia inizia in Guinea 49 anni fa. «Nel mio Paese d’origine ho compiuto gli studi dalle elementari alle scuole superiori.Poi, grazie a una borsa di studio, mi sono spostato in Tunisia per frequentare l’università, laureandomi in Scienze. La decisione di venire in Italia risale al 1988, motivata dalla ricerca di maggiori opportunità lavorative». Opportunità che, però, non rispondonoappieno alle aspettative. «Con un corso biennale ho ottenuto la qualifica di operaio elettromeccanico. Ma nonostante la mia specializzazione, sono sempre stato assunto e retribuito come operaio generico, salvo poi svolgere funzioni specifiche.
STUDIO, LAVORO, LOTTA – La violazione dei diritti dei lavoratori hanno spinto Barry a partecipare alle lotte sindacali. Continua L’Arena:
    Per questa cattiva abitudine dei datori di lavoro, praticata anche sugli operai italiani, ho iniziato a interessarmi dei diritti dei lavoratori». E lo fa, partecipando alle lotte sindacali della Confederazione unitaria di base. Barry è sostenuto anche dal Coordinamento migranti, con sede in Veronetta, guidato da Moustapha Wagne: «Appoggiamo questa iniziativa perché da tempo abbiamo chiesto ai partiti maggiori di poter aggiungere la nostra voce nello scenario politico, ricevendo solo rifiuti», spiega Wagne. «Il nostro candidato ha trovato accoglienza in un partito che non si è reso complice dello sfruttamento dei lavoratori immigrati e nativi». La candidatura di Barry e il suo programma saranno presentati sabato 14 aprile, durante una festa organizzata dal Coordinamento migranti.



Sarkozy, Tariq Ramadan e la Verità sulle Stragi
Corriere della sera, 03-04-2012
IAN BURUMA
Che cosa mai può essere passato per la testa a quel giovanotto francese,
di fede islamica, certo Mohamed Merah, per spingerlo ad assassinare brutalmente tre scolaretti ebrei, un rabbino e tre soldati, due dei quali musulmani come lui? Che cosa mai può essere passato per la mente a un altro uomo, tale Anders Breivik, per crivellare di pallottole una sessantina di adolescenti in un campo estivo in Norvegia? Questi massacri sono talmente inusuali da spingere tutti noi alla ricerca angosciata di spiegazioni.
Chiamare «mostri» questi assassini aiuta poco. Perché non di mostri si tratta, bensì di giovani maschi. E accantonare il problema tacciandoli di matti equivale ad assumere un atteggiamento altrettanto ambiguo.
Due ipotesi emergono dall'accavallarsi confuso di commenti da parte di politici e giornalisti, entrambe di natura sociopolitica. La prima porta la firma del discusso attivista musulmano, Tariq Ramadan, il quale accusa la società francese. In particolare, Ramadan denuncia il fatto che i giovani francesi di origine musulmana vengono emarginati per la loro fede e per il colore della loro pelle. Hanno il passaporto francese, eppure sono trattati come forestieri non graditi. Quando il presidente francese Nicolas Sarkozy, egli stesso figlio di immigrati, dichiara che ci sono troppi stranieri in Francia, contribuisce a spingere ancora di più in un angolo tanti giovani come Merah. E una piccola minoranza di questi giovani potrebbe essere tentata di reagire in maniera sconsiderata, sotto la spinta della disperazione.
L'altra ipotesi, per la quale propende lo stesso Sarkozy, è di prendere Merah in parola. Ha detto che voleva vendicare il massacro dei palestinesi e combattere contro lo Stato francese alla stregua dei guerrieri islamici. Si era ispirato ad Al Qaeda. E allora perché non credere alle sue parole? Di qui la decisione di Sarkozy di ordinare una retata di musulmani sospettati di estremismo islamico e di sbarrare le frontiere a certi imam, impedendo loro di partecipare a un convegno religioso in Francia. Chi vede nell'estremismo islamico la radice del problema tende anche a considerare i giovani assassini come Merah quali esempio di integrazione fallita. Non sono mai diventati sufficientemente francesi. Gli immigrati devono accettare e condividere i «valori occidentali».
Nessuno tuttavia mette in dubbio che Anders Breivik non fosse sufficientemente norvegese, sarebbe assurdo. Ma anche lui potrebbe essere preso in parola. La retorica della demagogia xenofoba l'aveva convinto che sterminare i figli delle élite socialdemocratiche serviva a proteggere la civiltà occidentale contro i pericoli del multiculturalismo e dell'Islam.
Nessuna delle due ipotesi è del tutto errata. Molti giovani musulmani si sentono indesiderati nei Paesi di nascita e il linguaggio del fondamentalismo — che sia impiegato dagli islamisti o dai loro avversari — non fa altro che creare un'atmosfera favorevole alla violenza. Tuttavia, tanto Ramadan che Sarkozy offrono spiegazioni semplicistiche, inadatte a catturare il senso di queste stragi eccezionali. Perché anche quando si scontrano con il rifiuto e l'indifferenza, nella stragrande maggioranza i giovani musulmani non si trasformano in assassini assetati di sangue. Merah rappresenta un caso eccezionale, non incarna un esempio tipico di nulla, tanto meno di discriminazione razziale o religiosa.
Lungi dall'essere un fanatico religioso, Merah è cresciuto da piccolo delinquente di quartiere, senza alcun interesse per la religione. La lusinga irresistibile dell'estremismo islamico è stata forse per lui la violenza, anziché il contenuto religioso. Si divertiva a guardare i video delle decapitazioni, girati dagli jihadisti. Aveva persino tentato di arruolarsi nell'esercito francese e nella Legione straniera, ma l'esercito l'aveva respinto a causa dei suoi trascorsi con la giustizia. E così, deve essersi detto, se i francesi non lo volevano, si sarebbe arruolato nella guerra santa. Qualunque cosa che potesse dargli un senso di potenza e una scusa per abbandonarsi ai suoi impulsi criminali. Molti giovani maschi si sentono attratti da fantasie di violenza, ma ben pochi cedono all'impulso di trasformarle in realtà. L'ideologia può servire da scusa o da giustificazione, ma assai di rado rappresenta la motivazione principale dei singoli atti di brutalità. I massacri sono molto più spesso forme di vendetta personale, per mano di infelici pronti a distruggere il mondo che li circonda perché si sentono umiliati e respinti, sotto il profilo sessuale, sociale o professionale.
Non di rado, è difficile individuare una vera e propria motivazione delle stragi, come nel caso della scuola Columbine, dove un paio di ragazzi uccisero 12 studenti e un insegnante nel 1999. In quel caso, si puntò il dito contro i videogame e i film violenti e sadici che gli assassini amavano guardare. Eppure, la stragrande maggioranza degli appassionati di questi generi non si sogna neppure di afferrare un'arma per trucidare i compagni di scuola. Nelle sue allucinazioni, Breivik si vedeva in veste di cavaliere a sgominare i nemici dell'Occidente. Merah sognava di essere uno jihadista. E chissà che cosa pensavano di fare gli autori del massacro della Columbine. I motivi per cui tutti costoro hanno ucciso affondano nella loro stessa mente e non possono essere attribuiti ai materiali o alle ideologie che li hanno ispirati. L'incitamento all'odio e alla violenza svolge un ruolo non marginale, ma farne la principale motivazione delle azioni di individui come Breivik e Merah potrebbe trarci in inganno. La soluzione del problema non sta certo nella censura. In Germania non si fermano i neonazisti vietando il Mein Kampf di Hitler o l'esibizione di simboli nazisti. Per eliminare stupratori e giovani assassini non basta vietare la pornografia sadica e violenta. Un futuro Anders Breivik non verrà fermato impedendo ai demagoghi di farneticare contro i musulmani e la società multietnica. E vietare l'entrata in Francia agli imam radicali non fermerà un nuovo Merah dal progettare e mettere in atto sanguinose stragi.
Piuttosto, paragonare le azioni brutali di Merah all'11 settembre, come ha fatto Sarkozy, è conferire fin troppo onore all'assassino. Non esistono prove che faccia parte di un qualunque gruppo organizzato o che rappresenti le avanguardie di un movimento rivoluzionario. Sfruttare il caso per rinfocolare i timori di una minaccia islamica contro la società sarà pure un espediente elettorale per Sarkozy, ma far leva sulla paura non è mai il sistema migliore per evitare violenze future. Anzi, serve solo ad alimentarle.
(traduzione di Rita Baldassarre)



Mosca, incendio in mercato muoiono 12 operai immigrati
Le fiamme si sono sviluppate in un hangar di un mercato coperto nella zona sud della capitale russa. Le vittime sono lavoratori tagiki che dormivano in una baracca di lamiera. La strage causata probabilmente da una stufa elettrica
la Repubblica, 03-04-2012
MOSCA - Dodici operai originari del Tagikistan sono morti nell'incendio di un hangar di un mercato coperto a sud di Mosca. Si tratta dell'ennesima tragedia dell'immigrazione in Russia: i lavoratori dormivano in una baracca di lamiera senza finestre, "in una situazione di promiscuità terribile, su brande sovrapposte su quattro livelli", come ha riferito un portavoce della protezione civile cittadina.
L'incendio, scrive la Ria Novosti, si è verificato all'alba in un hangar di due piani che sorge nell'area del mercato Kachalovsky sulla Varshavskoye Shosse. L'edificio era utilizzato dai venditori del mercato. I dodici immigrati avevano acceso una stufetta elettrica che probabilmente è andata in corto circuito. Di fronte al divampare delle fiamme, gli immigrati si sono trovati senza vie di fuga e sono morti carbonizzati. Le fiamme sono state domate dopo tre ore. Per estrarre i loro cadaveri, i vigili del fuoco hanno dovuto tagliare la lamiera della baracca.
Le pessime condizioni di vita e di lavoro delle vittime sono abbastanza diffuse in Russia tra gli immigrati provenienti dalle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, impegnati generalmente nei lavori più umili, soprattutto in cantieri e mercati.
 

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