Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Dentro una gabbia di ferro aspettando Godot con le scarpe senza lacci

Dentro una gabbia di ferro aspettando Godot con le scarpe senza lacci
I Centri come un limbo psicotico dove i “trattenuti” guardano la tv invece di vivere e lavorare “Niente infermieri marocchini così l’ospedale funziona”
ELENA STANCANELLI
LORO dicono che è anche peggio del carcere, perché è insensato. Finire in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) come quello di Ponte Galeria a Roma (erano undici, ne sono rimasti a pieno regime cinque in tutta Italia) significa precipitare in un mondo kafkiano, indecifrabile e insensato.

Un universo concentrazionario, un non-luogo, il crocevia dove Vladimiro ed Estragone aspettano Godot. Arrivando in questo fabbricato sinistro, percorrendo i corridoi nati decrepiti, sedendo su panche inchiavardate sul cemento, si ha la sensazione di trovarsi in un luogo che la letteratura aveva previsto. Ecco quello che temevamo, il paesaggio partorito dal nostro novecentesco disagio. Ed ecco il rimosso, lo scarto di irrazionalità che le nostre società producono. Stavo lavorando, ci spiega uno dei ragazzi che incontriamo, stavo vendendo il pesce al porto di Pescara, e mi hanno portato via. Perché il mio permesso di soggiorno era scaduto. Non si arriva qui perché si è rubato, o ucciso, o spacciato, ma perché si è clandestini. Fino a oggi è un reato, nel nostro Paese, ma da domani potrebbe essere una vocazione, un destino avventuroso.
Lo è stato, lo è ancora in altri Paesi. Ti portano in un Centro ti tolgono i vestiti e ti consegnano una tuta da ginnastica, un paio di ciabatte o di scarpe senza lacci, ma ti lasciano il cellulare. Anche le regole dentro i Centri, rispetto
al carcere, rispondono a criteri misteriosi. Non si possono tenere penne né libri, è consentito usare i fiammiferi ma non gli accendini, si possono incontrare i visitatori come noi senza il diaframma delle sbarre ma la struttura architettonica è formata da un sistema concentrico di sbarre di ferro.
Si entra in una gabbia, che contiene un’altra gabbia, che contiene un’altra gabbia... Una matrioska di disperazione, la chiama il senatore Luigi Manconi che ci accompagna e che ha il compito, tra gli altri, di recapitare ai “trattenuti” una lettera del presidente Napolitano in risposta alle loro richieste. Trattenuti. I Centri sono luoghi nei quali persino parole e cose si scollano. Si è detenuti ma non incarcerati, nell’eventualità che uno dovesse riuscire a fuggire non potrebbe essere perseguito
per evasione, ma guardie e militari li sorvegliano esattamente come se stessero scontando una pena. Si mangia, ma non ci sono cucine. Il cibo entra nel Centro grazie a un catering garantito dalla società che ha in appalto la gestione. A differenza di quanto avviene nella carceri, non si può cucinare da soli. I fornelletti sono vietati, ma in cambio, con un buono da sette euro al giorno, è possibile comprare ricariche per il telefonino, caffè, patatine e dolcetti nel distributori automatici. Alle tre apre lo spaccio, a quell’ora
le donne possono andare a rintracciare i loro oggetti personali, darsi un po’ di profumo per esempio, ma poi li devono restituire. I ragazzi, circa cinquanta uomini e venti donne, ci tengono a mostrare che parlano bene la nostra lingua. Uno di loro, originario della Tunisia, è in Italia da vent’anni. Stavo andando a fare la spesa, racconta, quando mi hanno fermato e portato qui. Due mesi fa. Due, tre dieci, fino a diciotto mesi secondo quando ha stabilito l’Unione europea come tetto massimo. Un tempo che dovrebbe
servire soltanto a identificare le persone trattenute. Questo è lo scopo dei Cie: dare un nome alle persone. Attraverso consolati, relazioni coi paesi di origine che non collaborano, incroci di informazioni. Per farlo, ripeto, ci mettiamo anche un anno e mezzo. Il tempo di permanenza nel Centro è imprevedibile e quindi non può essere comunicato. I trattenuti stanno lì, in questo limbo psicotico, a non fare niente. Non sono previste attività, come avviene invece in un carcere. Un ragazzo marocchino, sbarcato a Lampedusa su un nave scampata al naufragio — l’altra, quella che viaggiava insieme alla sua, è affondata — non parla l’italiano. Era in Libia, lavorava come macellaio, ma è dovuto scappare dall’inferno di un paese a pezzi. L’italiano non lo imparerà, perché nessuno glielo
insegna. Non è previsto un suo reinserimento, a differenza di quanto avviene, almeno in teoria, in un carcere: sta lì in attesa di essere rimpatriato. E costa allo Stato una cinquantina di euro al giorno. Peccato che solo il 40% del trattenuti nel Centri finirà davvero sugli aerei che li riportano nel luogo dal quale sono scappati. Affrontando, come sappiamo, viaggi che sono vere ordalìe.
Un ragazzo algerino di ventotto anni racconta il suo: avevo tredici anni, e nessuna speranza. Mi sono attaccato sotto un camion, a Casablanca. Sono rimasto nascosto là sotto per sette giorni, fin quando non abbiamo raggiunto il confine tra la Spagna e la Francia (qui ha chiamato un numero di telefono, qualcuno gli ha dato un po’ di soldi ed è riuscito ad arrivare a Torino). Sono stato in una casa famiglia, sono scappato, mi hanno portato in un Centro, poi in un altro, e in un altro.
Sono palline di un flipper demente. Ognuno di loro è stato sballottato su è giù per l’Italia, è entrato e uscito da un Centro, ha perso anni e anni in balia di una giustizia incomprensibile. Anni in cui avrebbe potuto lavorare, fare figli, pagare le tasse. Invece non fanno altro che dormire, nelle camerate da otto letti c’è un televisore acceso a volume basso. Le ragazze guardano Masterchef, e hanno tappezzato le pareti con le pagine di una rivista. Gli uomini, ogni tanto, giocano a calcio. Perché, ci chiedono. Già, perché?
la Repubblica, 08-02-2014

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links