Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

28 giugno 2012

Alla Scuola di Polizia Lampedusa protagonista
l'Unità, 28-06-2012
Lunedì scorso, presso la Scuola Superiore di Polizia a Roma, è stato presentato Lampedusa non è un’isola. Profughi e migranti alle porte dell’Italia (scaricabile dal sito abuondiritto.it), pre-Rapporto 2012 sullo stato dei diritti curato da A Buon Diritto Onlus. All’incontro hanno partecipato il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il capo della Polizia Antonio Manganelli, il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli, il sottosegretario all’Interno Saverio Ruperto; e un centinaio di futuri commissari. Presentare in quella sede un rapporto su tematiche così delicate, evidenziando le tante criticità e le molte carenze dell’azione delle istituzioni, comprese quelle lì rappresentate al più alto grado, è già di per sé inconsueto. Ancor più, se si tiene conto del merito di alcuni interventi. Il professor Flick ha messo al centro del dibattito il concetto di dignità e di come questo debba essere il riferimento per gli operatori chiamati a lavorare sul campo; e ha insistito sul progressivo esaurirsi della tradizionale distinzione tra migranti economici e profughi, sostenendo che nell’attuale situazione di crisi globale, le due categorie si rivelano inadeguate.
Il prefetto Manganelli ha sottolineato l’importanza formativa dell’incontro per gli allievi della Scuola e ha voluto ricordare la situazione di invisibilità dei minori stranieri (oltre 2mila di loro, documenta il rapporto di A Buon Diritto, sono stati trattenuti illegalmente anche per settimane nei centri di identificazione); ha affrontato, inoltre, il tema del riconoscimento della cittadinanza per quei bambini nati nel nostro Paese da genitori non italiani. Particolarmente interessante è stato l’intervento del capo della Protezione Civile. Il prefetto Gabrielli ha evidenziato le difficoltà incontrate dal suo dipartimento nella gestione degli arrivi dal nord Africa nel 2011. La decisione da parte del governo di decretare lo stato di emergenza – anche se, e i numeri lo confermano, di emergenza non si trattava – ha costretto la Protezione Civile a occuparsi di una situazione non di sua stretta competenza.
E proprio sulla questione dell’accoglienza dei migranti, Gabrielli ha dovuto ammettere i gravi limiti emersi. I fondi stanziati potevano essere richiesti da chiunque avesse disponibilità di posti letto. Questo ha fatto sì che, oltre a soggetti con precedenti esperienze, si proponessero alberghi o singoli cittadini: questa scelta, di per sé non criticabile, avrebbe dovuto essere sostenuta e completata da tutti quei servizi che generalmente accompagnano il percorso di “integrazione” (scuola di italiano, assistenza legale e sanitaria, orientamento ai servizi sul territorio… ). Nella maggior parte dei casi questo non è stato fatto, e si sono create delle strutture dormitorio in cui domina la più totale inattività e, di conseguenza, un desolante abbandono. E, dal momento che al peggio non c’è mai fine, anche queste gracilissime strutture potrebbero non ricevere più alcun finanziamento. Consegnando oltre 20mila persone a una condizione, se possibile, ancora più precaria.



Diminuiscono i detenuti stranieri nelle carceri italiane, a maggio erano il 36% del totale.
Report della Fondazione Ismu, detenuti stranieri scesi sotto le 24 mila unità.
Immigrazioneoggi, 28-06-2012
Alla fine dello scorso aprile, i detenuti stranieri nelle carceri italiane sono tornati sotto quota 24mila unità, pari al 36% della popolazione carceraria complessiva (nel 2007 erano il 37%, contro il 15% del 1991). Essi rappresentano il 42% tra gli imputati, il 33% tra i condannati definitivi e solo il 12% tra gli internati.
È quanto emerge dal report quadrimestrale diffuso dalla Fondazione Ismu attraverso la newsletter.
Al 1° gennaio 2012 – si legge – è straniero il 95% del totale dei carcerati per contravvenzione alle leggi rispetto all’ingresso e al soggiorno regolare in Italia. Il 79% di chi commette reati connessi alla prostituzione è straniero, percentuale che scende al 44% per droga e al 39% per i reati contro la pubblica amministrazione. Le percentuali più basse di stranieri si segnalano per i reati di stampo mafioso (1%), per quelli contro l’economia pubblica (3%), per la violazione della legge sulle armi (8%). Gli ergastolani sono lo 0,4% dei detenuti fra gli stranieri e il 5,8% dei detenuti fra gli italiani.



Diritti umani, l’Italia arranca
Ong e associazioni “controllano” lo stato delle cose dopo le 92 raccomandazioni ricevute dal nostro Paese
Manca la legge contro il reato di torura e i migranti sono poco tutelati
l'Unità, 28-06-2012
Umberto De Giovannangeli
Una radiografia dettagliata dello stato dei diritti umani in Italia. Uno stato ancora deficitario. Una verifica puntuale del rispetto da parte del nostro Paese delle 92 raccomandazioni ricevute dall’Italia due anni fa dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani. Un lavoro di straordinaria importanza, quello fatto da 86 Ong e Associazioni della società civile italiana, sintetizzato in un rapporto presentato ieri a Roma nella sede della Fnsi.
«Sono trascorsi due anni da quando il Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, attraverso la Revisione Periodica Universale, espresse 92 raccomandazioni all’Italia sullo stato dei diritti umani nel nostro Paese spiega Carola Carazzone, portavoce del Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani-. Con questo rapporto le Ong e associazioni del Comitato italiano intendono tenere alta l’attenzione e il dibattito su questi temi. Ad oggi il governo italiano non ha ancora tradotto il testo e siamo in attesa di un mid term report, così come auspitcato dal Consiglio. Chiediamo quindi al Governo di preparare, seguendo l’esempio di altri paesi dell’Unione Europea, un Rapporto di follow up a medio termine, di inviarlo all’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e di prodigarsi per dare attuazione alle raccomandazioni». «Priorità aggiunge Carazzone venga data alla costituzione di un’Istituzione nazionale indipendente per i diritti umani in Italia, essendo il nostro l’unico paese dell’Ue privo di un meccanismo garante e indipendente, la previsione del reato di tortura nel nostro codice penale, la protezione dei diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati, delle donne vittime di violenza e dei detenuti e il diritto all’informazione libera e indipendente».
SITUAZIONE CRITICA
Alcuni focus particolarmente significativi. Reato di tortura: il 20 maggio 2011 l’Italia è stata riconfermata Stato membro del Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite per il triennio 2011-2014. In fase di candidatura per il secondo mandato, il Governo italiano ha indicato gli impegni volontari in materia di diritti umani che intende perseguire: pesa, tra questi, l’assenza di una precisa intenzione a introdurre il reato di tortura nell’ordinamento penale interno. Su questa grave inadempienza, suffragata dal respingimento della raccomandazione numero 8 da parte del Governo italiano nel 2010, grava anche il mancato richiamo alla ratifica del Protocollo opzionale del Consiglio d’Europa contro la tortura (Opcat).
In materia di riconoscimento dello status di rifugiato non esiste tuttora una legislazione organica; le Commissioni Territoriali per il riconoscimento della Protezione Internazionale emettono troppo spesso dinieghi alle domande di riconoscimento, costringendo i richiedenti a fare ricorso giurisdizionale per vedersi riconosciuto il loro status. Nel rapporto, si rileva un’inadeguatezza pesante nel sistema generale di accoglienza, al di sotto degli standard minimi europei.
Tratta: la manovra di bilancio per il 2011 ha segnato un drastico taglio ai fondi statali per le politiche sociali, abbassando gli stanziamenti di bilancio da 1472 milioni di euro del 2010 a 349,4 milioni di euro (2520 nel 2008, e 271,6 previsti per il 2013). Fra le diverse conseguenze, il 1 agosto 2010, per ridurre i costi del servizio, sono stati chiusi i 14 uffici territoriali del numero verde salva-prostitute per sostituirli con un’unica postazione centrale. In virtù del pacchetto sicurezza Legge 15.07.2009 n ? 94 che introduce il reato di clandestinità come reato penale, la politica migratoria italiana si è orientata fortemente verso la repressione del fenomeno dell’immigrazione clandestina, e questa fattispecie si è sovrapposta alla necessità di individuare e sostenere le vittime della tratta.
Diritti delle persone minori di età che vivono nel nostro Paese. Per quanto riguarda l’accesso all’istruzione rileva il rapporto e la scolarizzazione dei bambini Rom e Sinti restano ancora irrisolti i problemi legati alla frequenza e all’abbandono scolastico. Sarebbero almeno 20 mila i Rom sotto i dodici anni, in grandissima parte rumeni e dell’ex Jugoslavia, che evadono l’obbligo scolastico in Italia e si stima che «i restanti coetanei Rom e Sinti siano in un generalizzato ritardo didattico di non meno di tre anni». Inoltre, le condizioni abitative, il minor tasso di scolarità, le difficoltà di accesso ai servizi sanitari sono tra i fattori di rischio per la salute delle persone di origine Rom, in particolar modo per i minori.
In tema di autonomia dell’informazione, le raccomandazioni all’Italia del Consiglio Onu per i diritti umani continuano a cadere nel vuoto, rimarca Roberto Natale, presidente della Fnsi. «Nell’ultimo anno spiega Natale il Governo è cambiato, ma non è cambiato il sostanziale disinteresse a risolvere la concentrazione delle risorse, la soffocante sudditanza del servizio pubblico, il conflitto di interessi».



IMMIGRATI: SBARCO A CATANIA, FERMATI 4 SCAFISTI
(AGI) - Catania, 28 giu. - Quattro dei 115 immigrati, sedicenti tunisini e egiziani, sbarcati a Catania ieri sera, sono stati fermati dalle forze dell'ordine con l'accusa di essere gli scafisti del peschereccio su cui ha viaggiato il gruppo. I provvedimenti, che ipotizzano il reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, sono stati emessi dai sostituti procuratori Enzo Serpotta e Alessandro Sorrentino. Indagini sono in corso tra gli extracomunitari, trasferiti nella scuola "Andrea Doria", per identificare eventuali altri esponenti dell'equipaggio.



Immigrati, chi perde il lavoro non perderà il permesso di soggiorno
La riforma del mercato del lavoro, appena approvata, contiene una buona notizia per i lavoratori stranieri. Chi non lavora più, infatti, non dovrà lasciare il nostro Paese e resterà iscritto negli uffici di collocamento in attesa di una nuova occupazione, per almeno un anno. Fino ad oggi la durata era di sei mesi.
VLADIMIRO POLCHI
ROMA  -  La riforma del mercato del lavoro, approvata in via definitiva alla Camera, contiene una buona notizia per i lavoratori immigrati. Chi perde il lavoro, infatti, avrà un permesso di soggiorno per attesa occupazione, lungo almeno un anno (oggi scade dopo sei mesi).
L'annuncio. È dallo scorso febbraio che il governo parla di allungare ad un anno la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione. "Un anno di tempo o più in caso di cassa integrazione, indennità di disoccupazione e ammortizzatori sociali, invece di sei mesi", aveva annunciato il sottosegretario al Welfare, Maria Cecilia Guerra. Oggi chi perde il lavoro ha solo sei mesi di tempo per cercarne un altro, pena la scadenza del permesso. "Sei mesi per ritrovare un lavoro mi sembrano pochi - aveva detto anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini nel maggio 2010 - vista la congiuntura economica andrebbe previsto almeno un anno".
La legge. La nuova riforma del mercato del lavoro - all'articolo 4, comma 30 - allunga la durata del permesso di soggiorno per i neodisoccupati stranieri, "per un periodo non inferiore ad un anno ovvero per tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero, qualora superiore".



Flussi migratori in calo "No, in Italia meglio di no"
La crisi scoraggia i migranti. Secondo l'Ocse 1, che indica una diminuzione degli arrici per il terzo anno consecutivo. Attualmente in Italia ci sono 4,57 milioni di immigrati, oltre a 60.300 persone irregolari. Sulla Cittadinanza Monti ha detto a Famiglia Cristiana che non intende «scompaginare» la maggioranza su questa riforma
la Repubblica, 27-06-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA – La crisi frena i flussi migratori, soprattutto verso l’Italia. Come dire: "No, in Italia meglio di no". Lo segnala il rapporto Ocse 2 2012, presentato dal segretario generale Angel Gurria: l’immigrazione nei paesi dell’Ocse è continuata a calare nel 2010 (- 3%) a causa della crisi e solo nel 2011, con il miglioramento delle condizioni economiche, è cominciata a risalire «nella maggior parte dei Paesi europei tranne che in Italia».
Il caso Italia. Il rapporto dell’Ocse indica che per il terzo anno consecutivo nel 2010 i flussi migratori sono diminuiti: hanno riguardato (in 23 Paesi, più la Russia) un totale di 4,1 milioni di persone. La fotografia statistica fissa per l’Italia il numero di immigrati al primo gennaio 2011 a quota 4,57 milioni. I residenti di origine straniera sono il 7,5% dell’intera popolazione italiana. Chi sono? Un quarto sono romeni (969.000), seguono albanesi (483.000) e marocchini (452.000). I permessi di soggiorno rilasciati a cittadini extraeuropei nel 2010 (599.000) sono saliti del 16,4% rispetto all’anno precedente e il 62% ha avuto durata superiore ai 12 mesi. Il rapporto Ocse registra anche un flusso di 60.300 migranti irregolari arrivati in Italia tra gennaio e agosto 2011.
La riforma della cittadinanza. Inoltre il rapporto sottolinea che «il nuovo governo formato nel novembre 2011 ha messo tra le sue priorità la riforma della legge di cittadinanza, ferma in Parlamento dal dicembre 2009, specialmente per quanto riguarda gli stranieri nati in Italia». In verità andrebbe ricordato agli esperti dell’Ocse, che il premier Mario Monti in una recente intervista a Famiglia Cristiana ha detto chiaramente che non intende rischiare di «scompaginare» la sua maggioranza proprio sulla riforma della cittadinanza.



Tanzania: 42 immigrati morti in camion
(ANSA) - ZANZIBAR - Quarantadue immigrati sono stati trovati morti all'interno di un camion nella provincia di Dodoma, a circa 400 chilometri da Dar es Salaam, in Tanzania. Secondo quanto ha riferito ai media locali il vice ministro tanzaniano, Pereira Silima, gli immigrati sono morti per soffocamento: "non avevano acqua nè cibo", ha detto Silima. Fonti locali riferiscono che erano almeno 100 le persone stipate all'interno del mezzo e che il conducente ha abbandonato il camion ed è fuggito.



Offese, violate e mutilate
Mezzo milione le donne infibulate solo in Europa
Il Parlamento Europeo ha chiesto ai Paesi membri di vigilare per evitare, come sta accadendo, lo sviluppo di pratiche contro le più giovani
l'Unità, 28-06-2012
Elena Doni
È INCREDIBILE COSA SI SONO INVENTATE NEL MONDO LE DIVERSE SOCIETÀ PER GARANTIRE AGLI UOMINI IL CONTROLLO DELLE DONNE: dal velo al burka, dalla deformazione dei piedi delle bambine, che in Cina impediva loro di camminare, al gavage, la nutrizione parossistica forzata in alcune zone dell’Africa, fino al più crudele dei provvedimenti, diffuso in molti paesi africani: le Mgf, mutilazioni genitali femminili. Tanto frequenti da avere indotto in questi giorni il Parlamento Europeo a chiedere ai Paesi membri di vigilare e sviluppare strategie per evitare che questa pratica venga ancora effettuata nelle famiglie di immigrati. Magari inducendo le figlie adolescenti a fare «un bellissimo viaggio nel Paese dei nonni».
La campagna europea EndFgm è condotta da Amnesty International Irlanda in collaborazione con 14 organizzazioni non governative di 13 Paesi europei. In Italia ne è responsabile l’Aidos, Associazione donne per lo sviluppo, che da anni si batte in vari paesi africani per tutelare donne e ragazze che hanno subito le mutilazioni e proteggere quelle che fuggono dai loro Paesi per il timore di subirle. Daniela Colombo che fondò questa associazione nel 1982 ricorda che queste pratiche, specie nella forma estrema diffusa nel Corno d’Africa ha gravi conseguenze fisiche e psichiche. Si calcola che in Europa le donne con postumi di queste terribili operazioni siano 500mila e 180mila le bambine a rischio di subirle. In Italia la legge ha stabilito nel 2006 che questa pratica è vietata, ma si sa che non è sparita e che per sfuggire a un’eventuale sanzione si preferisce anticipare la menomazione sulle bambine, piuttosto che sulle adolescenti, per evitare rischi di denuncia.
E dire che già dal 2005 autorevoli personaggi si battono in Africa contro questa pratica che noi giudichiamo inumana e che fino a non molti anni fa veniva gabellata come una difesa delle donne: una volta «cucite» si diceva loro non erano più a rischio di violenza. Ciò non toglie che tra le prime voci a levarsi contro le mutilazioni delle donne ci sono state quelle degli uomini: i primi che attraverso il lavoro sono venuti a contatto con opinioni e modi di vita molto diversi da quelli della tradizione africana. Già nel 2003 il Gran Muftì della moschea di Al-Azhar, Sayed Tantawi, massima autorità religiosa sunnita, disse in diretta radiotelevisiva che le mutilazioni agli organi sessuali delle donne non erano prescritte dal Corano. Tantawi aveva ragione: l’Islam non ha dato origine alle Mgf per la buona ragione che queste erano già presenti nell’Africa centrale prima della penetrazione musulmana.
QUATTRO TIPI DI VIOLENZA
Secondo la classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità si possono distinguere quattro tipi di mutilazioni genitali femminili: la sunna, consistente nella recisione del prepuzio e nell’asportazione totale o parziale della clitoride; l’escissione, recisione del prepuzio, asportazione della clitoride e di tutte o parte delle piccole labbra; infibulazione o circoncisione faraonica, escissione della clitoride, asportazione totale o parziale delle grandi labbra e successiva cucitura dell’apertura vaginale, ridotta a un piccolo pertugio non più grande di un chicco di riso; il quarto tipo va dalla semplice punzecchiatura della clitoride a pratiche atroci (ormai rare, si dice) come l’introduzione di sostanze corrosive in vagina.
Un’importante scrittrice egiziana che è anche medico, Nawal El Saadawi, ha raccontato nel suo libro The hidde face of Eve le confidenze di molte donne che avevano subito interventi più o meno distruttivi: tutte raccontavano ancora tremando la brutalità dell’operazione subita in casa da bambine, nessuna di loro aveva in seguito provato alcun piacere nei rapporti matrimoniali. Un altro medico egiziano fortemente avversario delle mutilazioni genitali femminili, il prof. Mahmoud Karim, nel suo libro Circumcision elenca alcune statistiche dalle quali apprendiamo che sono i poveri a pagare il più alto tributo alla tradizione: più basso è il reddito, più alto il numero di figlie circoncise. Solo il 15% delle benestanti viene operata, a fronte dell’88% delle figlie dei poveri.


Riconoscere l’aggressione e trovare una lingua per nominarla: Manisha, Aminata e le altre... Quante immigrate subiscono abusi? Le cifre mancano. Ma lo sradicamento, negli uomini già predisposti, è un incentivo alla violenza
L’inchiesta Storie di violenza/6 Straniere vittime senza parole
Corriere della sera, 28-06-2012
Una donna bengalese, la chiameremo Manisha. A quindici anni è già promessa sposa a un uomo che non conosce e che nemmeno i suoi hanno mai visto di persona. Il «contratto di matrimonio» viene stipulato al telefono, da un continente all’altro: lui vive e lavora in Italia. In attesa delle nozze, la ragazza si trasferisce dalla famiglia del fidanzato. Primo appunto della mediatrice: il Bangladesh è un Paese patriarcale, le donne da bambine sono proprietà del padre, quindi del marito, infine, da anziane, dei figli.
Per capire questa storia di violenza — che pure si consuma in una città del Veneto — bisogna allargare lo sguardo oltre i nostri confini. E farsi aiutare da un’interprete. A 17 anni Manisha si sposa, con rito religioso, nel suo Paese. Ma è chiaro che nell’affare non è stata lei a guadagnarci: lui non paga la «dote» pattuita e la schiaffeggia già al rientro della cerimonia, in auto, per una frase che ha sentito pronunciare dal suocero. Soprattutto, durante la prima notte di nozze la picchia in modo così brutale che la ragazza vince la vergogna e chiama i genitori. Interviene un poliziotto, ma — seconda nota della mediatrice — la violenza domestica in questo contesto non è reato, gli agenti lo considerano un problema coniugale. Nessuno la aiuta.
Nel 2007 si trasferisce con il marito in Italia. E va anche peggio. La picchia, la insulta, le dà la colpa di ogni cosa. Le impedisce di contattare la famiglia, le impone telefonate col vivavoce, perché possa controllarle. Squilla il cellulare, lui chiede chi la cerca, lei risponde che è la zia e gli porge l’apparecchio, lui le sbatte la testa contro lo spigolo del letto. Manisha resta incinta, il marito la colpisce violentemente anche con un bastone fino a tre giorni prima del parto. Eppure è la moglie a sentirsi colpevole: «Perché sono sempre tornata da lui». Nasce un altro bimbo, la donna raccoglie le forze e torna in patria, evitando il divorzio che la lascerebbe isolata e senza risorse: «Al massimo lui torna un mese all’anno per picchiarmi — riflette —, meglio così che essere picchiata per sempre». Ma in Bangladesh trova i genitori in ospedale, e il figlio maggiore si ammala, non c’è alternativa: deve rientrare in Italia. Finalmente, però, la sorte gira. Il pediatra che cura il bambino si accorge dei lividi della donna. S’accende la luce e Manisha si risveglia, cominciando il suo faticoso percorso di separazione e autonomia.
Non è facile per nessuna, per le donne straniere lo è ancora di meno. La lingua che è diversa e spesso impronunciabile. Lo spazio che si restringe alle mura di casa. La famiglia che è lontana e a volte legata a tradizioni antiche di dominio maschile (è questo il punto, la religione non c’entra). Gli amici che mancano. La comunità che giudica e inibisce. La burocrazia che tra pratiche di ricongiungimento e permessi di soggiorno da rinnovare complica le cose.
Una donna senegalese, la chiameremo Aminata. Il marito la picchia e il bambino piange, non dorme la notte, ha paura. Più dei lividi la sua preoccupazione è questa: proteggere il figlio, senza dividere la famiglia. L’uomo l’ha conosciuto in Africa, l’ha sposato nel 2004, nel 2011 l’ha raggiunto in Emilia Romagna. Un mondo nuovo e sconosciuto dal quale lui fa il possibile per isolarla: non le concede di avere del denaro, non le permette di uscire per fare la spesa, le sceglie i vestiti, leggeri anche in inverno. Scene di follia alternate a lunghi silenzi. Finché la situazione precipita. Una sera il marito colpisce Aminata davanti al bambino, ma poi va oltre. Chiude il figlio a chiave in soggiorno, torna su di lei e minaccia di ucciderla. La donna fugge per le scale, poi in strada, con i suoi abiti estivi a febbraio. I vicini chiamano i carabinieri. Comincia un percorso di assistenza, ma la disperazione di Aminata resta il figlio: i servizi sociali l’hanno lasciato dal padre.
Non è questione di carattere, ma di contesto: «La donna straniera è un soggetto più fragile», riflette Stefania Campisi del centro antiviolenza Le Onde di Palermo, coordinatrice del progetto europeo Iris Against Violence. Con Maria Rosa Lotti e Mara Cortimiglia, l’operatrice ha accumulato una lunga esperienza:
    «Il problema c’è ma è sommerso, ci siamo rese conto che delle centinaia di donne che si rivolgono a noi ogni anno le straniere sono pochissime.
Eppure a Palermo, come nel resto del Paese, i migranti sono sempre più radicati, hanno messo su famiglia. Se al principio erano soprattutto maschi, adesso la componente femminile è altissima».
Quasi 2,2 milioni di donne straniere iscritte all’anagrafe in Italia all’inizio del 2010. Possibile che non abbiano problemi con gli uomini come e quanto le italiane? Le cifre mancano, denuncia la ricercatrice del Cnr Maura Misiti, che ha partecipato al progetto Iris. Nei registri già lacunosi della violenza sulle donne, i dati sulle migranti sono una voragine. L’unica indagine Istat in materia — ormai del 2006 — le ha tenute fuori (tanto più che era una rilevazione telefonica, in italiano). Sono le strutture di aiuto alle straniere che hanno faticosamente raccolto dati e lanciato l’allarme. Tra tutte, Trama di Terre, a Imola (Bologna), è considerata un modello. «Durante i colloqui con le donne che si rivolgono a noi per altri tipi di problemi — spiega la presidente, Tiziana Dal Pra — una su due racconta episodi di violenza domestica».
Il 50 per cento, una cifra enorme. Un fiume sotterraneo di silenzi, isolamento e quotidiane vessazioni che emerge solo quando la cronaca si fa nera. L’ultimo caso registrato dai giornali a Fiorenzuola, provincia di Piacenza, un mese fa: Kaur, origine indiana, incinta di tre mesi, uccisa e gettata nel Po dal marito ossessivamente geloso. Episodi estremi. Ma in uomini già predisposti gli studiosi dicono che cambiare Paese può essere fattore di ulteriore destabilizzazione. Scrive la sociologa Barbara Ghiringhelli:
    «Nelle migrazioni i motivi scatenanti la violenza domestica possono basarsi su: difficoltà economiche e abitative, confronto con modelli di coppia e genitoriali alternativi al proprio, perdita della posizione dominante dell’uomo».
Il problema in questo caso è riconoscere il maltrattamento, quindi trovare una lingua per nominarlo e l’indirizzo per chiedere aiuto. Alle Onde di Palermo hanno capito che bisogna andare nelle comunità: «Più delle locandine o della “pubblicità”, per le donne straniere vale il passaparola. Noi organizziamo incontri con i gruppi delle diverse nazionalità». Il risultato è che se nel 2007 erano il 5%, nel 2011 le donne straniere arrivate a le Onde sono state 37 su 268, il 14%, «e il dato è in aumento».

 «Botte e ricatti poi mi sono svegliata?»
Amal, mediatrice marocchina:
ci sono passata anch’io, ora sono brava ad ascoltare
Il nome è di fantasia, ma è lei a sceglierlo: «Amal. Vuol dire speranza». Perché la strada è lunga, buia e tortuosa, ma già si vede in fondo la discesa: «Più ci penso e più mi sento fiera di me stessa. Io non ero quella che subiva, io sono questa qui. E da quando l’ho capito, da quando ho deciso di cominciare il percorso, sto bene». Al punto da riuscire ad aiutare: è stata una vittima, adesso Amal è una mediatrice.Il sentiero di «Speranza», come in tante di queste storie, comincia in un altro Paese. Per la precisione nell’estate del 1991 a Casablanca. È il primo matrimonio. «Avevo 18 anni e lui era un amico di mio fratello». L’amavi? «Nessuno mi ha costretto, ma non sapevo a cosa andavo incontro». Undici mesi dopo il marito la porta in Italia, in una città del Nord, con un ricongiungimento familiare. «È qui che comincio a conoscerlo, e a scoprire qualcosa che non mi piaceva». L’alcol. «È una persona che beveva. Un comportamento che non tolleravo, che non avevo mai visto nella mia famiglia. Gli ho chiesto di smettere e sono cominciati i problemi». Era aggressivo? «Non mi picchiava, no, ma era spesso ubriaco. Più io gli chiedevo di smettere, più esagerava…». Amal si convince — dopo tre anni — ad andare via di casa e a chiedere il divorzio.
La storia peggiore comincia adesso. «Ho sempre lavorato, ho fatto subito un corso di italiano, avevo studiato già in Marocco». Amal dal principio capisce che l’indipendenza economica è vitale. «Soprattutto, cercavo di far passare il tempo, di stare in casa il meno possibile… Non avere accanto la tua famiglia è dura…». Arrivano i documenti del divorzio, intanto, la ragazza trova impiego come badante e si trasferisce a casa dell’uomo anziano che assiste. È il bivio in cui la strada si fa in salita. «Conosco il figlio di quest’uomo, stiamo insieme, abbiamo una figlia, ci siamo lasciati». La sintesi non racconta la fatica del percorso. Amal prende fiato. È stato lui l’uomo violento? «Era più che altro una violenza psicologica, un continuo ricatto. Il suo obiettivo era farmi perdere fiducia in me stessa, rendermi dipendente, farmi sentire inutile…». Che cosa ti diceva? «Buona a nulla, non sei nessuno senza di me, non sai fare nulla…».
La famiglia è lontana, l’abuso è sottile e penetrante, la bimba è appena nata: «C’è voluto tempo per elaborare, per capire quello che stava accadendo». Indispensabile, racconta, è stata una psicologa di un centro antiviolenza: «Ho cominciato a vedermi come una che si sta svegliando da un incubo e si rende conto della disgrazia in cui si trova. Ho cominciato a dirmi: se vado avanti così mi suicido, ma io non voglio morire, non voglio lasciare mia figlia orfana…». Qualcosa è scattato, Amal ha preso la bimba e si è  \per donne maltrattate.
Da qui il tracciato cambia. «Ho continuato a lavorare, come cuoca, e al tempo stesso ho seguito un corso per mediatrice. Finalmente mi sentivo utile. Ho scoperto che, con tutto quello che avevo passato nella vita, ero brava ad ascoltare. Dopo un anno di formazione, ho cominciato ad accogliere famiglie straniere a uno sportello di servizi sociosanitari». È stato più difficile del previsto. «Con gli uomini maghrebini avevo molti problemi, erano diffidenti, sapevano che sono sperata e mi guardavano male». I primi tre anni sono stati complicati. «Un episodio in particolare, una storiaccia: ho sostenuto i genitori di una ragazza abusata dallo zio. La famiglia, marocchina, se l’è presa con me, mi hanno aggredita, minacciata… Sono stata veramente male». Ma non ha mollato.
Dal lavoro con le donne straniere che cosa ha imparato? «Che la violenza dipende dall’ambiente in cui hai vissuto, per esempio. Nella mia famiglia non c’erano aggressioni o insulti. Ma ho ascoltato ragazze che non riconoscono il maltrattamento, che considerano calci e schiaffi come comportamenti normali. Perché ci sono abituate da bambine, hanno visto il padre sputare o tirare i piatti addosso alla madre e nessuno gli ha mai detto che è sbagliato». Molte subiscono anche una violenza economica. «Ricordo il caso di una donna araba alla quale il marito dava 20 centesimi al giorno e pretendeva di trovare la sera la cena in tavola e la casa pulita». E ha sopportato a lungo.
Da mediatrice Amal ha capito che «è difficile che le donne straniere si ribellino, perché sono sole, non c’è sostegno. Per le famiglie di origine sono un fallimento, la comunità le tratta male, si inizia a sparlare di loro. Quando una donna decide di andare via di casa si trova di fronte un altro muro: i servizi sociali non hanno i fondi per sostenerla economicamente, e anche in una struttura protetta senza un euro in tasca come si vive? Meglio stare in casa, prenderle ma mangiare, dicono alcune». Per Amal è in discesa, «ma ho visto tante donne fare un passo indietro», in salita ancora.

Giudicare con la nostra cultura o la loro?
Maltrattamento e violenza sulle donne non sono solo una questione culturale ma anche di diritto penale. Abbiamo chiesto a un professore di diritto penale, Fabio Basile, e a un magistrato, Fabio Roia, dal ’91 in prima linea nella tutela dei soggetti deboli come pm, oggi come giudice del Tribunale penale di Milano, che cosa frena le donne straniere nel denunciare le violenze subite. Spiega Roia che «faticano a capire quando l’offesa che ricevono e che può, teoricamente, essere accettata e non condannata nella cultura di appartenenza, superi il limite di tollerabilità. Spesso, nella testimonianza, ci troviamo di fronte a donne che non si rendono conto che quanto raccontano costituisce una forma di maltrattamento. Il doversi concedere al marito anche contro voglia, non poter uscire di casa sole, non poter gestire relazioni autonome con amiche o parenti vengono ritenute cose normali, ma secondo i parametri europei del diritto naturale costituiscono forme di violenza». Aggiunge Basile che «in alcune culture il marito dispone dello ius corigendi, il diritto-dovere di educare la moglie anche ricorrendo ad atti lesivi. Oggi è in atto un cambiamento in molti Paesi. Ma non è detto che la legge dello Stato abbia la forza di imporsi sui precetti tribali». E ricorda che lo ius corigendi  era riconosciuto nel nostro Paese fino agli anni Sessanta e i codici non scritti sono stati legge a lungo, in Barbagia ma non solo. E allora attraverso la lente di quale cultura deve essere valutato un caso di violenza sulla donna straniera? La nostra o la sua? «La soluzione non è nel guardare alla cultura, ma ai principi fondamentali che la regolamentano, quelli scritti nella Costituzione europea dei diritti dell’uomo e nella Carta costituzionale — dice il magistrato —. Dal punto di vista della calibrazione della pena, ogni situazione va valutata a sé. Ma l’inserimento in una società comporta il rivedere i propri convincimenti, altrimenti non si potrà mai parlare di effettiva integrazione». La legge penale è quella che per eccellenza esprime il Dna di un popolo, conclude Basile: «Nell’applicarla non devono esserci cedimenti né sacche di immunità. Il rischio altrimenti è una ghettizzazione di segno positivo: a causa del delitto di un singolo, si getta discredito su tutta una cultura. Ricordate quando un sardo che violentò la moglie in Germania fu punito con pena lieve? Come a dire che in Italia è cosa normale. Diverso è sfruttare gli spazi presenti nelle norme e cercare la pena più adatta ad ogni imputato, tenendo conto anche dell’elemento culturale».

La paura di ritrovarsi clandestine
Osserva Barbara Spinelli, avvocata del centro Trama di Terre, autrice di Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale  (FrancoAngeli): «Le straniere che subiscono la violenza in famiglia sono doppiamente discriminate, come donne e come migranti. Tra gli ostacoli, innanzitutto la dipendenza dal permesso di soggiorno del coniuge: chi arriva in Italia tramite il ricongiungimento familiare può tollerare situazioni anche intollerabili perché teme di ritrovarsi clandestina. Se poi ha dei figli, ha il terrore di denunciare e perdere la genitorialità. Per le donne immigrate di recente, ci sono anche gli ostacoli della lingua, l’isolamento, il timore della condanna da parte della comunità. Una figura essenziale è quella della mediatrice culturale, ne sottolinea l’importanza anche Rashida Manjoom, Special Rapporteur dell’Onu per il contrasto della violenza sulle donne. Ma deve avere una formazione di genere, altrimenti può diventare un’arma a doppio taglio, troppo succube della comunità di provenienza».



Una ragazza in abiti succinti e la scritta: “Se ti vesti così ti molesteranno” A migliaia sono insorte sul web. Ma anche di persona, avvolte nei burqa
“Donne, copritevi in metrò” l’appello che divide Shanghai
la Repubblica, 28-06-2012
Renata Pisu
Sul sito ufficiale della metropolitana di Shanghai appare l’immagine di una donna vestita con un abito trasparente rivelatore di slip, reggiseno e calze con giarrettiera alla coscia. La scritta sotto avverte: «Se ti vesti così è probabile che tu sia molestata. Possono esserci dei pervertiti in metropolitana e non è facile liberarsene. Abbi rispetto di te stessa».
Apriti cielo! Anzi, apriti metà del cielo, come all’epoca di Mao venivano chiamate le donne. Sono fioccate migliaia di proteste di passeggere contro il machismo di quell’invito alla modestia, come se la pubblica morale dipendesse dall’esposizione di qualche centimetro quadrato di pelle femminile, così ha scritto nel suo blog una ragazza di professione impiegata. E un’altra ha sottolineato che una donna deve essere rispettata anche se sale su di un vagone in bikini. Che diamine! Come si permettono i dirigenti della metropolitana di dire alle donne cosa è giusto mettersi addosso? E ancora tantissime sono le passeggere che dichiarano di non capire perché si debba dire alle donne di rispettare se stesse mentre sarebbe molto più giusto invitare gli uomini a rispettare le donne. Insomma, l’iniziativa della dirigenza della metro di Shanghai ha scatenato un dibattito che, come sottolinea La Voce delle Donne, una organizzazione non governativa per la parità dei diritti, non è da considerarsi frivolo e inessenziale perché «serve a prendere atto del sessismo che imperversa nella nostra società. I mo-lestatori sono dei criminali e i dirigenti della metro non dovrebbero giustificarli con la scusa che le vittime li hanno provocati».
Ieri la protesta femminile, una ancora impacciata espressione di un femminismo che stenta a farsi valere, dal virtuale della rete è scesa nella concretezza dei corpi di donne che in varie stazioni della metropolitana si sono presentate intabarrate con panni neri, il volto coperto in stile burqa, mostrando dei cartelli con su scritto “Fa caldo e io voglio stare fresca” e “Posso vestirmi come mi pare, voi dovete lasciarmi in pace”. Come e ancora più della protesta sul web questa discesa in piazza delle donne ha suscitato l’opposizione dei moderati. Si sono levati commenti malevoli: «Sfido che c’è chi vi mette le mani addosso! Siete delle provocatrici.
Siete voi che molestate gli uomini conciate in quel modo indecente ».
Come si vede, gli argomenti dei maschilisti di Shanghai sono gli stessi usati sotto qualsiasi cielo, anche sotto questo che sembrava aver riconosciuto pari dignità alle donne assegnandone loro la metà. «E invece non era vero niente, era soltanto una ben intenzionata bugia » commenta sul suo blog una delle poche cinesi che hanno il coraggio di dichiararsi apertamente femministe. In Cina non è una cosa facile e infatti Lian Tian, uno dei portavoce della metropolitana di Shanghai che vanta la più estesa rete di trasporto rapido del mondo — 450 chilometri di rotaie, una media di circa 8 milioni di utenti al giorno — è intervenuto nel bailamme delle proteste sostenendo che era tutta colpa di qualche organizzazione femminista, che lo scopo di mettere in rete quell’immagine di donna sexy con l’invito alla modestia nel vestire era soltanto un dovuto richiamo alla necessità che le passeggere pensassero a difendersi preventivamente dai pervertiti: «Non ce ne sono tanti da noi a Shanghai ed escludo che si debba arrivare a vagoni riservati per le donne come a Città del Messico o Rio de Janeiro».
L’idea però potrebbe essere presa in considerazione prima o poi, visto che da qualche tempo sulla metropolitana di Shanghai molte ragazze hanno preso l’abitudine di cambiarsi disinvoltamente d’abito, come se fossero a casa loro, davanti a tutti i passeggeri che non allungano le mani ma, in genere, si limitano a registrare le immagini sui loro cellulari e magari le mettono poi in rete. Se ne vedono parecchi di questi pubblici spogliarelli sui blog cinesi e accade che qualche ragazza, riconoscibile nella sequenza, protesti. E allora, le donne gradirebbero vagoni a loro riservati o sono invece delle esibizioniste? Non si sa, comunque la moda sta prendendo piede e i dibattiti sulla pubblica decenza e i suoi limiti si fanno in questi giorni sempre più serrati.
Tutto è cominciato con l’immagine della donna sexy sul sito ufficiale della metropolitana ma il portavoce Lian Tian ha dichiarato che di toglierla non ne vede la ragione «perché siamo un paese libero. Noi consigliamo alla donne di vestirsi di più, loro possono scoprirsi quanto vogliono, non c’è nessun conflitto e nessuna imposizione». Gli ottimisti ne deducono che le vie per arrivare al rispetto dei diritti individuali e della democrazia in Cina sono davvero infinite perché ormai non c’è più autorità che tenga, tutto si giudica in rete, tutti twittano. Ma la scelta degli argomenti è davvero libera? O si preferiscono quelli un po’ pruriginosi? Gli ottimisti consigliano di pazientare.

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