Il limite delle impronte

Osservatorio Italia-razzismo 1 agosto 2013
Qualche giorno fa, sull’isola di Lampedusa, duecento persone di origine eritrea hanno sfilato per le strade scandendo lo slogan “no alle impronte digitali”. Non volevano, cioè, che ci fosse traccia del loro passaggio, non solo a Lampedusa, ma in generale in Italia. Tale procedura è prevista dal Trattato di Dublino in virtù del quale è stata predisposta una banca dati che raccoglie le impronte digitali.

Ciò al fine di registrare l’ingresso di una persona in un Paese dove, poi, dovrà presentare domanda di asilo. I manifestanti chiedevano di sottrarsi a quella procedura per poter, così, lasciare l’Italia e recarsi in altri Stati, in cui il sistema di tutela del richiedente asilo e del rifugiato, sono più avanzati: garantiscono un’accoglienza che non si limita, come avviene in Italia, alla fornitura di vitto e alloggio ma mettono a disposizione servizi di assistenza sanitaria e legale, sostegno nella ricerca di un alloggio e di un lavoro. Si tratta di Paesi in cui l’accoglienza a persone che fuggono da aree in stato di guerra o di guerra civile, è vista come un dovere, perché non è discutibile il motivo che ha portato alla partenza: la necessità di fuggire, di salvare la propria vita.

La protesta degli eritrei è, per ora, andata a buon fine perché a Lampedusa non sono stati identificati, e sono stati trasferiti a Porto Empedocle. Qui, invece, a “Dublino” non sfuggiranno, anzi: comincerà anche per loro l’iter estenuante tanto temuto.

Il Trattato in questione è, dunque, un limite alla realizzazione del percorso migratorio perché vincola le persone a rimanere nel Paese in cui approdano, senza tener conto di quali siano le loro aspirazioni, i loro progetti e le loro necessità (molti di quelli che arrivano, per esempio, hanno parenti in Europa a cui vorrebbero ricongiungersi). Non solo. Attualmente anche chi ottiene l’asilo, ovvero un permesso di soggiorno per cinque anni, non può comunque trasferirsi in un'altra parte dell’Unione europea per lavorare. Insomma, chi arriva in Italia qui deve rimanere e chi tenta di fuggire sempre qui viene rimandato. Negli anni sono molte le persone che, nonostante fossero state già identificate, hanno provato a raggiungere altre mete, magari al Nord, ma senza risultati. Ciò comporta uno sperpero di energie immane: le persone perdono molto tempo ad aspettare il momento giusto per partire (affidandosi, il più delle volte, a trafficanti), a viaggiare e a cercare un impiego e una sistemazione nel paese di arrivo. Qui potrebbero anche rimanere anni se non sono fermati dalla polizia che, attraverso quella banca dati europea prima accennata, riesce a ricostruire la storia e il tragitto compiuto dalla persona e a rimandarla da dove è venuta. E questo passaggio è letto, da chi lo subisce, come il fallimento del proprio progetto, causando stati di depressione e di stress. Il ritorno, in questo caso in Italia, coincide molto spesso con l’inizio di una vita condotta ai margini, con poche speranze di emancipazione e di autorealizzazione.

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