Una mattina in Questura


Laura Balbo
Accompagnando una giovane che porta avanti le pratiche per  il permesso di soggiorno (da più di un anno), sono andata alcuni giorni fa  in un ufficio di polizia, in un quartiere periferico di Milano.
Fare esperienze di questo tipo sarebbe utile per tutti. Si imparano cose in modo diverso che leggendo servizi giornalistici, o anche ricerche sociologiche.
Entrati, ci si trova in uno spazio, non molto ampio, con una ventina di posti a sedere. Porte che si aprono sui diversi uffici; uno è il “Corpo di guardia”, a fianco l’ “Ufficio denunce”, dall’altro lato l’ “Ufficio passaporti” e l’ “Ufficio immigrazione”, quello dove la maggioranza dei presenti aspetta di entrare.
Le persone che arrivano cercano di capire  a che punto si è nella lista d’attesa, quale sia l’ordine da rispettare, i tempi  delle chiamate. Nessuno dà queste indicazioni.
Non c’è una lista: e siccome si aspetta a lungo ci si siede, tenendo d’occhio la propria posizione. Ogni tanto qualcuno prova a passare avanti, allora altri dicono “ma io ero qui prima”, brevi discussioni, anche   litigi. Da un gruppetto a un certo punto si alzano voci irritate. Qualcuno (in genere sono gli italiani quelli che ci provano) prova a farsi spiegare  come procedono le cose. Gli altri, gli “immigrati”, sanno che non è il caso di fare storie. Aspettano, si scambiano qualche parola, si sgranchiscono le gambe camminando su e giù per la stanza. Col passare del tempo cresce il numero delle persone che aspettano. A un certo punto provano a organizzarsi mettendosi in fila davanti alla porta dell’ ”ufficio immigrazione”.
Ci sono persone che hanno con sé bambini piccoli che a un certo punto cominciano a essere irrequieti, piangono: magari si potrebbe trovare un modo per agevolarli  (come certe volte nella fila per salire su un aereo). Alla domanda –rivolta a uno dei poliziotti che passa con l’aria assente- perché non ci sia un sistema di numeri con l’ordine di arrivo e le precedenze, la risposta è che non dipende da lui.
Alcuni di loro, a metà mattina,  escono per una breve pausa. Uno, passando vicino a  una ragazza che aspetta il suo turno, chiede: “vieni a prendere un caffè con noi”?
Un  problema – non è del tutto irrilevante, in una mattinata in questa stanza ci passano un paio d’ore più di cinquanta  persone - riguarda le toilettes : le porte con le indicazioni “donne” e “uomini” sono bloccate. Funziona solo quella per i disabili.
E si entra finalmente nell’ufficio. Dentro,  un solo funzionario. Si dà da fare con il computer, la macchinetta per le impronte; è anche necessario misurare l’altezza della persona che chiede il documento, dunque alzarsi, e poi scrivere; molte carte da controllare, da far firmare. Per ogni pratica ci vuole parecchio tempo.
Alla fine non è che si esce con il permesso di soggiorno. E’ solo uno dei  passaggi.

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