Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 giugno 2013

"Nei Cara non c'è più posto, noi rifugiati lasciati per strada"
Fantasmi che l'Italia dice di voler accogliere ma non sa neppure dove parcheggiare. A Lecce un gruppo di 30-40 richiedenti asilo vive in condizioni disumane. Dalla Questura hanno richevuto un foglio in cui si spiega che "non è possibile ospitarli in un Centro di accoglienza per indisponibilità di posti"
la Repubblica.it, 03-06-2013
CHIARA SPAGNOLO
Akmet è afghano, ha 22 anni, non fa una doccia da dieci giorni. Karman è iracheno, di anni ne ha "24 circa", non mangia da più di quarantotto ore. Abdel, che di anni ne ha 29, spera di riuscire a lavarsi tra tre giorni alla Caritas ma non ha abiti per cambiarsi. Da un mese almeno dormono per strada, a Lecce, su cartoni e materassi, nella stazione, al dopolavoro ferroviario, nel sottopasso. Sono fantasmi che l'Italia accoglie ma non sa dove mettere, richiedenti asilo in attesa di regolarizzazione, "che nell'immediatezza non è possibile ospitare presso un Cara, per indisponibilità di posti", come recita il "biglietto d'invito" della Questura di Lecce, che li sollecita a presentarsi presso l'Ufficio immigrazione tra due, tre, cinque settimane per istruire la pratica che li riguarda.
Akmet quel foglio lo custodisce gelosamente in tasca, Abdel nel borsone che è riuscito a salvare dal viaggio disastroso sul barcone che lo ha portato in Italia, dopo aver attraversato la Turchia e la Grecia.
Dopo lo sbarco sulle coste del Salento sono stati rintracciati dalle Forze dell'ordine, identificati e parcheggiati nella loro qualità di richiedenti asilo. Avrebbero dovuto trovare rifugio in un Cara ma posto, a quanto pare, non ce n'è da nessuna parte. Di sicuro non a Bari, avrebbero riferito i poliziotti con cui alcuni extracomunitari sono riusciti a parlare il 21 maggio, data della prima convocazione in Questura, ma evidentemente in nessun'altro centro d'Italia, stando a quel foglio timbrato e protocollato.
In tutto sono una trentina i fantasmi che si aggirano per Lecce, qualcuno dice quaranta, forse anche di più. Fuggiti da Paesi in guerra, cercando la terra promessa. Sono spaesati, stanchi, sporchi. Ridotti a larve di uomini, nell'attesa che la burocrazia faccia il suo corso. I loro corpi cercano acqua per lavarsi, le bocche cibo, gli occhi guardano attorno furtivi per paura che qualcuno arrivi a cacciarli dal dormitorio improvvisato accanto a un campetto in disuso, togliendo loro anche i letti sotto le stelle e i bagni ricavati sotto gli alberi dove il tanfo rende impossibile avvicinarsi. Due di loro venerdì si sono presentati allo sportello immigrazione del Comune di Salve, gestito dall'associazione Integra onlus presieduta da Klodiana Cuka, per chiedere aiuto. I volontari sono andati a cercarli al dopolavoro di via Diaz, sono stati accolti con gentilezza, persino un giaciglio è stato improvvisato nel campo, con i cartoni, per sedersi e parlare. Ma per questi uomini in fuga anche farsi capire è impresa titanica. Molti conoscono l'inglese, alcuni solo le lingue d'origine, in italiano sanno dire solo "ciao" e "grazie".
Abdel racconta che il padre è un guerriero talebano e che è fuggito dall'Afghanistan per scampare al diktat di arruolamento della milizia. "Non voglio combattere - dice srotolando una coperta che usa per ripararsi dall'umido della notte  -  sono scappato dal mio Paese e adesso non so dove andare, ieri notte è venuta qui la polizia e ci ha detto di andarcene. Ma dove?". La domanda non trova risposta. Per la città di Lecce questi ragazzi non esistono. Pochi fortunati sono riusciti a trovare un posto alla Caritas, gli altri vagano. Nella notte, a volte, esplodono tensioni create dalla fame e dalla paura, mercoledì una discussione tra uomini di diverse etnie si è trasformata in rissa, è spuntata una bottiglia rotta, un ventenne afghano è stato ferito dietro l'orecchio e ricoverato in ospedale. Sedata la lite, gli uomini senza nome sono tornati ai loro letti improvvisati negli angoli nascosti, che ogni mattina vengono fatti sparire per timore che qualcuno li cacci via.
La legge però non prevede che possano essere espulsi, proprio perché sono persone che hanno già richiesto asilo politico. Possono restare in Italia ma nessuno sa dire dove. Non nei Cara perché non c'è posto, non alla Caritas o in altre strutture d'accoglienza "perché è pieno", come dice Akmet, non certo in carcere perché non hanno commesso alcun reato. Non possono lavorare perché non hanno documenti, non sono clandestini ma neppure regolari. Non sanno dove andare e da Lecce non si allontanano perché è qui che, nei prossimi cinque-sei mesi, devono perfezionare l'iter che gli consentirà di uscire dall'anonimato. Nella capitale del barocco gremita di turisti, a poche centinaia di metri dalle strade scelte da Ferzan Ozpetek per girare il suo film, all'ombra dei locali in cui ferve la movida. Come fantasmi, che l'Italia dice di voler accogliere ma non sa neppure dove parcheggiare.



ENA - I migranti denunciano i responsabili alla Procura di Cosenza
Melting Pot Europa, 03-06-2013
di Associazione La Kasbah
Da circa tre mesi si parla della fine della cd "emergenza nord Africa" decretata il 12 febbraio 2011; un’emergenza illusoria costruita ad arte per inaugurare l’ennesima stagione di negazione di diritti dei migranti e per affossare un sistema pubblico di accoglienza faticosamente costruito nell’arco di dieci anni. In realtà la vera emergenza è appena iniziata: migliaia di profughi, dal primo marzo 2013 sono stati letteralmente abbandonati al loro destino dopo due anni di fiducia tradita e di aspettative deluse.
Quei profughi che in seguito alle rivolte della primavera araba erano riusciti ad attraversare il Mediterraneo, costretti, nella maggior parte dei casi dalle milizie di Gheddafi, a partire a bordo di imbarcazioni di fortuna, rischiando la vita.
Per quelli che ce l’avevano fatta, due anni fa era iniziata una nuova odissea: smistati in centri e tendopoli, tra Sicilia e Puglia, circa 20.000 di loro sono stati "deportati" nella varie Regioni d’Italia ad insaputa di tutti.
Con un decreto del governo l’intera gestione della cosiddetta emergenza Nord Africa è stata affidata alla Protezione civile nazionale, che ha delegato a quelle regionali il compito di individuare strutture e procedure.
Un’emergenza pianificata grazie alla quale uno dei più discussi centri di potere degli ultimi anni, la Protezione Civile, in crisi di credibilità dopo le numerose inchieste per corruzione e sperpero di denaro pubblico, torna in auge per sancire in tal modo, sul piano simbolico la percezione del fenomeno migratorio come catastrofe emergenziale e per inaugurare un modello di "accoglienza respingente" gestito nel caos più assoluto, che ha dato vita ad una serie di truffe e raggiri in quasi tutte le regioni italiane.
Si è conclusa così una lunga e costosa fase di accoglienza emergenziale durata circa 22 mesi che ha fruttato ad ogni ente gestore circa 27.000 euro per ogni profugo affidato, per una spesa nazionale pari ad un miliardo e trecentomila euro, circa.
A distanza di due anni anche in Calabria il bilancio è catastrofico.
A fronte di 1643 posti previsti dal piano nazionale il numero dei profughi realmente accolti non ha superato le mille unità.
A coordinare il piano calabrese la Protezione civile regionale che ha operato con affidi diretti, ovvero contratti per albergatori le cui strutture erano pressoché abbandonate e affido diretto dei servizi ad associazioni che, in taluni casi, non si sono mai occupate di accoglienza e di rifugiati. Per ogni persona è stata erogata una somma di 46 euro al giorno, per i minori non accompagnati 80 euro a copertura di servizi in loro favore. La gestione del piano regionale è avvenuta senza alcuna trasparenza circa le modalità di individuazione delle strutture e sulle modalità di invio dei profughi nè sui criteri di assegnazione alle cooperative. Senza il coinvolgimento dei sindaci interessati che erano all’oscuro di tutto.
La maggior parte dei circa mille profughi accolti in Calabria è stata collocata in ex strutture alberghiere, hotel e residence in disuso, trasformatisi fin da subito in contenitori di disagio diffuso.
Persone che avrebbero avuto bisogno di percorsi individualizzati di cura, accoglienza ed inserimento sociale, sono state invece ammassate in queste strutture nelle quali è avvenuta una concentrazione massiccia di uomini e donne appartenenti a differenti etnie e gruppi religiosi, bambini, persone con gravi disagi fisici e mentali.
Gli enti gestori responsabili non hanno garantito quei servizi che avrebbero favorito il passaggio ad una qualche forma di possibile integrazione sul territorio (quali percorsi linguistici, di orientamento e formazione professionale, di conoscenza del contesto italiano etc...) limitandosi a tenere parcheggiate in questi non luoghi di non accoglienza queste persone per quasi due anni. Ciò non poteva che generare una miscela esplosiva che ha dato vita a numerosi momenti di protesta dei migranti stessi nel tentativo di rivendicare condizioni di accoglienza dignitose. Nel corso di questi due anni abbiamo assistito a numerosi episodi di tensione generati da condizioni di vita a dir poco disumane, ma nulla, in due anni, è cambiato. Le tante testimonianze dei migranti che abbiamo raccolto hanno fatto emergere pratiche discriminatorie e lesive dei diritti umani fondamentali: mancanza di un’adeguata assistenza sociosanitaria e psicologica, nessun percorso di orientamento alla normativa e alla condizione giuridica, vitto scadente, sovraffollamento, maltrattamenti e minacce.
Gravissime le responsabilità delle cooperative sociali ma anche di tutti quegli enti (Protezione civile regionale, Regione Calabria, Prefetture) che avrebbero dovuto vigilare su come venivano spesi i fondi dell’Emergenza Nord Africa e monitorare il livello dei servizi offerti e le reali condizioni di vita all’interno di queste strutture.
Ancor più gravi se si tiene presente che nel corso di questi ultimi due anni non solo i migranti e gli attivisti ma i sindaci stessi, come quelli di Amantea e Rogliano hanno denunciato più volte la totale mancanza di trasparenza della gestione degli interventi in favore dei migranti e il rischio di serie violazioni di diritti degli stessi, chiedendo a gran voce e in più sedi a tutti gli organi competenti (Regione, protezione Civile Regionale, Prefettura di Cosenza) di intervenire tempestivamente, per verificare eventuali irregolarità e per evitare l’esplosione di tensioni sociali, ma quel grido di aiuto è rimasto finora inascoltato.
Bisogna capire come tutto ciò sia potuto succedere e impedire che possa accadere nuovamente in futuro. Bisogna fare luce su quanto avvenuto in queste strutture per due anni. Per queste ragioni abbiamo dato vita ad un gruppo di inchiesta di cui fanno parte ex beneficiari dei centri di accoglienza della Provincia di Cosenza, legali, associazioni, sindaci dell’accoglienza ed attivisti da tempo impegnati nella difesa dei diritti dei migranti. L’obiettivo è quello di realizzare un’inchiesta sociale che faccia emergere il quadro delle responsabilità locali nella gestione del piano regionale e che avvii un’attenta riflessione sulla necessità di attivare percorsi di accoglienza degni di tale nome, a partire da quanti si trovano adesso per strada o alloggiati ancora presso le strutture alberghiere o in altri spazi in cui hanno trovato ospitalità, ma ancora privati di diritti minimi fondamentali. La nostra associazione continuerà a monitorare la situazione sul territorio e a sostenere i migranti nella presentazione delle denunce che alcuni di loro hanno iniziato a depositare presso la Procura della Repubblica di Cosenza lo scorso 24 maggio rendendoci fin da ora disponibili a costituirci parte civile in un eventuale procedimento a carico dei soggetti denunciati.


    
Migranti, i "costi "disumani" per respingerli e trattarli male
A fare luce su uno dei capitoli oscuri di spesa dello Stato è un'indagine indipendente di Lunaria, realizzata con il sostegno di Open Society Foundations. Il rapporto mette insieme le fonti di finanziamento (fondo europeo "Rimpatri", fondo europeo "Frontiere esterne" e"Pon Sicurezza") gestiti dal ministero dell'Interno. Il totale: 1,3 miliardi stanziati dallo Stato italiano e 281,3 milioni dall'UE
la Repubblica.it, 01-05-2013
RAFFAELLA COSENTINO
ROMA - Respingimenti alla frontiera, rimpatri forzati e internamento dei migranti irregolari sono strumenti repressivi che violano i diritti umani, portano scarsi risultati e sono costati almeno un miliardo e 600 milioni di euro alle casse pubbliche dal 2005 al 2012. A fare luce su uno dei capitoli oscuri di spesa dello Stato è un'indagine indipendente a cura di Lunaria, realizzata con il sostegno di Open Society Foundations. Il rapporto Costi disumani mette insieme per la prima volta tutte le fonti di finanziamento, come il fondo europeo "Rimpatri", il fondo europeo per le "Frontiere esterne" e il "Pon Sicurezza", in gran parte gestiti dal ministero dell'Interno, e le voci di spesa rintracciate analizzando documenti ufficiali come il Rendiconto generale dello Stato. Il totale è composto da 1,3 miliardi stanziati dallo Stato italiano e 281,3 milioni arrivati dall'Unione Europea.
Un miliardo sui centri per immigrati.  Di questa somma ingente, la fetta più grossa è costituita da oltre un miliardo di euro, tutti provenienti dalle casse italiane senza apporti comunitari, usati per costruire, allestire, mantenere e ristrutturare il sistema dei centri per immigrati. In media, una cifra pari a 143 milioni l'anno. Il Rendiconto generale dello stato non permette la distinzione fra le somme destinate ai centri di accoglienza per richiedenti asilo e quelle per i centri di detenzione amministrativa per persone da rimpatriare. Tuttavia, il rapporto giunge alla conclusione che almeno 55 milioni l'anno costano i "Cie", centri di identificazione e di espulsione. Alla stessa cifra era giunto poco tempo fa un altro rapporto, redatto dalla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.
La reticenza nel fornire i dati. Grazia Naletto, coordinatrice della ricerca di Lunaria, sottolinea la "reticenza" della pubblica amministrazione a fornire i dati per verificare l'efficacia delle politiche repressive. "Perché dal 2004 la Corte dei Conti non fa indagini di controllo su questi temi?" chiede Naletto. Le "politiche del rifiuto" non sono servite a raggiungere l'obiettivo del contrasto dell'immigrazione irregolare. Dati alla mano, tra il 1986 e il 2009 sono state regolarizzate con le sanatorie più di un milione e seicentomila persone straniere. Tutte presenze che prima dell'emersione si trovavano irregolari sul territorio. Anche nel 2012 sono state oltre 134mila le domande di emersione presentate, a soli tre anni di distanza dalla sanatoria precedente. I migranti irregolari rintracciati dalle forze dell'ordine in Italia sono stati 540.389 tra il 2005 e il 2011. Tra il 2005 e il 2011 i migranti che non hanno ottemperato all'espulsione sono stati il 60%, pari a 325.806 persone rimaste in Italia, mentre coloro i quali sono stati allontanati dal territorio nazionale (tramite respingimenti alle frontiere e provvedimenti di espulsione) rappresentano il 40% del totale dei migranti rintracciati in posizione irregolare.
Il grande fallimento dei CIE . I Cie, che "espongono i migranti a gravi violazioni dei diritti umani che non sono accettabili in uno Stato di diritto", sono ben lontani dall'aver prodotto i risultati attesi, per questo Lunaria ne chiede la chiusura. Su 169.126 persone internate nei centri tra il 1998 e il 2012, sono state soltanto 78.081 (il 46,2% del totale) quelle effettivamente rimpatriate. In compenso, i costi sono molto alti. Spulciando i bandi pubblicati negli anni dal Viminale, per fare qualche esempio, la gestione dei servizi nel Cie di Ponte Galeria per tre anni è stata appaltata per 18 milioni di euro complessivi; 15 miloni sempre per tre anni era l'appalto del Cie e del Cara di Gradisca d'Isonzo. Il budget giornaliero per trattenuto varia dai 21 euro di Isola Capo Rizzuto erogati alle Misericordie d'Italia ai 60 euro di Milano per il Cie gestito dalla Croce Rossa. Per capire come vengono impiegati questi soldi, nel rapporto si cita il caso di Ponte Galeria a Roma, dove su 41 euro al giorno a migrante trattenuto, 32 vengono impiegati per pagare il personale, 3 euro e mezzo vengono dati ai migranti per comprare schede telefoniche e beni di consumo nello spaccio del centro, con appena 5 euro al giorno si coprono le spese di vitto.  
Il reimpatrio, in aereo e con la scorta. Chi viene rimpatriato con la forza dopo essere stato recluso in un Cie, viene portato sull'aereo con una scorta di polizia. Il costo stimato per queste scorte è di 32 milioni e mezzo di euro, tra il 2005 e il 2012. Il resto delle risorse sono state usate per il controllo delle frontiere esterne, per le tecnologie destinate alla sorveglianza e all'identificazione, per la realizzazione dei programmi di rimpatrio e la cooperazione con i paesi terzi in materia di contrasto ai migranti.  
Le stime sono fatte per difetto. Mancano infatti le cifre destinate a Frontex, l'agenzia europea per il controllo integrato delle frontiere, per le quali non è possibile conoscere la quota direttamente connessa alle attività di contrasto promosse dall'Italia. Nata nel 2004, l'agenzia ha aumentato esponenzialmente il suo bilancio, da 19 milioni di euro iniziali fino a 118 milioni.  Il rapporto la definisce una "macchina da guerra", usata per interventi "a risposta rapida" in caso di "situazioni di crisi" alle frontiere.  La campagna "Frontexit" ha denunciato che le operazioni di Frontex non garantiscono il rispetto dei diritti umani e la mancanza di trasparenza sulle attività dell'agenzia.



Ius soli, il Parlamento ora deve accelerare
l'Unità, 03-06-2013
Salvatore Capone Deputato Pd
?LA MOTIVAZIONE CON CUI I GIUDICI DELLA SECONDA SEZIONE CIVILE DEL TRIBUNALE DI LECCE HANNO RICONOSCIUTO la cittadinanza italiana ad un diciottenne filippino, residente nel nostro Paese fin dalla nascita, è estremamente significativa, non a caso definita «storica
» da molti osservatori. Rappresenta inoltre una novità perché, come hanno sottolineato i legali del giovane, fornisce «una lettura innovativa di una legge vecchia, restando sempre saldamente ancorata a concetti giuridici incontrovertibili».
Ora, anche se quella sentenza apre la via al riconoscimento dello ius soli, considero inderogabile che siano la politica, il Parlamento, le commissioni deputate, ad assumere fino in fondo la questione. Prima che altre sentenze, stabilendo l’arretratezza e l’inadeguatezza delle nostre norme, sanciscano di fatto l’arretratezza e l’inadeguatezza di una classe dirigente disabituata, per mancanza di coraggio, a misurarsi con la realtà delle nostre città e delle nostre vite. Bisogna dunque farsi carico di una complessità che non può più essere parcellizzata, riconoscendo il diritto a chi nasce nel nostro Paese di essere considerato cittadino
italiano compiutamente. Sconfiggendo chiunque voglia utilizzare in modo incivile e fuorviante episodi tristissimi come quello accaduto a Milano.
La campagna sullo ius soli e per la cittadinanza, come dicono le migliaia e migliaia di firme raccolte in questi mesi anche dall'Unità, non è solo della ministra Kyenge o del Pd. È una battaglia di civiltà e di legalità. D’altra parte, lo ha sottolineato il ministro Delrio su questo giornale: le proposte di legge di iniziativa popolare per una riforma del diritto di cittadinanza, già depositate alle Camere in questi venti anni, non propongono affatto un diritto di suolo assoluto all'americana («nasci e sei cittadino»), bensì un principio culturale: riconoscere, soprattutto ai minori, l’inserimento avvenuto da cittadini in una comunità in cui nascono o vivono. Cittadini in una comunità. I nati nel nostro Paese in seno a famiglie extracomunitarie frequentano i nostri asili e le nostre scuole, abitano i nostri quartieri, sono amici dei nostri figli. Già nostri concittadini, parte della comunità che condividiamo, della lingua che parliamo.
I rappresentanti delle istituzioni che, in numerosi consigli comunali e provinciali, hanno sancito nell’ambito dei loro poteri e in forma al momento solo simbolica la volontà di dare cittadinanza ai figli e alle figlie di immigrati e immigrate nati e nate sul territorio italiano, hanno indicato una strada da percorrere senza tentennamenti o pericolose cadute retoriche.
Per troppo tempo abbiamo permesso che la questione dell’immigrazione fosse parcellizzata, identificata come questione di sicurezza, o della solidarietà, o dell’emergenza, continuando a pensare separate la sfera delle politiche di ammissione e quella delle politiche di integrazione e lasciando prevalere, anche mediaticamente, il nesso immigrazione-sicurezza.
Mentre non riusciamo a venire a capo su una legge per i rifugiati e i richiedenti asilo, l’ultimo rapporto sui Centri di dentificazione ed Espulsione dell’Associazione Medici per i Diritti Umani torna a evidenziare drammaticamente l’insostenibilità dei Cie, sottolineando in modo univoco la palese inadeguatezza dell'istituto della detenzione amministrativa nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti. La domanda è d’obbligo: abbiamo bisogno dei Cie o piuttosto di altre politiche? Possiamo immaginare una revisione della legge sull’immigrazione clandestina, anche solo alla luce del suo funzionameno, o meglio mal funzionamento? Possiamo decidere di affrontare la questione immigrazione nella sua complessità ricordando, per esempio, che a fronte delle retoriche razziste di marca padana, il livello massimo dell’integrazione nel nostro Paese (accesso al welfare, casa, lavoro, scuola) si registra (fonte Cnel) nel Nord e nel Nord-est? Nella battaglia civile e culturale contro la violenza che ogni xenofobia produce e nutre, sono convinto che i media possano essere preziosi alleati, garantendo a tutti noi quadri di conoscenza precisi e puntuali, e soprattutto restituendo alla questione la sua complessità. In questo modo, non avremmo solo sconfitto retoriche di ogni tipo e razzismi buoni per le campagne elettorali. Avremmo un Paese più maturo



Moustapha, Cheiqh e Mor “Giuro di essere fedele alla Repubblica”
CIRDI, 03-06-2013
“Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. Fa fatica a parlare Moustapha Dieng, uno dei ragazzi senegalesi feriti il 13 dicembre 2011 nella strage a sfondo razzista compiuta da Gianluca Casseri in cui persero la vita Samb Modou e Mor Diop. I tre sopravvissuti a quella giornata di follia omicida ieri hanno ricevuto la cittadinanza italiana concessa dal Capo dello Stato. A consegnarla in piazza della Signoria sono stati il sindaco Renzi, il presidente della Provincia Barducci e il governatore toscano Rossi che subito dopo i fatti scrisse a Napolitano chiedendo il suo intervento per dare un segnale alla comunità senegalese sconvolta e impaurita. Nel corteo in cui sfilarono ventimila persone tre giorni dopo la strage c’erano anche il Gonfalone della Regione e della Provincia, oltre a quelli di vari Comuni toscani, mentre Renzi scelse di partecipare alla manifestazione senza portare il Giglio di Firenze. E’ stato il prefetto Luigi Varratta a leggere ieri le motivazioni della decisione presa da Napolitano.
Con la Costituzione stretta tra le mani Dieng, costretto a muoversi sulla sedia a rotelle, con un filo di voce pronuncia fino in fondo la formula del giuramento. Le pallottole della 357 Magnum che Casseri gli ha sparato addosso lo hanno colpito alla gola e alla schiena, una ha leso il midollo spinale. Ad accompagnare Dieng sull’arengario di Palazzo Vecchio c’era un medico dell’unità spinale del Cto di Careggi dove il ragazzo è ancora ricoverato e assistito. Per diventare cittadino italiano ha pagato un prezzo troppo alto, la tristezza dei suoi occhi accompagna la lunga cerimonia e imprime un timbro indelebile sulle foto di rito scattate tra gli applausi e le note della fanfara dei Carabinieri. Dopo di lui giurano sulla Costituzione Cheiqh Mbengue e Mor Sougou, gli altri due ragazzi feriti nell’agguato. Insieme a loro Pape Diaw, la nuova presidente della comunità di Firenze Diyene Ndiaye, il console onorario Eraldo Stefani e la vedova Modou, che racconta commossa: “Provo sempre tanto dolore, anche se da quel giorno non siamo mai stati abbandonati e abbiamo sempre sentito l’abbraccio di tutti”.
Sente di dover “chiedere scusa” Enrico Rossi. “Scusa alle famiglie dei morti e dei feriti e scusa a tutta la comunità del Senegal. Quello che qui oggi facciamo è un atto eccezionale di cui dobbiamo dire grazie a Napolitano. Purtroppo le nostre leggi non concedono a chi nasce e vive in Italia di essere un cittadino come tutti gli altri”. Su questo tema centra il suo intervento anche Matteo Renzi: “E’ con rispetto che da Firenze torniamo a chiedere al Parlamento e alle autorità centrali che sia presto approvata la legge sullo ius soli, perché chi nasce in Italia deve essere cittadino italiano”. Nello stesso momento nel Comune di Scandicci il sindaco Simone Gheri consegnava a titolo simbolico la cittadinanza onoraria a 42 bambini nati nella sua città da genitori stranieri, come già era accaduto lo scorso 2 giugno.
Hanno festeggiato il 2 giugno in Toscana i ministri Maria Chiara Carrozza, che a Buti ha consegnato una copia della Costituzione ai ragazzi che hanno compiuto diciotto anni nel 2013, e Carlo Trigilia che a Bagno a Ripoli insieme al sindaco Luciano Bartolini ha consegnato un attestato di cittadinanza simbolico a tutti i minorenni nati nel Comune da genitori stranieri.
Fonte: Repubblica.it Firenze



La “doppia colpa” di essere migrante e omosessuale
Corriere della sera, 02-06-2013
Kibra Sebhat
Tutte le volte che mi è capitato di sentir parlare di omosessualità, all’interno del mondo migrante, ho teso bene le orecchie perchè non volevo perdere neanche una parola su un argomento, ma soprattutto un soggetto, che troppo spesso viene lasciato in disparte. Come se, oltre allo stato di migrante già di per sè una “colpa” da espiare, anche quello dell’orientamento sessuale fosse una caratteristica da nascondere. Occupandomi di seconde generazioni, poi, ho sempre avuto paura che qualche ragazzo o ragazza, oppure che degli insegnanti o dei genitori, venissero da me chiedendomi informazioni o aiuto, e che non sapessi darglieli. Per questo quando ho incrociato Helen Ibry, ricercatrice in Antropologia, Presidente di ArciLesbica Zami e autrice della tesi “Donne migranti tra Perù e Italia: genere e orientamento sessuale nel farsi dell’esperienza” le ho subito chiesto di farmi una lezione accellerata della realtà in Italia e di come, secondo lei, dovrei comportarmi.
Prima di tutto, mi ha fatto riflettere sull’uso delle parole: è sempre meglio usare il termine LGBT. Dire solo “mondo gay” o “mondo omosessuale” infatti non è esaustivo, perchè non solo non cita, ma non prende proprio in considerazione la componente lesbica, bisessuale e transgender.
Poi mi ha rassicurato sulla presenza di servizi e sportelli di supporto: a Milano, in particolare, c’è il Progetto IO (Sportello Trans ALA Milano Onlus, CIG-Arcigay, Arcilesbica Zami, Linea Lesbica Amica, Certi Diritti) che si occupa del mondo LGBT tra i migranti, e che può dare un primo aiuto a chi ne avesse bisogno. Tra maggio e giungo, inoltre, è in corso una serie di incontri che vedono la collaborazione proprio tra il Progetto IO e l’Arci Todo Cambia per un’edizione speciale degli appuntamenti dell’Università Migrante. “Arcobaleni Migranti” è il nome del corso che, citando il volantino, vuole discutere della molteplicità delle identità esistenti, valutando le buone pratiche che esistono già. Ma che vuole anche immaginarne di nuove, grazie all’aiuto degli addetti al settore e di tutta la cittadinanza: gli appuntamenti si concluderanno con un’Assemblea Pubblica a cui siamo tutti invitati, e di cui potete seguire gli aggiornamenti a questa pagina Facebook .
Infine non potevamo non parlare della sua ricerca di dottorato, nella quale ha approfondito la realtà delle donne immigrate di origine peruviana e due aspetti mi hanno colpito più degli altri, che legano queste donne da una parte al loro genere, dall’altra al loro orientamento sessuale. Il fatto di essere delle donne, un po’ come per tutte le immigrate dal Sud America, fa sì che queste non si spostino solo per sè, ma che la migrazione rappresenti un’opportunità per tutta la comunità che le circonda, a cominciare dal suo nucleo più piccolo, la famiglia. Se si viene rifiutate come lesbiche, non viene più richiesto neanche di contribuire come donna: una libertà ed un’esclusione, allo stesso tempo, dal ruolo femminile tipico.
L’altra caratteristica, invece, simile al mondo LGBT nel suo insieme, penso sia questa: tanto quanto si emigra per lavoro ed una vita migliore, lo si fa per trovare un luogo dove vivere serenamente il proprio amore, indipendentemente da sesso. Così succede che, ad esempio, le donne lesbiche dal Sud America cerchino altrove un luogo dove avere più diritti, tanto quando, ad esempio, potrebbero farlo gli uomini gay del mondo musulmano. Tanto quanto, lo fanno per certo, lesbiche, gay, bisessuali e trans che lasciano l’Italia per Paesi che riconoscono loro ciò che gli spetta di diritto, come il matrimonio e l’adozione. Incredibile quanto, nonostante tutto, ci ritroviamo sempre più uniti al di là delle origini, vero?    



La prefettura di Torino lancia la prenotazione on-line “elimina-code” per le istanze di cittadinanza.
Una piattaforma informatica realizzata grazie a un progetto Fei che potrà essere estesa anche ad altri servizi.
Immigrazioneoggi, 03-06-2013
È attivo sul sito della prefettura di Torino il nuovo servizio di prenotazione on-line degli appuntamenti per la presentazione delle domande di cittadinanza.
Realizzato dalla prefettura nell'ambito del progetto Lo Stato per i nuovi cittadini con finanziamenti Ue (Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini di Paesi terzi), il servizio è pensato per facilitare la vita del cittadino e il suo rapporto con le istituzioni, snellendo e semplificando l'erogazione dei servizi.
Le prenotazioni on-line si effettuano attraverso una piattaforma informatica che rende possibile agli utenti (cittadini e associazioni) e agli operatori gestire gli appuntamenti per la presentazione delle istanze di concessione della cittadinanza. Si tratta di una piattaforma flessibile, si legge nella pagina web di presentazione, che consentirà in futuro di implementare altri servizi on-line.



Rom, stato d'emergenza illegittimo E il Garante per l'Infanzia visita i campi
In seguito alla sentenza della Corte di Cassazione che ha decretato l'illegittimità dello stato di "emergenza nomadi" in Italia, il Garante per l'Infanzia Spadafora ha effettuato un blitz a sorpresa nei villaggi attrezzati di Roma: "Sono senza parole. È una vergogna che persone nel 2013 vivano così tanto ai margini da tutto". Associazione 21 luglio e ERRC: "Superare logica dei campi".
la Repubblica.it, 31-05-2013
DANILO GIANNESE
ROMA - 21 maggio 2008: in seguito agli attacchi contro alcuni insediamenti Rom nel quartiere Ponticelli di Napoli, l'allora governo Berlusconi dichiara lo stato di emergenza relativamente alla questione "nomadi" in Italia. 25 mila persone che vivono in emergenza abitativa in cinque regioni italiane vengono assimilati a terremoti o calamità naturali. Cinque anni dopo, lo scorso 2 maggio, una sentenza della Corte di Cassazione ha decretato l'illegittimità di quel provvedimento, mettendo di fatto la parola fine sulla cosiddetta "emergenza nomadi" nel nostro Paese. Ma cosa è cambiato per le comunità Rom in questi cinque anni caratterizzati dall'emergenza nomadi e dai vari interventi a livello locale da esso giustificati?
Il blitz del Garante per l'Infanzia. Nei giorni scorsi, l'Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza, Vincenzo Spadafora, ha effettuato una visita a sorpresa in due "villaggi attrezzati" di Roma, quello di via di Salone e di via della Cesarina, strutture costruite e autorizzate dall'amministrazione capitolina in cui vivono rispettivamente 1.076 e 181 persone di etnia Rom. Le condizioni di vita nei due villaggi risultano precarie: i container sono fatiscenti e spesso i bambini sono costretti a dormire per terra per mancanza di spazio, le condizioni igieniche sono al limite e, in generale, i servizi essenziali quali scuole, ospedali e supermercati sono lontani.
Senza luce e acqua. "Ogni mese versiamo al gestore 50 euro per le utenze di luce e acqua, senza alcuna ricevuta; eppure siamo senza luce e acqua da sette mesi e siamo costretti a lavare i bambini nelle bacinelle. Noi vogliamo pagare le bollette come tutti gli italiani e ricevere i servizi", racconta Emile, abitante del villaggio della Cesarina. "Sono senza parole. Sembra assurdo, ed è una vergogna che persone nel 2013 vivano così tanto ai margini da tutto, dai diritti elementari. Scriverò di continuo a chi gestisce questi campi, al Comune di Roma e alle forze dell'ordine finché non daranno risposta", ha affermato il Garante al termine della visita, durante la quale è stato accompagnato da una delegazione dell'Associazione 21 luglio e del Comitato Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC). "L'emergenza nomadi è finita solo sulla carta, basta vedere le condizioni di vita a cui queste persone sono costrette. Chiederò un incontro al ministro Josefa Idem, se sarà lei ad avere la delega, per capire che intenzioni ha il governo in merito al piano nomadi", ha proseguito Spadafora.
Il Piano Nomadi di Roma. I due "villaggi attrezzati" visitati dal Garante rientrano nell'ambito degli interventi previsti dal Piano Nomadi lanciato dall'attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno nel luglio 2009, in seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza nomadi.. Il piano prevedeva la collocazione di 6 mila rom, a fronte dei 7.177 presenti nella Capitale, all'interno di 13 "villaggi attrezzati" e la chiusura degli 80 insediamenti informali e dei 14 campi cosiddetti tollerati. Il Piano, nelle parole di Alemanno, avrebbe rappresentato "una rivoluzione copernicana" e avrebbe sancito il connubio "tra legalità e solidarietà". Per l'allora Ministro degli Interni Roberto Maroni, esso sarebbe stato "un modello da esportare in tutta Europa". A quasi quattro anni di distanza, i "villaggi attrezzati" sono otto. In più, gli insediamenti informali presenti a Roma sono aumentati, toccando oggi quota 200, sebbene siano stati realizzati ben 536 sgomberi forzati. Dalla sua attuazione, il Piano Nomadi di Roma è costato oltre 62 milioni di euro.
La denuncia dell'Associazione 21 luglio."Finora il Piano Nomadi ha prodotto sovraffollamento nei "villaggi attrezzati", peggioramento del servizio di scolarizzazione per i bambini a causa della distanza dalle scuole, aumento dell'insicurezza nei 'campì ed emarginazione sociale - sostiene Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio - Questo Piano rappresenta oggi l'incarnazione della violazione istituzionale dei diritti umani, una violazione non più accettabile perché sinora ha prodotto percorsi deumanizzanti e livelli di sofferenza drammatici".
Il Rapporto dell'ERRC. Un nuovo rapporto del Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC) fotografa le condizioni di vita di oltre 4.000 mila rom che vivono nei campi formali di Roma e Milano. "Pregiudizi, mancanza di conoscenza e barriere comunicative pregiudicano la salute dei rom, che in Italia generalmente hanno condizioni più precarie rispetto ai non rom", si legge nel rapporto dell'organizzazione internazionale. Secondo l'ERRC, inoltre, "precarietà delle condizioni abitative, sgomberi forzati e mancanza della garanzia del possesso dell'alloggio incidono negativamente sull'istruzione dei bambini rom", mentre l'isolamento dei campi dalla città pregiudica l'inserimento lavorativo dei rom, per i quali il rapporto individua un tasso di disoccupazione 4-5 volte superiore di quello dei non Rom. "Chiediamo alle autorità italiane, sia locali che nazionali, di optare per soluzioni che superino la logica dei 'campi' e che favoriscano attivamente l'integrazione dei rom", ribadiscono Associazione 21 luglio e ERRC.

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