Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

RELAZIONE

Sara Medici
In Italia viviamo in diretta l’urto dell’esperienza della prima ondata dei migranti, che non portano con sé solamente quella che volgarmente definiamo forza lavoro, bensì appaiono (nel vero senso della parola) davanti ai nostri occhi per la prima volta.

Diciamo che, in effetti, la nostra cultura deve necessariamente fare i conti con la reale esistenza di forme di pensiero, usi e costumi, differenti dalla propria. L’Europa, infatti, ha sempre incontrato l’altro fuori da casa sua, in Africa, in America, in Indonesia, in India ecc, e l’ha incontrato, sempre, instaurando un tipo di relazione in cui noi, europei-bianchi, eravamo il soggetto conoscente e loro, altri e neri, erano il resto del mondo, l’oggetto da conoscere. Oggi, invece, risulta evidente che non possiamo più relazionarci a loro secondo l’eredità del modello colonialista, se non altro perché adesso siamo noi a rappresentare il territorio invaso, con la grande differenza che loro non stanno venendo qui per sterminarci, né per rubarci materie prime né, tantomeno, per ridurci in schiavitù. Stanno venendo perché noi abbiamo da sempre sostenuto (e mostrato attraverso i media) che il nostro è il migliore dei mondi possibili e allora loro, giustamente, si stanno prendendo il diritto di abitarlo insieme a noi. Il fatto che “tutto il resto del mondo” sia approdato, e continui ad approdare quotidianamente, sulle nostre coste ci costringe a rapportarci, a relazionarci, con una molteplicità di culture che non si pongono più, nei nostri confronti, come cittadini di serie “b”, come colonizzati, come oggetti, ma, al contrario, sono consapevoli di essere a loro volta soggetti storici esistenti. Per questo motivo stanno cominciando a chiedere voce, ascolto e riconoscenza della loro dignità di esistere e di abitare, insieme a noi, un mondo condiviso. Se noi non li riconosciamo, se noi non smettiamo i panni dei colonizzatori e non ci riconosciamo a nostra volta come altri, loro, ognuno di loro, alzerà la voce e la alzerà, per giunta, da qui, non da lì come avvenne durante il lungo periodo di decolonizzazione. Il punto, dunque, è passare dal Noi/loro alla coscienza di essere tutti italofoni, tutti soggetti, ma tutti differenti: italiani, magrebini, cinesi, indiani, bengalesi, senegalesi, angolani, rumeni, polacchi, sudamericani e tutti i bambini creoli, parlanti la stessa lingua. Passare da un tipo di relazione universale ed unidirezionale al riconoscimento di vivere in un multiverso in cui tutti siamo noi e tutti siamo loro a seconda del punto di vista di chi guarda. Una volta riconosciuto questo dovremmo, insieme, educarci alla conoscenza reciproca. Un positiva esperienza in questa direzione risale al 1988 con l’iniziativa della RAI - poi inspiegabilmente e ignobilmente chiusa invece che incrementata – di avviare una trasmissione settimanale dedicata ai problemi, alle culture ed alle voci degli immigrati. Si chiamava Non solo nero ed era presentata dalla giornalista capoverdiana Maria de Lourdes Jesus e curata da Massimo Ghirelli. Successivamente la nostra informazione sul “mondo di mondi” che abitiamo insieme scivola dalla Tv alla Radio, con una trasmissione, Permesso di soggiorno, sperduta ma valorosa, in onda su Radio1.  Scelte culturali che sono, al contempo, anche chiare scelte politiche. Tuttavia penso che questo modus opernadi sia da considerarsi non solo obsoleto, “fuori moda”, ma anche molto pericoloso. Dal canto mio scelgo, invece, di seguire un pensiero che sebbene non sia né praticato né tramandato, né, in definitiva, riconosciuto come fondamento per una pratica politica reale e possibile, rappresenta, in realtà, l’unico salto culturale che ci permetterebbe di educarci, tutti insieme noi&loro al fine di convivere pacificamente arricchendoci a vicenda. É una scelta politico-culturale fondamentale per non arrivare alla violenza diffusa e (perché no?) alla guerra civile/tribale del tutti contro tutti.
Questa cultura altra di cui parlo nasce negli anni Settanta del secolo appena trascorso quando la donna europea cominciò a pensarsi come soggetto altro al fianco del maschio bianco occidentale, unico soggetto storico esistente fino a quel momento. Allo stesso periodo risale la presa di coscienza dei neri d’America e di moltissime “minoranze etniche” già presenti sul suolo europeo. Così fu in questo periodo che proprio l’Occidente, nella sua componente femminile, sviluppò quello che poi fu chiamato pensiero della differenza. Una forma mentale altra da cui, penso, sia opportuno ripartire al fine di cominciare, per lo meno, a sciogliere nodi che ormai stanno venendo drammaticamente al pettine. La necessità di porsi come soggetto storico reale ed esistente al fianco del maschio portò la donna europea al concepimento di una forma di pensiero basata sulla convinzione che l’ “essere” della nostra filosofia non fosse, in realtà, un essere assoluto, ma un ente relazionale composto da due fuochi equipollenti  (il maschile e il femminile, ma anche il bianco e il nero, il giovane e il vecchio ecc.) e non da un unico centro che, inoltre, definiva tutto il restante altro solo in base a se stesso, al proprio punto di vista.  Diciamo quindi che la donna bianca occidentale pensò, già negli anni Settanta del Novecento, al fatto che il termine loro, che abbiamo utilizzato precedentemente, fosse in realtà un termine-calderone dentro cui il maschio bianco occidentale metteva tutto ciò che era differente da lui e che egli percepiva come tu, come oggetto. Il pensiero della differenza modifica la forma mentale egocentrica, fondamento che ha condotto a tutti i vari “centrismi” occidentali – antropocentrismo, geocentrismo, eurocentrismo – a favore di una forma mentale differente fondata sulla consapevolezza per cui qualsiasi “essere” è, in se stesso, ente relazionale composto da due fuochi che stanno in tensione dialettica fra loro, in relazione, creando uno spazio comune in cui entrambi sono al centro, ma che differisce dai centri stessi. Con questa forma mentis passiamo dal concetto di io-tu, di soggetto-oggetto, di io-altro, al concetto di io-io, di soggetto-soggetto. Da una forma mentale universale, che va in un unico verso, ad una forma mentale duale e “multiversale” in cui entrambi gli io sono, al contempo, altro. Detto questo possiamo immaginare la prima forma mentis nella figura della circonferenza e vedere che quando due pensieri egocentrici, universali, si incontrano costruiscono un luogo in cui nessuno dei due è al centro e che quindi non viene percepito come luogo.
 
La sfida storica che dobbiamo cogliere, invece, è di cominciare a percepirci, tutti, attraverso l’immagine mentale dell’ellisse in cui ogni io, come voleva Rimbaud, è anche un altro, in cui ogni soggetto è, dunque, uno e molteplice.       
 
Questa figura mostra una relazione differente e dialettica dal momento che produce uno spazio davvero comune a due centri, ma che differisce dai centri stessi. In questo modo lo spazio relazionale diviene lo spazio pubblico abitato da entrambi i poli; la Res publica umana, ossia un tempo-spazio, un luogo, un mondo, un multiverso condiviso da tutti e non posseduto da nessuno.







 

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