Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

02 settembre 2013

DALL’IMMIGRAZIONE SOCIALE ALL’EMERGENZA UMANITARIA
Corriere della sera, 02-09-02013
Risponde Sergio Romano
Ormai è cosa quotidiana ascoltare i telegiornali che snocciolano, ogni volta con il dovuto tono italico commiserevole, numeri dei barconi di poveracci che approdano presso le nostre coste. Al di là dei numeri degli immigrati sbarcati, specificando anche il numero delle donne incinte e bambini (è molto importante?) e dei centri di accoglienza che sono al collasso, non si sente alcun commento circa tale fenomeno. Questo la dice lunga sulla professionalità e l’indipendenza dei giornalisti che non si azzardano neppure ad accennare che dietro questo finto pietismo si cela l’assoluta incapacità della classe politica italiana ed europea di affrontare e risolvere il problema. D’altronde proprio qui da noi in Italia cosa possiamo aspettarci, abbiamo anche istituito un nuovo ministero per l’integrazione nominando una ministra che è originaria di una delle zone dalle quali provengono gli immigrati, è del tutto evidente che questo costituisce un notevole incentivo e richiamo a sbarcare presso le nostre coste come uno specchietto per le allodole.
Alessandro Taretto , Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Caro Taretto, ccco il commento. Esistono ormai da molti anni due tipi d’immigrazione. Vi è in primo luogo quella sociale, di cui tutta l’Europa ha fatto esperienza negli ultimi decenni. È obiettivamente motivata, in buona parte, dalla domanda di mano d’opera a basso costo nelle maggiori economie dell’Unione Europea. Non vi sarebbe stata, per quanto concerne l’Italia, se gli immigrati clandestini non avessero avuto la ragionevole speranza di trovare abbastanza rapidamente un'occupazione in nero nella pesca siciliana, nell’agricoltura meridionale, nelle fabbriche del centro- nord e in lavori umili o faticosi ormai rifiutati dalle ultime generazioni. Questa immigrazione, negli ultimi tempi, è andata progressivamente calando e in Italia, come in Spagna, assistiamo ormai al fenomeno dei ritorni. Vi è poi, accanto a questa immigrazione, quella umanitaria, provocata dalle condizioni politiche e sociali degli Stati di provenienza. Le brusche recessioni dei Paesi dell’Africa del nord dopo le rivolte arabe del 2011, la guerra civile siriana, la guerra del Mali, la interminabile guerra del Congo e altri conflitti tribali spingono uomini e donne a cercare asilo in Europa. Nel primo semestre del 2013 le richieste d’asilo in Germania sono state 45.000, quasi il doppio dei 23.000 del 2012. Si calcola che alla fine del 2013 i rifugiati siriani in Turchia, Libano e Giordania saranno tre milioni e mezzo e i bambini, complessivamente, più di un milione. In altre circostanze i Paesi dell'Unione hanno cercato di concludere accordi con i Paesi di provenienza per aiutarli a meglio controllare le loro frontiere e a sviluppare le loro economie. Oggi la maggior parte dei governi dell’Africa del nord non è in condizione di fare promesse o assumere obblighi. L’Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati è impegnato nell’organizzazione dell'assistenza ai confini con la Siria e spera ragionevolmente di potere contare sulla collaborazione di quei Paesi del Mediterraneo che hanno livelli di vita considerevolmente superiori a quelli della fascia meridionale. In questa emergenza umanitaria l’esistenza nel governo italiano di un ministro dell’integrazione di origine congolese è irrilevante. I profughi scelgono l’Italia perché è fra i Paesi più vicini della sponda settentrionale e le condizioni del viaggio, durante l’estate, sono generalmente più favorevoli.



Dentro il Ghetto dei braccianti africani
l'Unità, 02-09-2013
Ella Baffoni
Da lontano non si vede. Campi sterrati, campi appena piantati, campi in maturazione. Campi dietro campi: devi arrivare a cinquanta metri per vedere le prime «case», accolte in una leggera infossatura del terreno che le nasconde alla vista, ombelico della terra: il Ghetto.
Lo chiama così chi ci abita: il Ghetto. Non «il ghetto di Foggia», il Ghetto. Un nome, non un giudizio. È una città: con le sue strade, gli assi ortogonali che di notte diventano «il corso», le piazze là dove ci sono i bidoni dell’acqua potabile, i rubinetti di quella non potabile per lavarsi. Una città che ospita in questi giorni mille e trecento persone, in larga parte giovani maschi africani che di giorno vanno a fare i braccianti nei campi in Capitanata, la seconda pianura d’Italia dopo la val Padana.
Il primo impatto è straniante. Baracche, nient’altro. Un lusso le pareti di bandone o lamiera. Di regola le colonne portanti sono di assi di legno su cui viene inchiodato compensato di risulta e vecchi cartelloni pubblicitari. All’esterno grandi plastiche a fasciare le strutture, solidamente fermate dai tubi dell'irrigazione inchiodati sul legno. Vecchi infissi ripescati in discarica, rare e piccole le finestre, la luce entra dalla porta, a volte protetta da un porticato; gran uso di tapparelle come staccionata.
È cominciato così: qualche casa colonica abbandona, occupata e riattata per la stagione. L’anno dopo accanto alle case, ecco le prime baracche, che l’inverno venivano smontate, ma già qualcuno si fermava nelle case. Poi le baracche si sono moltiplicate, molte sono abitate anche d'inverno. Dopo i fatti di Rosarno, vi si sono rifugiate 150 persone. Lo scorso dicembre c’erano 250 abitanti e, dopo la chiusura di «Emergenza Nordafrica», in maggio c’erano già 500 persone. L’anno scorso erano 900, quest’anno 1.300.
Baracche. Eppure l’uniformità del sistema di costruzione dà uno stile, una riconoscibilità a queste abitazioni molto diverse dalle baracche degli immigrati campani o abruzzesi alle porte di Roma fino agli anni ‘80 affogati nel degrado. Qui grazie alla Regione Puglia c’è l'acqua, potabile e no. I bagni chimici. La raccolta dei rifiuti; se qualche plastica viene portata per i campi via dal vento battente è perché i sacchi accuratamente chiusi non vengono tutti raccolti, e i randagi li lacerano a morsi nella notte. Due volte a settimana c’è il furgone di Emergency che fa ambulatorio (ma la Asl?). C'è persino Radio Ghetto, affiancato dalle Brigate di solidarietà attiva, che trasmette nelle moltissime lingue che si parlano in Senegal, Mali, Guinea Bissau, Costa d’Avorio, Guinea Conakry. Non c’è luce: di notte sono i punti di ritrovo a colorare di neon la strada principale. Da luglio a settembre c’è il campo di lavoro di «Io ci sto», ragazzi e non che dalle 17 alle 21 insegnano italiano e insieme ai ragazzi senegalesi e maliani riparano le biciclette, indispensabile strumento di mobilità. Due volte a settimana ci sono gli «avvocati di strada» che informano su diritti del lavoro e permessi di soggiorno. Ogni tanto compare qualche sindacalista, ma senza un luogo attrezzato, una postazione, un appuntamento fisso.
È vero, non c'è solo il Ghetto. In Capitanata sono 22mila residenti, a cui si aggiungono per la stagione della raccolta altre 16mila braccianti. Oltre agli africani. Sono gli europei (rumeni, polacchi, albanesi) che occupano i ruderi delle case coloniche o trovano altri ricoveri di necessità e a volte vengono segretari e schiavizzati. Ma il Ghetto è un'altra cosa. Un bel libro, «L’urbanistica del disprezzo», descrive come vivono in Italia i rom, e perché. Più che il disprezzo, per il Ghetto c'è invece «l’urbanistica dell’esclusione», dello sfruttamento. Lontani dalla città - quando c'è scuola un pullman garantisce almeno il collegamento con Rignano, d'estate c’è solo una corsa alle 7.40 con ritorno verso le 10 - nemmeno visibili, chi sta al Ghetto non ha che da lavorare, dormire, mangiare. C’è qualche «ristorante» che funziona anche da bar - e a volte da bordello, frequentato anche da italiani - c’è un barbiere, uno spaccio, il mercato: qualche ambulante che vende abiti usati e stoffe: soprattutto tende, grandi tende da interni che vengono drappeggiate nelle stanze per nascondere le pareti e abbellirle con cura. C'è un mercato informale, a volte illegale. Ma c’è anche solidarietà, nessuno rimane digiuno anche se non ha trovato lavoro.
Ora c’è chi vorrebbe cancellarlo. Una vergogna, dicono: buttiamolo giù. Meglio una tendopoli, ingressi controllati, mensa e polizia (e magari qualche nuovo posto di lavoro per italiani). Ma chi non ha il permesso di soggiorno sarebbe escluso, di nuovo. Di nuovo dovrebbe costruirsi una baracca nascosta. Il Ghetto è una vergogna. Sotto però c’è un’altra vergogna: quella dello sfruttamento, del caporalato che, nonostante la legge lo vieti, è più vivo che mai. Una vergogna le paghe da fame, 3.50 euro l’ora contro le 7.36 del contratto. E c’è qualche azienda che si spinge anche più in basso: domenica scorsa una squadra di undici braccianti si è sentita proporre una paga di 2.50 euro. Hanno rifiutato, e ci vuole coraggio, sono tornati al Ghetto.
Alla grettezza delle aziende si aggiunge il giogo del caporalato. I caporali, o i «capineri» (africani che ormai li hanno quasi sostituiti), tengono i contatti con le aziende, organizzano le squadre e le portano sul posto di lavoro riscuotendo 5 euro a testa, contrattano e ritirano le paghe e ci fanno una congrua cresta. Di norma strappano alle aziende 5 euro l'ora, ma al bracciante ne arriveranno 3.50. Meccanismo perfettamente descritto dal corto Caponero Capobianco (http://www.iocisto.eu/i-media/video-2/162-caponero-capobianco.html).
Se un bracciante avesse un contratto normale, potrebbe pagare un affitto e vivere a Foggia. Questo è il modo giusto per distruggere il Ghetto. Qualcuno ce la fa, una sessantina di persone almeno tornano al Ghetto solo per ritrovare gli amici. Giacché il ciclo delle culture si è ampliato (si comincia con l'orzo e il grano, poi pomodoro, zucchine e melanzane, cipolle e zucche, uva e olive, broccoletti e finocchi e carote) qualche rara azienda ha scelto di dare un contratto. Ma sotto molti dei contratti registrati all’Inps c’è un inganno: si assumono parenti e amici che non andranno mai nei campi ma riscuoteranno contributi e cassintegrazione invernale, così chi lavora davvero è truffato 2 volte.
Lavoro pulito e dignità, questo è il piccone che può distruggere il Ghetto. Ogni alternativa lascia intatto il problema e lo nasconde sotto un tappeto diverso. In quella città negata c’è «un serbatoio prezioso - dice Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano con un lungo percorso da migrante e missionario, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto - di energie e speranze per questi ragazzi migranti. E ci sono piccole azioni positive. Come la scuola di italiano, che dà uno strumenti indispensabile di cittadinanza. Come la ciclofficina, che mantiene in efficienza un mezzo di trasporto economico così da bypassare il caponero e andare direttamente a contrattare la giornata di lavoro. Ma soprattutto l’incontro tra giovani italiani e giovani braccianti, i cui contatti con gli italiani si limitano spesso a poliziotti, caporali, mafiosi e sfruttatori. L’incontro produce rapporti, fermenti, fiducia. I braccianti hanno l'obiettivo di mandare 50 euro al mese a casa, per i loro villaggi è uno stipendio rispettabile. Ma se avessero più giustizia, una paga decente, una casa, una famiglia, magari investirebbero qui.
Trent’anni fa noi italiani raccoglievamo pomodori per 12.000 lire l'ora, 6 euro. Oggi i braccianti ne prendono 3.50 e nei mercati il pomodoro costa tre volte di più. Perché il bracciante prende la metà e il consumatore paga il triplo?». La colpa è dell'ago della bilancia, la grande distribuzione che determina il prezzo, decide quanto comprare e da chi. I loro nomi non circolano, ma le loro azioni, qui nel Tavoliere, si vedono chiaramente.
Intanto sotto il tendalino della scuola di italiano, vicino alla bandiera della pace, si impara a scrivere, la testa china sui fogli, l'emozione di sentirsi capaci, sorrisi e risate. E, alla fine, tutti in cerchio a spizzicare taralli e fare conversazione, dalla poligamia al cibo, dalla moda a come si lavora nei campi. Su quel che è avvenuto, ad esempio, qualche settimana fa: lo scorso anno 287 braccianti hanno lavorato due mesi per la stessa azienda che, alla fine, non li ha liquidati. «Alcuni non si sono arresi - dice Arcangelo Maira - hanno deciso di fare vertenza, di combattere per i loro diritti. Abbiamo cercato i loro compagni, ormai dispersi per l'Italia, in cinquanta hanno chiamato in causa una grande azienda. Un bel segno di speranza».



La Lega, i migranti e le stelle cadenti
Corriere della sera, 01-09-2013
Paola D'Agostino
Diceva qualche giorno fa Matteo Salvini, della Lega Nord, che “non esistono migranti, ma clandestini che rompono i c…”. Avrebbe potuto usare l’eufemismo “maroni”, ma giacché si era in tema di nomi, meglio non creare equivoci! “Non ci sono più clandestini, né immigrati, ora si chiamano migranti” – lamentava Salvini nel suo comizio. I nomi che diamo a cose e persone sono importanti, questo è vero, perché descrivono il nostro modo di interpretarli. Allora mi sono ricordata di una scena a cui ho assistito qualche settimana fa, esattamente il 12 agosto, la notte delle stelle cadenti, o Perseidi. Dal mare eravamo saliti in escursione sulla cima più alta delle montagne circostanti, per esplorare la notte da un buio privilegiato a caccia di stelle cadenti come si inseguono farfalle o sogni.
Mentre eravamo lì, in attesa, in gruppo, i bambini eccitati saltellavano sulla punta della vertigine facendo fatica a contenere l’entusiasmo. A un certo punto, come una visione, è comparso un cagnolino, con un campanellino al collo, che sembrava approdato lì per miracolo da un punto qualunque sospeso tra quei sentieri impervi. Da dove era arrivato? Come?
    Allora uno dei bambini, come preso da un’illuminazione, ha urlato: “È un immigrato!!!”
C’è stato un attimo di silenzio stupefatto, poi una risata a sciogliere la tensione, poi qualcuno ha cercato di sdrammatizzare mentre il bambino era quasi orgoglioso di aver usato una parola da adulti. Che però la diceva lunga sul modo in cui, anche inconsciamente, interpretiamo lo sbarco di questi frammenti di costellazioni lontane che sono i migranti. Io li chiamo così, preferisco.
    Dopo un po’ è arrivato il pastore che aveva guidato il cane fin lassú, o viceversa. E la gita ha ripreso il proprio corso, senza più enigmi se non quelli astronomici.
Però ognuno degli adulti, anche senza dirlo, ha continuato a riflettere su quell’associazione di idee, spontanea, che il bambino aveva esternato. A me è tornato in mente il dinosauro di Calvino, quello de “Le Cosmicomiche”. E pensavo che bisognerebbe darlo da leggere ai bambini, a scuola, come lettura più che obbligatoria.
    In un tempo senza tempo che descrive le trasformazioni del cosmo, all’estinzione dei dinosauri ne sopravvive uno, uno solo, che gira per la terra in cerca di una casa in cui stabilirsi. Gli uomini, che avevano sentito parlare dei dinosauri estinti in milioni di storie e leggende, senza mai però averne visto uno, nel vedere quell’essere strano, estraneo, straniero, per offenderlo o categorizzarlo nel loro sistema di pensiero gli urlano contro, in tono offensivo: “Sembra un dinosauro!”. E ridono di lui.
Poi col passar dei giorni imparano a conviverci, e smettono lentissimamente di chiedersi che cosa sia, di che razza o specie, mentre lui ha paura di dir loro che davvero è un dinosauro, e potrebbe raccontare la vera storia che sta dietro le mille storie inventate o deformate dalla paura di confrontarsi con lo sconosciuto, l’Altro (o l’ospite, per dirla alla Derrida).
    Se avesse letto quel racconto, il bambino forse avrebbe urlato al cane “È un dinosauro!”, piuttosto che un immigrato.
E sarebbe stato importante, perché è dall’immaginario dei bambini che bisogna partire per costruire nuovi modelli di comunità. E dare nuovi nomi a cose e persone.
    E poi pensavo anche che bisognerebbe fare con i migranti quel che si fa con le Perseidi, o stelle cadenti: esprimere un desiderio, dolce, di buon auspicio, ogni volta che se ne vede uno.



Ue: la Svezia adotta la “Blue Card” per favorire l’ingresso nel Paese di lavoratori extracomunitari altamente qualificati.
Dal mese di agosto la Svezia è il 24esimo Paese ad aver aderito al sistema europeo dei permessi di lavoro Blue Card.
Immigrazioneoggi, 02-09-2013
Dal 1 agosto 2013 la Svezia ha ufficialmente adottato la Blue Card (Carta blu), un permesso di lavoro europeo volto a permettere ai lavoratori altamente qualificati, provenienti da Paesi extraeuropei, di lavorare e vivere nel Paese Ue aderente al sistema. Essa garantisce la parità dei diritti del lavoratore straniero con quelli dei cittadini del Paese Ue, libertà di movimento nell’area Shengen, condizioni agevolate per la riunificazione familiare e favorisce l’acquisizione di un permesso di residenza, tutto a condizione che il soggetto richiedente dimostri di avere una laurea o un master e di avere un valido contratto in un Paese Ue.
Sebbene siano queste le condizioni generali che ogni Paese aderente deve rispettare, ci sono dei parametri che restano a discrezione dei singoli Stati e che nel caso della Svezia si traducono in almeno 5 anni di esperienza lavorativa, avendo ricoperto un ruolo professionale, e in un tetto minimo previsto per il salario. La Blue Card ha validità per due anni, a meno che il soggetto interessato non perda il lavoro (nel qual caso la carta sarà annullata), e non può sostituire il visto. Tuttavia, permette di risiedere temporaneamente in Svezia per i primi 18 mesi all’arrivo del lavoratore nel Paese.
Al momento, gli unici Paesi Ue a non aver aderito al sistema della Blue Card sono Regno Unito, Irlanda e Danimarca.
(Samantha Falciatori)

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