Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

22 dicembre 2014

Il Papa apre i conventi a 15mila profughi
Francesco aveva detto: quelli vuoti non diventino luoghi per fare soldi. Frati e monache gli hanno dato retta
E i rifugiati trovano asilo negli istituti religiosi e nelle parrocchie. Dove si fa vita in comune e si coltiva anche l`orto
la Repubblica.it, 22-12-2014
PAOLO RODARI
ROMA. Quando il 10 settembre  2013, in visita al Centro Astalli,  Francesco ha detto che i conventi  vuoti non devono diventare  alberghi per guadagnare soldi  perché sono «per la carne di  Cristo che sono i rifugiati», suor  Emerenziana Bolledi è saltata  sulla sedia. Novantenne, ha ricordato  quando era novizia alla  fine del `43. Roma era nelle mani  delle forze d`occupazione tedesche  che eseguivano rastrellamenti  ai danni degli ebrei. Pio  XII chiese alle comunità religiose  di aprire le porte «ai fratelli  perseguitati».
Suor Emerenziana, assieme a  suor Ferdinanda Corsetti direttrice  della scuola di San Giuseppe  di Chambéry al Casaletto, rispose  affermativamente tanto  che, successivamente, venne riconosciuta  dallo Yad Vashem  ( con lei anche suor Ferdinanda )  "Giusta tra le Nazioni". A distanza  di anni, ciò che è accaduto  non è stato dimenticato. Anzi,  ha contribuito a far sì che la comimità  non restasse indifferente.  L`anziana suora, sentite le  parole del Papa, ha incoraggiato  la superiora dell`Istituto di via  del Casaletto di cui ancora fa  parte a «non avere paura» e ad  aprire la porte ai perseguitati:  un tempo erano gli ebrei oggi sono i rifugiati.
Tanto che da qualche mese  tre rifugiati, due dal Gambia e  uno dal Niger, stanno vivendo  un`accoglienza di secondo livello:  una sorta di passaggio intermedio  che li porterà entro un  tempo stabilito alla completa integrazione  nella società italiana.  Abitano in un locale accanto  al convento dove, oltre. a gestire  in autonomia la casa messa a loro disposizione, tornati dai rispettivi  lavori hanno anche la  possibilità di coltivare ( per loro  e per le suore) un piccolo orto.
Non è che un esempio di un  movimento che, in seguito all`invito  del Papa, sta coinvolgendo  sempre più conventi in  tutta Italia. Solo a Roma presso  il Centro Astalli - l`associazione  dei gesuiti che da oltre  trent`anni è impegnata ad accogliere  e difendere i diritti di chi  arriva nel nostro Paese in fuga  da guerre, violenze e torture si  sono rivolti nel 2014 una dozzina  di conventi che hanno accolto  una ventina di rifugiati.  Non poca cosa, anche se tutti i  giorni ,( Natale e Pasqua compresi)  sono circa 400i rifugiati  che consumano un pasto caldo  alla mensa del Centro dietro la
Chiesa del Gesù. Ma anche in  tutta Italia i numeri sono significativi.  Li mostra a Repubblica  monsignor Gian Carlo Perego,  direttore generale Fondazione  Mìgrantes: «Nell`ultima ondata  di arrivi del 2014 - ormai giunti  a 170mila - dopo la tragedia  di Lampedusa del 2013 e l`appello  di Francesco, gli istituti religiosi  ( insieme a loro anche parrocchie  e famiglie) sono arrivati  a mettere a disposizione in via  straordinaria oltre 15mila posti». Certo, l`accoglienza non è  dell`ultima ora: «L`impegno della  Chiesa italiana a favore dei richiedenti asilo  e rifugiati-spiega  - si è intensificato negli anni.  L`accoglienza dal 2000 a oggi  ha visto come protagoniste le  23mila parrocchie, gli istituti religiosi,  le cooperative sociali e le  associazioni di volontariato d`ispirazione  cristiana, attraverso  Caritas e Migrantes».
Dice padre Camillo Ripamonti,  presidente del Centro Astalli: «Il numero dei rifugiati accolti  nei conventi e istituti religiosi è  significativo se si pensa che ogni  volta che uno di questi istituti  apre le porte occorre un lavoro  previo prima dell`accoglienza.  Ogni istituto ha il suo carisma  che l`accoglienza non può stravolgère.  Si tratta di trovare il  giusto modo tramite il quale  aprire le proprie porte».
Le suore di via del Casaletto  hanno pensato di riaprire la vecchia  casa agricola che permette  a loro e ai rifugiati di avere un  "campo ín comune" in cui lavorare  e conoscersi. «La mia casa di  gesuiti a Sant`Andrea al Quirinale  - nota  Ripamonti -ha  pensato di accogliere al proprio  interno, come se fosse uno di  noi, un rifugiato col quale facciamo  vita in comune. Oppure ci  sono i religiosi della parrocchia  a Ripa Grande a Trastevere. Qui, negli anni `70, si ospitavano  studiosi di teologia. Oggi si  ospitano rifugiati e bisognosi».
Nel centro di Roma c`è la casa  delle Suore della Carità di Santa  Giovanna Antida Touret. In risposta  all`invito di Francesco le  65 suore hanno messo-ai voti la  possibilità di ristrutturare la foresteria  per accogliere rifugiate.  La decisione di aprire è passata senza voti contrari. Racconta padre Ripamonti: «Aprirsi  richiede coraggio, l`invito del  Papa ha toccato il cuore di molti  soprattutto nella sua città». Ed è  anche grazie a coloro che al posto  di chiudere aprono che la vita  di tanti rifugiati si realizza. Un  esempio è la storia di Adam, rifugiato  sudanese dal Darfur: un giorno dei militari diedero fuoco  al suo villaggio. Adam venne costretto  ad arruolarsi con i ribelli,  suo fratello con l`esercito governativo.
Quando dopo due mesi  Adam si trovò faccia a faccia col  fratello come fossero due nemici,  lanciò aterTa ilfucile e scappò.  Dopo mesi di peripezie arrivò in  Italia dove venne accolto. E dove  ha potuto smettere di scappare.



La crisi e gli immigrati che non rubano il lavoro agli italiani
Per l'agenzia Caracas è messa a rischio dalla vertiginosa caduta dei prezzi petroliferi che erode la principale fonte di valute per l'economia di un Paese con poche riserve e bassa liquidità
il Fatto quotidiano.it, 21-12-2014
Lavoce.info 20 dicembre 2014
Gli immigrati sono una delle componenti più vulnerabili della forza lavoro: la crisi economica li ha colpiti più duramente rispetto agli italiani. Ancora più gravi sono state le conseguenze per gli stranieri irregolari. Sale la percezione di precarietà. I risultati di una ricerca su dati del Naga.
di Carlo Devillanova, Francesco Fasani e Tommaso Frattini, 18 dicembre 2014, lavoce.info
L’occupazione degli immigrati
Un recente rapporto del ministero del Lavoro mostra come nel secondo trimestre del 2014 l’occupazione straniera sia cresciuta più di quella italiana sia per quanto riguarda il tasso di occupazione che il numero di occupati. Se questi dati segnalano la vitalità occupazionale della popolazione straniera in Italia, sarebbe erroneo concludere che i lavoratori immigrati stiano soffrendo meno di quelli italiani in questi anni. Al contrario, gli immigrati rappresentano una delle componenti più vulnerabili della forza lavoro: la crisi economica li ha colpiti più duramente rispetto agli italiani. Ancora più gravi sono state le conseguenze per la popolazione straniera irregolare.
L’inserimento degli immigrati irregolari nel mercato del lavoro sfugge per ovvie ragioni alle rilevazioni statistiche. Tuttavia, abbiamo potuto approfondire il tema analizzando una base di dati unica sugli immigrati irregolari nella provincia di Milano, che ci ha permesso di seguire la loro integrazione nel mercato del lavoro nel corso degli ultimi dieci anni (2004-2013). Si tratta dei dati raccolti quotidianamente dal Naga, una Ong milanese che dal 1986 offre assistenza sanitaria gratuita agli immigrati privi di permesso di soggiorno.
Dalla nostra analisi emerge una situazione occupazionale estremamente critica degli immigrati irregolari nel nostro paese a seguito della crisi. Per corroborare le nostre conclusioni, abbiamo integrato l’analisi sui dati Naga con quelli della rilevazione sulle forze lavoro Istat e con l’indagine sugli immigrati della fondazione Ismu.
Iniziamo dalla rilevazione sulle forze di lavoro Istat (Rfl-Istat), disponibile dal 2005. Per rendere i grafici comparabili – gli immigrati hanno un tasso di partecipazione al mercato del lavoro sostanzialmente più elevato degli italiani – restringiamo l’analisi alla popolazione attiva. La figura 1 riporta la percentuale di occupati per italiani e stranieri regolarmente soggiornanti. La serie Rfl-Istat mostra immediatamente gli effetti negativi della crisi su tutti i lavoratori (italiani e non), ma con ripercussioni particolarmente negative per gli immigrati. La percentuale di occupati fra gli stranieri attivi si riduce di quasi 9 punti percentuali fra il 2008 e il 2013, passando dal 91,5 per cento all’82,7 per cento. Nello stesso periodo, la differenza nel tasso di occupazione fra italiani e stranieri è aumentata da 1,85 a 5,75 punti percentuali. Il peggioramento relativo degli esiti lavorativi degli stranieri regolarmente residenti rispetto ai nativi accomuna la generalità dei paesi industrializzati. Secondo il “2013 – Trends in International Migration” dell’Ocse, fra il 2008 e il 2012 il tasso di disoccupazione degli individui nati in un paese non Ocse è cresciuto di 5 punti percentuali (contro i 3 punti dei nativi).
Ci sono molte ragioni per aspettarsi che gli immigrati irregolari siano ancora più vulnerabili sul mercato del lavoro rispetto ai regolari. La figura 2 – realizzata con dati dell’indagine Ismu sull’intera Lombardia per il periodo 2004-2013 – conferma questa supposizione. Non solo gli immigrati privi di permesso di soggiorno hanno percentuali di occupati inferiori ai regolari in tutti gli anni, ma con l’inizio della crisi, nel 2008, hanno subito un vero e proprio crollo. Se il tasso di occupazione degli immigrati regolari si riduce di circa 10 punti percentuali fra il 2008 e il 2013, passando dall’83 al 72,7 per cento, la percentuale di occupati fra gli irregolari crolla di 27,7 punti percentuali nell’arco dello stesso periodo, raggiungendo il 52,9 per cento nel 2013. In soli cinque anni gli immigrati senza documenti hanno sperimentato una riduzione del tasso di occupazione di circa 17 punti percentuali superiore rispetto a quella degli immigrati regolari.
Infine, grazie ai dati Naga possiamo concentrarci esclusivamente sulla popolazione irregolare. La figura 3 mostra l’evoluzione della percentuale di occupati sugli attivi nel campione Naga durante il periodo 2004-2013, distinguendo tra uomini e donne. Si nota immediatamente che, in tutti gli anni, le donne hanno livelli occupazionali maggiori di quelli degli uomini. Per entrambi i generi, l’occupazione sale fino al 2008 e poi crolla rapidamente con l’inizio della crisi economica. Fra il 2008 e il 2013 la percentuale di occupate nel campione Naga passa dal 67,6 al 37,2 per cento, con una riduzione di oltre 30 punti percentuali; per gli uomini la riduzione è di “solo” 25 punti percentuali, dal 59,9 al 35 per cento.
I dati Naga permettono anche di distinguere fra tre tipologie di occupazione: saltuaria, permanente e venditore ambulante. Trattandosi di lavori in nero, la distinzione tra occupazione permanente e saltuaria è assolutamente soggettiva, ma riflette precisamente la valutazione che l’immigrato fa della precarietà della propria situazione lavorativa. La figura 4 mostra un chiaro peggioramento della stabilità percepita del proprio posto di lavoro da parte degli immigrati irregolari a partire dal 2008. La percentuale di occupazione “permanente”, infatti, passa dal 52 per cento del 2008 a meno del 25 per cento del 2013, mentre quella “saltuaria” sale dal 47 per cento del 2008 a circa il 69 per cento del 2013. Nello stesso anno, la percentuale di ambulanti (6,6 per cento) è più che quintuplicata rispetto al periodo 2004-2009.
Il circolo vizioso
La maggior riduzione della percentuale di occupati fra gli immigrati irregolari ha almeno due possibili spiegazioni. In primo luogo, la mancanza del permesso di soggiorno impedisce ai migranti di svolgere attività lavorative con un regolare contratto di lavoro. Ciò li rende particolarmente esposti alle fluttuazioni del ciclo economico, non potendo vantare alcuna forma di garanzia giuridica del rapporto lavorativo. In secondo luogo, la legge italiana prevede che la concessione e il mantenimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro siano condizionati all’avere un impiego. Durante un periodo di crisi, restare privi del lavoro può portare alla perdita del permesso di soggiorno e il conseguente ritorno in una condizione d’irregolarità.
Al tempo stesso, si riduce la possibilità di regolarizzare la propria presenza attraverso l’accesso (improprio) ai decreti flussi o ai vari programmi di regolarizzazione che si sono susseguiti nel tempo.
Questi dati sembrano quindi smentire la sensazione che gli immigrati “rubino il lavoro” agli italiani, spesso evocata anche assai autorevolmente, come ad esempio in agosto quando lo stesso ministro dell’Interno dichiarò testualmente che non avrebbe firmato alcuna “legge che possa far correre il rischio a un ragazzo italiano di veder rubato il posto di lavoro da un immigrato”.
Al contrario, l’evidenza suggerisce che in caso di condizioni economiche avverse sono proprio gli stranieri i primi a perdere il lavoro e che gli immigrati irregolari, per loro natura confinati nel mercato del lavoro nero, soffrono le conseguenze della crisi ancora più duramente.



Torino, Salvini all'ex villaggio olimpico occupato da rifugiati. E' polemica
Occupate nel 2013 da circa 600 rifugiati, le palazzine dell'ex Moi sono state visitate ieri dal leader leghista. Ad attenderlo, oltre a una sessantina di manifestanti, circa 150 tra rifugiati e attivisti dei centri sociali, che hanno organizzato un contro presidio
Redattore sociale, 21-12-2014
TORINO - La tensione non sembra destinata ad allentarsi per i rifugiati dell’ex Moi, il villaggio olimpico costruito a Torino per i giochi invernali del 2006 e occupato nel 2013 da 600 profughi arrivati con l’emergenza Nord Africa. Dopo le ispezioni comunali e i recenti presidi guidati dal gruppo consiliare di Fratelli d’Italia, il testimone della protesta ieri è passato nelle mani del leader della Lega Nord. La “visita” all’ex villaggio olimpico Matteo Salvini l’aveva annunciata da giorni: ad attenderlo, ieri mattina, oltre allo stato maggiore della Lega piemontese e a una sessantina tra giornalisti e manifestanti, c’era un imponente schieramento di forze dell’ordine, con il compito di tenere separato il presidio leghista da quello che, poche centinaia di metri più in là, aveva radunato circa centocinquanta tra profughi e attivisti dell’antagonismo cittadino. “Ho deciso di venire qui - ha dichiarato Salvini - in seguito alle numerose richieste arrivate dai residenti del quartiere. Noi non ce l’abbiamo con gli immigrati, ma con l’immigrazione clandestina e incontrollata alla 'Mare nostrum’, che crea solo disagio ai cittadini”. In realtà, più che gli abitanti del quartiere, a sostenere Salvini si è presentato lo zoccolo duro del partito, quello delle teste canute che gridavano di non voler “morire musulmani” mentre applaudivano il nuovo leader del carroccio. Il quale, dal canto suo, ha cercato di abbassare i toni, precisando che “come sempre, non si tratta di una questione di religione, ma di un problema culturale: qui ci sono centinaia di persone che abusivamente occupano delle proprietà pubbliche”.
A occupare le palazzine, nel marzo del 2013, furono soprattutto i rifugiati arrivati con l’emergenza libica e le precedenti ondate migratorie dal Nord Africa. Terminati i progetti d’accoglienza nei quali erano stati inseriti, da un giorno all’altro i profughi si erano trovati allo sbando: dopo qualche mese trascorso tra panchine, dormitori e sistemazioni provvisorie, con l’aiuto di un gruppo di attivisti dei centri sociali sono entrati nella struttura. “Io - racconta Souleymane, nigerino arrivato in Italia durante il crollo del regime libico - stavo in un campo d’accoglienza della croce rossa, a Settimo Torinese. Un bel giorno sono arrivati e mi hanno detto che il progetto era finito, e dovevamo lasciare. Per un po’ sono stato in strada, poi finalmente siamo arrivati qui. Ma ora ho paura, perché da un mese continuano a dire che siamo pericolosi. Ormai sono quattro anni che vivo nella paura. In Libia facevo il meccanico: finché un giorno, mentre tornavo a casa, i militari mi hanno preso e portato in un accampamento, a lavorare come facchino. Due settimane dopo ci hanno preso tutti i soldi, ci hanno caricato in un furgone e condotti al porto di Tripoli, dove siamo stati praticamente costretti a imbarcarci. Venire qui non è stata neanche una mia scelta; io non vedo la mia famiglia da undici anni, ormai”.
La polemica contro i rifugiati dell’ex villaggio olimpico ha iniziato a prendere corpo un mese fa, quando, su proposta dei gruppi consiliari di Lega Nord e Fratelli d’Italia, la giunta comunale ha autorizzato un sopralluogo nella struttura. Subito dopo, però, qualcuno in comune dev’essersi accorto che la tempistica non era delle migliori, dal momento che a Roma la guerriglia contro i rifugiati di Tor Sapienza stentava ancora a fermarsi: e così, all’ultimo momento, l’iniziativa è stata revocata. Ma il capogruppo FdI, Maurizio Marrone, non ha voluto starci; e davanti all’ex Moi ha portato comunque una delegazione di militanti leghisti e dell’estrema destra. Anche in quell’occasione,ad attenderli assieme ai rifugiati c’erano gli attivisti dei centri sociali: tra i due schieramenti sono volati insulti e spintoni, ma presto la tensione è andata scemando.
Da allora, però, gli esponenti locali di Lega e Fratelli d’Italia sono andati rimpallandosi iniziative per denunciare il degrado che i profughi avrebbero portato nel quartiere: la mattina del 24 novembre, dal suo profilo Facebook, il capogruppo del Carroccio torinese, Fabrizio Ricca, ha denunciato che all’interno dell’ex Moi “si spaccia, e ne abbiamo le prove”. La prova sarebbe contenuta in un video che Ricca afferma di aver girato di fronte alle palazzine: volti e località sono oggettivamente irriconoscibili; tutto ciò che si può distinguere è la voce del consigliere mentre si accorda per comprare qualche grammo di marijuana da alcune persone con accento presumibilmente africano. Sull’onda delle accuse di Ricca, lo scorso sabato anche Maurizio Marrone ha voluto indire un nuovo corteo contro l’occupazione: secondo il capogruppo di centrodestra, il motivo per cui anche quella manifestazione è andata deserta sarebbe da imputare “alle numerose intimidazioni fatte girare nel quartiere da profughi e attivisti dei centri sociali”.
Non la pensa così il presidente di circoscrizione Giorgio Rizzuto (Pd); che ieri, se possibile, era perfino più critico di quanto lo fosse verso la prima iniziativa indetta a novembre da Marrone: “la nostra pazienza si sta esaurendo, - sbotta - e credo di parlare anche a nome dei residenti. Salvini dice di esser venuto qui per loro, ma la verità è che gli unici disagi ieri li ha creati lui: ho ricevuto decine di telefonate da parte di commercianti che, a causa dei cordoni di polizia portati da questa ennesima passerella elettorale, sono rimasti praticamente fermi nell’ultimo sabato prima di Natale. Questa continua strumentalizzazione non può più essere tollerata: se dei problemi all’ex Moi ci sono stati, fino a prova contraria non riguardavano criminalità e spaccio. Alcuni dei residenti si sono lamentati dei rifiuti e delle condizioni igieniche delle palazzine. Ma ad oggi, i rapporti tra le parti sono sempre stati  tutti nel segno del reciproco rispetto e della solidarietà”. (ams)



È nato Emmanuel, il primo tra le tende di Rosarno
Avvenire, 20-12-2014
Antonia Maria Mira
Un piccolo raggio di sole, un piccolo segno di speranza dai "ghetti" degli immigrati di Rosarno. Un vero regalo di Natale. Nella tendopoli di San Ferdinando che ospita circa ottocento migranti, è nato Emmanuel, figlio di Joy, nigeriana, e Benjamin, ghanese. Entrambi cattolici.
È il primo neonato tra tende e baracche dei paesi della Piana di Gioia Tauro. E non sarà l’ultimo. Nei prossimi giorni, entro Natale, arriverà la figlia di Rachele anche lei del Ghana. Ha la voce che sorride don Roberto Meduri, il giovane parroco di S. Antonio nella contrada "Bosco" di Rosarno, mentre ci annuncia il "lieto evento".
In sottofondo si sente la voce del piccolo Emmanuel, e don Roberto racconta la gravidanza nella grande baracca in teli di plastica e corda, e poi «la corsa in macchina fino all’ospedale di Polistena», mentre il papà era al lavoro nei campi, «uno dei pochi giorni in cui riesce a lavorare». C’è tanto amore attorno alla mamma e al suo bambino, c’è tanto impegno. I volontari stanno procurando pannolini e latte artificiale. E per ospitare le due mamme e i loro bambini si è riusciti a trovare una casetta.
L’affitto lo pagherà Nino De Masi, imprenditore coraggioso e generoso, sotto scorta dopo gravissime minacce da parte della ’ndrangheta. «Farò tutto quello che è necessario», spiega. È la squadra della Provvidenza, l’unica in questo territorio a sostenere la vita dei migranti. Una comunità che si stringe attorno al fratelli africani. Così la notte di Natale saranno proprio Joy, Benjamin e Emmanuel a rappresentare la Sacra Famiglia. E nei prossimi mesi è annunciato il matrimonio religioso della coppia, già spostata civilmente in Africa.



“Me and You” un libro racconta l’infanzia negata in Siria e negli Stati Uniti
Corriere.it, 20-12-2014
Michela Magni
Me and You. Questo è il titolo che l’artista siriana Soulaf Abas ha voluto attribuire al libro che documenta la corrispondenza tra alcuni bambini americani dello stato dell’Indiana e quelli siriani rifugiati ora ad Amman, in Giordania. Il volume, ora disponibile online, fa parte dell’iniziativa umanitaria “Seen for Syria” avviata dall’artista stessa con l’obiettivo di educare attraverso l’arte gruppi di bambini la cui infanzia viene continuamente compromessa dagli errori degli adulti. Si tratta per lo più di minori a cui è stato negato il diritto a un’infanzia serena e all’educazione proprio da coloro i quali invece dovrebbero proteggerli: famiglia e Stato. Da una parte ci sono quelli americani i cui genitori si sono dati alla criminalità, spesso sopraffatti dalle loro dipendenze, dimenticando cosa significhi essere madri e padri. Dall’altra, quelli siriani costretti a lasciare casa e paese insieme alle loro famiglie a causa di una guerra incontrollabile.
Sono bambini a cui viene richiesto continuamente di essere piccoli adulti, quando invece sono solo “i piccoli dell’uomo”. Molti di loro non sono nemmeno adolescenti eppure lavorano, si occupano dei fratelli più piccoli, svolgono mansioni che spetterebbero ai loro genitori e, in tutto questo, vengono privati delle gioie del gioco, dell’istruzione e dell’amore fraterno e famigliare. L’importanza di tale progetto non risiede solo nel suo intento educativo ma anche nella sua natura puramente umanitaria, dal momento che Soulaf non ne ricava alcun beneficio economico. Al contrario, l’intero ammontare del ricavato delle vendite andrà ai bambini siriani per contribuire al sostentamento delle loro famiglie.
    Una simile iniziativa appare più importante che mai in un momento come questo in cui il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) ha appena comunicato di non essere più in grado di procedere con gli aiuti sotto forma di buoni alimentari nella regione a causa di una carenza di fondi.
Le conseguenze si prospettano devastanti, soprattutto tenendo conto della stagione invernale alle porte. Il Jordan Times ha già registrato le prime ripercussioni di tale sospensione. Non avendo denaro per il cibo, i genitori si ritrovano in difficoltà anche a mandare i figli a scuola, non potendo permettersi nemmeno piccole spese come il biglietto dell’autobus. Le famiglie sono spesso numerose, le bocche da sfamare sono tante e poiché ai genitori non è permesso lavorare in Giordania, data la condizione di rifugiati, le prossime settimane si prospettano sempre più critiche.
In un’epoca in cui la comunità internazionale si dimostra incapace di gestire le continue crisi che affliggono il pianeta, sono le iniziative di piccoli gruppi di privati, come quella di Soulaf, a fare la differenza. La ricchezza del suo progetto è data inoltre dalla collaborazione con un piccolo circolo culturale indipendente con base proprio ad Amman. Si tratta di Jadal: Knowledge and Culture, un’iniziativa coordinata da Fadi Amireh e portata avanti da giovani provenienti da ogni parte del mondo. Degno di nota è il progetto per le famiglie siriane avviato nell’estate 2012 da un piccolo gruppo di volontari. «Una delle prime sfide è stata convincere i genitori a mandare i figli a scuola», mi ha confidato Kristina Kaghdo, una ragazza siro-lituana che lavora attualmente a Jadal. Nonostante associazioni come Save the Children avessero tentato più volte di fare qualcosa a riguardo, le madri continuavano a rifiutarsi di lasciare andare i figli a lezione, spaventate da una città che non conoscevano. «Conquistare la loro fiducia ha fatto la differenza», ha aggiunto Kristina. Rassicurate dalla presenza di ragazzi siriani tra lo staff di Jadal, le madri hanno iniziato a mandare quotidianamente i figli al centro, dove venivano offerte sessioni di tutoraggio, tuttora attive. Promettendo di garantire tale servizio in maniera regolare, i ragazzi di Jadal sono riusciti a convincere le famiglie ad iscrivere i figli a scuola, offrendo costantemente aiuto e appoggio.
Oltre alle attività dedicate ai bambini, sono state sviluppate iniziative indirizzate alle donne. Il tutto è iniziato con quello che in dialetto siriano viene chiamato “?uba?yat”, ovvero una sorta di cafè durante il quale le donne hanno avuto l’occasione di conoscersi e chiacchierare in libertà. Una volta presa confidenza, alcune delle donne hanno potuto iniziare a contribuire alle entrate famigliari vendendo piatti tipici da loro cucinati, con l’assistenza di Jadal. Nonostante le frustrazioni che progetti di questo calibro procurano per via delle difficoltà economiche e di alcune problematiche intrinseche nella cultura araba stessa, Jadal continua a dimostrarsi un generatore instancabile di idee. Passando dal circolo, formato da ragazzi di qualsiasi nazionalità, è quasi impossibile non desiderare di farne parte e poter così contribuire in qualche modo alla loro causa.
Uno dei punti di forza di Jadal risiede proprio nell’eterogeneità culturale del suo staff, composto in buona parte da volontari, che rende il circolo un luogo di confronto, cultura e conoscenza. Sia l’esperienza di Jadal, sia il progetto di Soulaf rappresentano dunque un grande successo, pur non essendo ancora giunte a termine. Sulla convinzione che i bambini non solo siano il futuro, ma anche alimentatori di speranza, lì dove la politica genera solo caos.



Baryali, l'alchimista dell'accoglienza da rifugiato afghano a mediatore per mestiere.
Premio UNAR-SPRAR. Questo è l'articolosecondo classificato del concorso, in collaborazione con Repubblica. it, indetto dalla Presidenza del Consiglio tra i giornali locali che hanno trattato temi legati all'accoglienza e all'integrazione di richiedenti asilo e immigrati. La storia di un ragazzo afgano, intraprendente e poliglotta. "Sono un ponte tra due culture, la mia missione è aprire le porte del nuovo paese". L'articolo è stato pubblicato da Mp news
la Repubblica, 19-12-2014
FLORE MURARD-YOVANOVITCH
ROMA - Tutti lo conoscono, tutti lo cercano; i centri di accoglienza per migranti della capitale se lo contendono  per averlo nel loro staff di operatori. I ragazzi profughi, che lui accompagna nel percorso nel centro, Saleem, Ali, Abdel e Jean-Claude, gli chiedono costantemente consiglio, su come vestirsi, su come "si dice questa parola in italiano", "quando si avranno i documenti".... Un fratello maggiore, uno che con loro condivide lo stesso viaggio e gli stessi pericoli  ma è approdato dall'altra parte, saldo nella comunità italiana dove ormai ha un mestiere. Dopo 5 anni a Roma, Baryali, rifugiato afghano ventenne, è diventato mediatore culturale del Comune e aiuta altri giovani migranti a passare il difficile gap dell'integrazione; dalla barca al centro, dalla casa famiglia, alla vita nuova, fuori. Una missione impegnativa 24 ore su 24, spesso durante la notte quando è richiesto dagli adolescenti turbolenti che ha in carico nella struttura della Tiburtina.
Il viaggio ce l'ha stampato sulla pelle. Dimostra più rughe della sua età. Una storia che inizia a Kabul lunga 5000 kilometri, per raggiungere l'Europa a piedi o aggrappato sotto i tir, tra trafficanti di esseri umani, dai monti gelati dell'Iran, fino alla Turchia: l'odissea di tanti giovani afghani. Gli stessi stenti che li rendono vicini e complici: la fame e le guardie di frontiere che ti sparano a vista, le percosse e la detenzione illegale in Grecia solo perché non in possesso di documenti. Lì conosce la depressione. Poi, finalmente, il tratto di mare tra Thessalonica e l'Italia, nascosto sotto un camion, trattenendo il respiro, per approdare nel porto di Bari. Un treno: destinazione Stazione Ostiense. Tra i binari del Terminale in disuso, scopre con sgomento altri coetanei che di notte cercano un rifugio fra i treni e i cartoni: la "tenda" afgana accampata del cuore della capitale. L'asfalto per letto, la sopravivenza pura, la fila, il cibo raro distribuito da volontari.
Il rifiuto dell'assistenza, vuole farcela da sé. Ma Baryali non ama mettersi in fila e chiedere l'elemosina, dipendere dall'assistenza fornita da onlus e Chiesa, vuole fare da sé, farcela. Impara in fretta l'italiano per uscire dalla strada, e intraprende il percorso offerto dal Comune; centro di accoglienza, casa Famiglia, borsa di lavoro, e infine il primo lavoro sognato: cameriere, commesso ad "Acqua e Sapone", mediatore. Oggi, richiestissimo da tutte le istituzioni incaricate dall'accoglienza, conta tra suoi datori di lavoro la Caritas, la Croce Rossa, il Cies, il centro Astalli e vari organismi internazionali. Ma lui vuole restare in Italia tra i giovani profughi e accompagnarli tra tranelli e ostacoli del percorso. Aprire loro le porte del nuovo paese che lui si è guadagnato con la tenacia, la conoscenza dell'inglese e il suo vero segreto: le amicizie.
Fare squadra. Baryali, a casa nella Kabul di Karzai, gestiva l'intero staff dell'azienda familiare di telefonini, un commercio in pieno boom nell'Afghanistan del dopoguerra. Viaggi di affari e bilanci da capogiri, apre succursali da Herat a Feyzabad, fornisce  anche gli eserciti stranieri, dove frequenta americani e canadesi, e intanto perfeziona il suo inglese. All'Università, quando si iscrive al master di "Business and Administration" è già un manager di successo. E poi il dramma di un amico vicino che salta all'angolo di una strada su una mina, il rifiuto della guerra, e soprattutto dei ruoli irrigiditi da una soffocante gerarchia sociale, dove uno è sempre sopra o sotto l'altro, sogna l'uguaglianza. La strada: l'Italia. Anche a piedi.
Parla sette lingue. Baryali è nato poliglotta. Parla sette lingue: pashtun, farsi, persiano, arabo, curdo, indiano, inglese, e ormai scrive e parla un italiano fluente. La mediazione ce l'ha nel sangue, da piccolo a casa, interprete di tutte le occasioni, persino sul sentiero di notte tra fugasci e trafficanti per arginare i conflitti, sulla barca e infine nel C. A. R. A di Roma. Quello di Castelnuovo di Porto, in mezzo ad altri mille migranti, per risolvere liti e rivolte. Oggi al centro di Saleem per minori non accompagnati, gestisce i più incazzosi dei ragazzi quelli che provengono direttamente dalla strada, pronti al gesto facile e a spaccare tutto pur di sfogare la rabbia. I ragazzi sono soli, senza parenti né affetti, spesso isolati dai muri della lingua e la sofferenza è spesso tanta, la depressione anche.
L'arma della diplomazia. Insieme alla conoscenza delle lingue, la chiave dell'integrazione secondo Baryali, è la diplomazia. "Perché gli italiani con i media e l'attualità ormai hanno paura di noi, ci identificano tutti coi jihadisti di Al Qaida, figuriamoci oggi con l'Isis, dobbiamo esserne consapevoli e muoverci in modo ancora più civile. Io pago più tasse di un italiano, quasi la metà del mio stipendio". Ma non è ingiusto? "No, è il prezzo da pagare, siamo ospiti qua. Le regole sono diverse". "Però, continua, quando i giornalisti fanno reportage e parlano dei nostri paesi di provenienza non dovrebbero solo sempre mostrare bambini scheletrici e terroristi, ma i nostri splendidi palazzi, la nostra arte, l'ospitalità e le bellezze della civiltà millenaria che ci portiamo dentro. Potrebbe arricchire anche voi italiani. Se avessimo invece di centri di accoglienza con soli posti letto, veri centri per lo scambio tra culture, accoglienti, aperti ai giovani italiani, dove loro potessero entrare e bere un tè insieme a noi, allora, certo che cosi si farebbero passi avanti verso l'integrazione".
Decisivo è costruire una rete di affetti. Lui che si è aggrappato ai tir, ha rischiato la morte per fame o in mare ai futuri candidati, ai quali consiglierebbe di valutare bene se quel viaggio pericolosissimo è la strada giusta da intraprendere, se vale la pena lasciare il nido familiare per rischiare la propria vita nel Mediterraneo, o ammalarsi di depressione e finire per strada in Europa. La ricetta di una migrazione riuscita secondo lui, oltre alla lingua, è di aver un progetto chiaro in testa, la curiosità e saper cogliere la palla al volo, come in un gioco di cricket, di cui lui è appassionato. "Se li vedo accosciati sui sofà o sempre tra di loro, li mando fuori a conoscere la città, frequentare i musei, le biblioteche, e soprattutto farsi amici nuovi fuori dalla propria comunità di origine, perché loro possono cambiarti la vita". Bary, ormai ha la sua propria rete di affetti, stranieri e italiani, artisti, giornalisti, staff e capi delle Nazioni Unite, una nuova comitiva cosmopolita costruita nel paese d'accoglienza. Dopo aver conseguito il diploma delle Scuole Superiore, si iscriverà all'Università, a Relazioni Internazionali. Intanto è socio dell'associazione Cucimondo per lo sviluppo della cucina multietnica in Italia, per dare un altro sapore all'integrazione.
"Ho scelto di vivere per gli altri". "Per i ragazzi, ci sono sempre, il mio cellulare è sempre acceso di notte se dovessero avere bisogno di qualcosa. Bisogna dargli tutto l'affetto di cui hanno bisogno e che si meritano. Ma non devi mai dare troppa confidenza, perché il rischio, se diventa amicizia è di non essere più in grado di svolgere il compito educativo: saper essere frustrante, rimproverarli quando serve. Perché sei come un modello, ma puoi anche essere un virus". La mediazione è una difficile alchimia, l'equilibrio giusto è fargli capire che loro sono ospiti e lui operatore dello Stato italiano che li accoglie. La sua giornata intanto ha le ore lunghe: corso d'italiano, sostegno psicologico informale, Questura, Prefettura per i permessi di soggiorno, pronto soccorso, sedare ribellioni, insegnare i trucchi culturali e, come se non bastasse, a volte rischiare il proprio posto di lavoro per difendere i diritti degli altri colleghi operatori italiani. Ma ormai Baryali è un specialista riconosciuto della mediazione culturale, che insegna ad altri apprendisti di tutte le nazionalità.
"Il progetto siamo noi". "Dipende da noi stessi se ci integriamo o meno, il progetto siamo noi. La chiave è non tenersi dentro la propria cultura come una pietra, ma aprirsi ad una nuova, essere molto curioso, conoscere nuove persone, e soprattutto non danneggiare gli altri. Come recita un proverbio del mio paese, viviamo in "una foresta, dove convivono alberi secchi e alberi giovani, se bruci i rami secchi, il fuoco divampa e brucia anche i vivi", quindi ai ragazzi dico non avete il diritto di comportarvi in modo sbagliato e mettere a repentaglio il percorso degli altri, gli italiani rischiano di fare dell'erba tutto un fascio e di vederci tutti come delinquenti. Qui siamo tutti stranieri, capisci, se uno commette un reato, commette un reato nei confronti di tutti gli altri, che poi rischiano, a catena, altre discriminazioni. Vitale è sentire che siamo i rami dello stesso albero".
Il razzismo, lo conosce bene. Ha gestito vari assalti contro e dentro il centro nel quartiere di Tor Sapienza, finita sulla cronaca recente e già preso di mira nel passato. Ha imparato a resistere alle provocazioni, a usare il sorriso quando scatta il conflitto, la nonviolenza ghandiana. Anche quando ti buttano bombe carte, quando si è manganellati e i ragazzi rompono tutto. Non a caso al centro lo soprannominano "Akhenaton", dal nome del faraone egiziano, per la lunga barba che portava fino a poche settimane fa, l'aspetto impassibile e la diffusione di nuove regole. Intanto l'intolleranza secondo lui cresce, perché alcuni, i più vulnerabili sbagliano, spesso vengono usati come piccola manovalanza da capi banda italiani, per spacciare al posto loro e poi la colpa ricade sugli stranieri." Io insegno ai ragazzi ad esser svegli, a non cadere nei tranelli. In primis, a frequentare italiani buoni. Quando usciranno dalle strutture i miei ragazzi devono vendere fiori, non droga".
La sua più grande delusione. E' stato trovarsi naso a naso, accucciati tra i binari dell'Ostiense, con gli stessi ragazzi afghani che aveva conosciuto la sera del suo arrivo, cinque anni fa. Non erano mai usciti dalla strada, uno strazio. La sua più bella vittoria? Reincontrare i ragazzi eritrei, egiziani, e albanesi allora ospiti del centro Civico Zero dove lavoravo, tutti diventati interpreti retribuiti dal centro, alcuni persino mediatori. Per alcuni non avrei mai giurato". "Sono come un ponte tra due culture. La mia missione è traghettare un giovane migrante da una cultura ad una altra, come si farebbe da una riva all'altra di un fiume. Quelli larghi, dei monti della mia infanzia.

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