Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

25 giugno 2013

Immigrazione: 55 giunti nel Siracusano
E' il 24/mo sbarco nell'area dall'inizio dell'anno
(ANSA) - SIRACUSA, 25 GIU - Nuovo sbarco di migranti all'alba sulle coste del Siracusano, il 24/mo dall'inizio dell'anno.
Questa volta a bordo di una barca a vela che porta la scritta ''Hermes'' sono arrivati a Isola delle Correnti, di fronte alla costa di Portopalo di Capo Passero, 55 tra afghani e somali. Il gruppo sarebbe partito dalle coste della Turchia una decina di giorni fa, pagando circa 3 mila dollari ciascuno. Tra i 55 migranti anche alcune donne e dei bambini.



Ora la Kyenge vuole abolire i campi rom
Il ministro a Torino: "Serve percorso di integrazione che accompagni verso l'uscita dai campi"
il Giornale, 25-06-2013
Franco Grilli
Non solo lo ius soli. Per Cécile Kyenge l'integrazione passa anche nell'abolizione dei campi nomadi.
Ieri, infatti, ha incontrato i rappresentanti delle comunità rom e sinti di Torino, il sindaco Piero Fassino e i suoi assessori per affrontare quella che è una vera e propria emergenza nel capoluogo piemontese, che conta oltre 4mila presenze in 13 campi (di cui 9 abusivi).
"Nei prossimi giorni avvieremo un percorso che faremo insieme alle istituzioni e alle comunità. L’obiettivo è l’integrazione e l’accompagnamento verso l’uscita dai campi", ha promesso il ministro ricordando che "Non bisogna criminalizzare un’etnia, ma occorre giudicare la singola persona e il crimine. Dipende da che opportunità si danno alle persone perché integrazione vuol dire dare opportunità".
Una battaglia quella contro i campi rom che ha come obiettivo anche quello di "combattere il degrado", come la stessa Kyenge ha ribadito durante un incontro della Cgil a Serravalle Pistoiese: "Quando sento parlare di Saluzzo o di Rosarno, quando sento parlare di questi luoghi dove vivono i deboli, dove vivono le persone ricattabili, so che alla base c’è proprio il degrado, che dobbiamo imparare a combattere, la debolezza delle persone legate alla loro condizione, non solo economica, ma anche burocratica", ha aggiunto, "Le persone diventano deboli e ricattabili quando la loro identità non è ben protetta. Noi dobbiamo dare loro l’identità. È il lavoro che sto portando avanti, spero con il sostegno del territorio, dei sindacati, ma anche della Caritas Migrantes, che è un elemento molto utile, perchè mi permette di leggere bene, interpretare le statistiche e fare un’analisi approfondita, per dare delle risposte che non debbono essere superficiali".



Immigrazione: sono quasi in Africa
il Fatto quotidiano, 24-06-2013
Veronica Tomassini
Sono quasi in Africa, ma sono ancora in Sicilia, nella sua punta più estrema. Sono a Noto, oltre la costa che si allunga a est.
Questo è il mare delle carrette, di Kazim, il siriano con gli occhi più verdi che avessi mai visto, lo scafista che espiava in un malandato Cpt; o del redivivo Celestine, lo scrittore profugo, perseguitato, che girava con un libro di Baricco nella sacca. O di quella Jasmine che aveva lanciato nel canale il suo bambino morto, il bambino vascello, con quale preghiera, con quale giaculatoria non saprei dire; o di Innocent appassionato di linguistica, che a Siracusa era finito nelle retrovie di un centro di accoglienza: pestato da balordi, insultato sui tram, lavorava in un prestigioso tabloid della Nigeria.
Mi vengono in mente un mucchio di storie, quella di Cecil William, di Ken Saro Wiwa, del premio Nobel Wole Soyinka. Ci sono caduti in braccio questi uomini, cioè la loro spaventosa umanità, una parabola evangelica dentro cui siamo caduti tutti, per la verità, e non ce ne accorgiamo.
La Sicilia ha qualcosa di ferale nella sua bellezza caustica a volte o insolente. Ma lo penso adesso più che mai, guardando il mare delle mie vacanze che continua a erigere lapidi, anzi a seppellirle. E’il mare delle carrette, nient’altro. Della strage del Natale del 1996, degli uomini ingabbiati come tonni, in certi abissi così esigenti, come la pietà di quel padre che raccoglieva i profughi, uno per uno, ricordando, uno per uno, la loro umanità.
La pietà ha sempre fame, questo non me lo ha detto nessuno, vorrei sentire un giorno il padre che la racconti, che esorti dal pulpito l’omelia della rivoluzione dunque dell’amore: non ci importa dei buoni maestri, il mondo non li teme, abbiamo bisogno di misericordia. Vorrei un padre che urlasse, proprio così, che urlasse dall’altare: il mondo non teme che la Misericordia. Similmente a Jaromil il poeta ne La vita è altrove di Kundera, gli uomini delle carrette, gli uomini ingabbiati come tonni erano colmi “di quel paesaggio, del dolore dei sopravvissuti” e si sentivano riempiti “da tutto questo come da un albero che fosse cresciuto(…)” dentro di loro.



Immigrati & turisti, il modello Lampedusa
Avvenire, 25-06-2013
Claudio Monici
Dalla terrazza dell’albergo, il turista italiano affacciato sul porto di Lampedusa scatta foto con il suo smart-phone. Click al peschereccio che scarica il pescato della notte. Click alle barche che sembrano volare su un mare trasparente. Click agli amici.
Il turista non si accorge di quello che sta accadendo sul versante opposto dello scalo marittimo, dove attraccano le motovedette della Guardia costiera, anche loro intente a scaricare il «raccolto» notturno: un gruppo di migranti recuperati in mare. Quando il turista viene a sapere che «si è perso un arrivo», dice: «Di emigrati ne vedo di più al semaforo, quando vado in ufficio».
Infradito e ombrellone in spalla, l’assalto vero, per ora, è quello che c’è all’Isola dei conigli. Se gli occhi dei turisti sono ammaliati da questo mare, lo sguardo, teso e nervoso, di molti isolani scruta le onde nel timore di una forte ripresa degli arrivi di migranti e con loro il caos di un paio d’anni fa.
«Conviviamo con questo fenomeno da tantissimo tempo. Quest’anno cercare di capire quanto può influire l’immigrazione rispetto alla crisi economica in Italia è difficile dirlo. La Federalberghi nazionale sta parlando già del 30 per cento in meno su livello nazionale. L’anno scorso a Lampedusa c’è stato un incremento. Quest’anno siamo pieni, giugno e luglio, agosto e settembre si vedrà. Ma non dimentichiamo che nel 2011, nel momento della Primavera araba, abbiamo subito un collasso del 65 per cento in meno di turisti. Ricordate, quando ci fu quello splendido episodio dell’invasione di Lampedusa da parte di migliaia di tunisini?» Non lo dice con sarcasmo, anzi ne sottolinea l’efficacia anche con il tono della voce «splendido», ripete Ezio Bellocchi vicepresidente Federalberghi di Lampedusa: 80 per cento della popolazione impegnata nel settore del turismo, 5mila posti letto negli alberghi, che salgono a 10mila con le case dei pescatori, i B&b e i piccoli residence. Un’offerta di un certo livello.
«Dicevano che erano 6mila i tunisini, erano molto di più. Ce li hanno lasciati qua venti giorni. Pioveva, faceva freddo e avevano fame. Noi siamo 5mila abitanti. La loro fu una occupazione, e poteva accadere di tutto. Invece. Il Centro di accoglienza e l’aeronautica garantivano 1.300 pasti caldi al giorno, tutto il resto lo ha fatto la popolazione. Ancora una volta la comunità testimoniava il suo cuore incredibile». L’albergatore di dammusi Bellocchi, e altri imprenditori dell’isola, non si sono persi d’animo, alle promesse di referenti istituzionali approdate nel nulla, hanno reagito con il loro slancio: fiere e mercato internazionale, anche quello russo.
«Offriamo la visione che è quella più giusta: un’isola che convive con l’emigrazione, e con un modello che funziona. Un «modello Lampedusa» che deve funzionare bene nel rispetto delle persone migranti e del loro passaggio sull’isola che, però, dopo 24 o 48 ore deve diventare un trasferimento, e spazio per altri naufraghi. Noi urliamo legalità: l’isola è un punto di primo soccorso che può funzionare bene solo con volontà e competenza. Non si può pensare di procedere sempre in termini di emergenza, quando tutti sanno che queste persone stanno arrivando. Invece ci ritroviamo nel caos del collasso e la stampa fa il resto. Non sono Ufo che appaiono d’improvviso. E poi basta con la parola «sbarchi», sono dei recuperi d’emergenza in mare a 180 miglia da qui: è come dire che andiamo a prenderli a Firenze per portarli a Roma».
Il vicepresidente Federalberghi si pone una domanda: «Crediamo veramente che il «filtro della morte», questo canale, sia il deterrente che non li farà arrivare più o ne farà arrivare di meno? Nessuno ci crede: farne arrivare di meno, vuol dire farne morire di più. Allora, perché non andiamo a prenderli? Facciamo gli struzzi che nascondono la testa?. Questo fenomeno non lo fermeremo mai».
«Solo gli arrivi via mare in Italia, non vorrei sbagliarmi, si aggirano attorno al 12-13 per cento di cui l’8 per cento a Lampedusa. L’altro 80 per cento perché non è un problema? Perché si continua a sottolineare Lampedusa: un accanimento sulla porta d’Europa da cui entrano le orde? Ma grazie a Dio siamo diventati un simbolo meraviglioso – conclude Ezio Bellocchi –. Tanto che tutto il mondo ha visto quello che siamo capaci di fare verso i nostri ospiti. Il mare non porta morte o nemici, non porta sventura, ma ricchezza con cui confrontarsi. Fortezze da noi non se ne sono mai costruite. Siamo preoccupati, è vero. Quando ci arriva la telefonata di una disdetta, ci tremano le gambe. Ma poi pensiamo alla nostra arma migliore: Lampedusa, i nostri ospiti e il loro passaparola».



I rifugiati, il calcio e una squadra di “liberi nuotatori”
Corriere della sera, 25-06-2013
Luigi Riccio
Sono risultati secondi all’ultimo campionato di terza categoria della Capitale, ma i loro punti – 61 - erano solo virtuali. Liberi Nantes -squadra calcistica affiliata alla Uisp con sede nel quartiere di Pietralata- è una realtà più unica che rara: tra le sue fila vede solo rifugiati e richiedenti asilo. Nasce nel 2007 come costola dell’omonima associazione, con il dichiarato obiettivo di favorire l’integrazione attraverso lo sport. Ora, a qualche anno dalla nascita, partecipa pure al campionato: ma la sua presenza, va precisato, è di natura esclusivamente simbolica. Per accedervi a pieno titolo, i suoi calciatori dovrebbero provare, tramite apposito certificato, di non essere tesserati nel Paese di origine. Documentazione, questa, impossibile per un rifugiato: c’è chi non può, chi non vuole tornare a casa.
Uno di questi è Ahmed (nome di fantasia), ventiquattrenne afghano e centrocampista di Liberi Nantes: da quando è arrivato via mare in Italia nel 2006, passando per la Grecia, non ha mai più fatto ritorno in Afghanistan.
    «Preferisco aspettare un altro po’», ci dice, poco prima di fare ingresso in una scuola, dove insegna calcio a bambini e ragazzi di origine italiana e straniera.
Per il significato del nome della squadra (nantes, in latino, significa “nuotatori”), bisogna partire dall’Eneide – rari nantes in gurgite vasto, recita Virgilio -, passare dalla genesi della Federazione Italiana di Nuoto – il cui primo nome era, appunto, rari nantes - per poi finire alla Roma ottocentesca, sui cui canali una semisconosciuta squadra di nuotatori si era chiamata Liberi Nantes. I giocatori, che provengono da svariati Paesi – Eritrea, Guinea, Iraq, Nigeria, Sudan, Togo, eccetera – non sono propriamente amanti del nuoto, ma serbano, per le loro vicissitudini migratorie, uno stretto legame con quel mare-porta che li ha condotti in Italia. Al di là delle disquisizioni storico-etimologiche, però, Liberi Nantes significa anche altro.
    «La nostra è una squadra che racconta diverse storie, diverse culture e diverse lingue – continua Ahmed – Lo sport fa bene alla salute, ma attraverso di esso è anche possibile lanciare un messaggio contro il razzismo e a favore di una convivenza pacifica. Ci vorrebbero altre esperienze come la nostra, in giro per il Paese. Qui ci sentiamo a casa: giocando a calcio abbiamo l’opportunità di vivere una seconda gioventù».
Una seconda gioventù che, del resto, non sono i soli ad esperire: anche il loro campo, il XXV aprile, è rinato grazie a questi “liberi nuotatori”: storico luogo di aggregazione sportiva e ricreativa del quartiere, prima di essere a loro assegnato nel 2010, era in uno stato di abbandono. Ora, grazie ai rifugiati calciatori, rivive una nuova vita, all’insegna dello sport e dell’inclusione sociale. È al XXV aprile che i ragazzi si allenano, due volte alla settimana, ed è sempre qui che vengono svolte le attività della seconda appendice della squadra. Liberi Nantes, infatti, è strutturata in due livelli: uno per “dilettanti”, aperto a tutti; l’altro, invece, più “selezionato”, che partecipa ai campionati, come quello appena concluso di terza categoria oppure i Mondiali Antirazzisti, che si terranno dal 3 al 7 luglio a Castelfranco Emilia, città della ministra per l’Integrazione Cécile Kyenge. Compresi portiere e panchinari, la formazione “professionale” prevede diciotto giocatori, ma i criteri di selezione sono diversi da quelli classici:
    «Non conta solo la bravura tecnica - spiega Ahmed – ad essere importanti sono piuttosto i comportamenti, lo spirito con cui si partecipa, la condivisione dei valori che sono alla base di quest’esperienza. Io, personalmente, mi sento integrato, e in ciò la squadra mi ha aiutato molto. Ho dato e ricevuto: ora sono socio, giocatore e dirigente».
Ahmed, ci confida, ha due sogni nel cassetto. Anzi tre. Il primo, quello di giocare nella Juventus, nonostante sia di adozione romana («la passione non si decide», si giustifica); il secondo, di «vedere il razzismo eliminato dal mondo del calcio: ne rovina l’immagine e le multe non bastano». Il terzo, infine, di diventare cittadino italiano, ma alla parola «cittadinanza» la sua voce si incrina. «Non è molto facile», aggiunge, scoraggiato. Poi si riprende: «Ma me lo auguro».



LA CAUZIONE D'INGRESSO FA PIÙ MALE AL REGNO UNITO CHE AGLI IMMIGRATI
Corriere della sera, 25-06-2013  
Danilo Taino
Stabilito che il piatto tradizionale della famiglia britannica è il chicken tikka masala, David Cameron dovrebbe spiegare ai suoi concittadini che senso ha alzare barriere all'ingresso nel Regno Unito nei confronti degli indiani, depositari dell'originale ricetta che ha conquistato l'ex potenza coloniale. Se a Londra e alla Gran Bretagna togliamo l'India — e il Pakistan e il Bangladesh — ri- marrà un Paese smunto e insapore come un roast-beef troppo cotto. La bellezza del Regno, oggi, sta invece nella sua bravura a mesco- lare passato (anche coloniale), presente e futuro: diversamente sarebbe una Francia senza cucina.
La decisione del governo conservatore di imporre dal prossimo novembre un deposito di tremila sterline (poco più di 3.500 euro) a chi entra nel Regno da India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Nigeria e Ghana sembra dunque autolesionista. Vero che, se chi entra poi esce in tempo, i tremila pound gli verranno restituiti. Ma per gran parte delle centinaia di migliaia di asiatici e africani che ogni anno volano nel Paese una cifra del genere è un onere insostenibile: rovinerà i rapporti con i Paesi messi nel mirino in quanto origine di immigrazione clandestina. Perché, dunque, volere amputare una parte di se stessi, tra l'altro quella che sta portando nel mondo le novità maggiori, la crescita economica piü alta, la forza di milioni di giovani, il futuro?
Il problema immigrazione è serio nel Regno Unito: 500 mila persone tra il settembre 2011 e il settembre 2012. Il vero motivo per cui si introdurrà il deposito, però, sta nel tentativo del governo Cameron di rincorrere il partito Ukip, che sfrutta con successo le paure xenofobe dei britannici. Ma dire, come ha fatto la segretaria agli Interni Theresa May, che in questo modo si fará crollare il numero di immigrati «allo stesso tempo dando il benvenuto ai più brillanti e migliori», è una falsità o un'illusione: nessuno scienziato vorrà stare in un Paese dove non possono venirlo a trovare i suoi zii; il solo risultato sarà físh & chips per tutti.

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