Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

PROGETTO DI RICERCA SULLE SECONDE GENERAZIONI DI IMMIGRATI MUSULMANI IN ITALIA

a cura di Betti Guetta 


La ricerca sulle seconde generazioni di musulmani in Italia è stata promossa dall’associazione Genemaghrebina . L’indagine, basata su un impianto di tipo esplorativo/qualitativo, è stata focalizzata sui giovani appartenenti a famiglie originarie di Paesi musulmani selezionati in base alla consistenza della presenza in Italia e a criteri d’ordine geografico-culturale. In questa chiave sono state scelte due comunità di area mediterranea (marocchini ed egiziani) ed una di area asiatica (pakistani). La ricerca è stata realizzata da Abis Analisi e Strategie.
L'indagine realizzata nei mesi di giugno e luglio 2011 è stata presentata il 29 settembre
 

PROGETTO DI RICERCA SULLE SECONDE GENERAZIONI DI IMMIGRATI MUSULMANI IN ITALIA
 
Sintesi dei principali risultati
 
 
Makno (Abis analisi e strategie)
 
Una premessa
 
L’indagine di cui presentiamo i risultati si è svolta in un clima interattivo molto interessante. Gli intervistati hanno espresso una grande partecipazione alla discussione di gruppo e alle interviste. Hanno riferito le loro opinioni, le loro difficoltà, i loro desideri e soprattutto e loro speranze.
Tuttavia quello che si intuisce è che questi giovani hanno una modalità di relazione che, in particolare su alcuni temi – i rapporti familiari, le relazioni sentimentali, il rapporto con la politica – filtra le parole e i sentimenti.
Sono molto riservati, non sono reticenti ma discreti.
Questi giovani di seconda generazione  vivono una doppia appartenenza culturale
E questo sottende, come è facile intuire, uno slancio affettivo verso entrambe le appartenenze. Ecco che i ragazzi sembrano voler compiacere tutti e due i mondi nei quali vivono: quello delle famiglie d’origine e quello che è al centro del loro presente.
Per quanto esprimano una decisa capacità analitica, al tempo stesso sono come esitanti: si preoccupano di essere ‘corretti’ esibendo una vitalità dialettica che sembra voler compiacere tutto e tutti. Vogliono mostrarsi costruttivi nei ragionamenti e dunque fornire informazioni e giudizi utili alla ricerca; vorrebbero parlare bene dell’Italia che è il paese che amano e nel quale sono cresciuti ma non vorrebbero nuocere all’immagine dei paesi d’origine. Insomma vorrebbero criticare senza accusare, aprirsi alla differenza ma anche omologarsi, esprimersi in maniera razionale ma anche lasciarsi coinvolgere dalle emozioni… Desiderano saper dire la bellezza di entrambi i loro mondi.
Non sono state rare le occasioni in cui i ragazzi, nel corso delle discussioni di gruppo, si sono corretti a vicenda sottolineando che non era il caso di massimizzare, che occorreva fare distinguo, non generalizzare, essere cauti e equilibrati nei giudizi.
Si può concludere dunque che le verbalizzazioni di questa ricerca andrebbero considerate attraverso un doppio filtro: quello di un recitato che, necessariamente, tutte le ricerche comportano e quello di un ‘necessario ‘ compiacimento, quasi uno sguardo vigile e prudente che questi ragazzi hanno imposto a loro stessi, una comprensibile correttezza ‘di facciata’ che, come un basso continuo, ha sottolineato tutti i loro racconti.
 
 
 
 
Un nuovo modello di relazione: non l’integrazione nella cultura italiana ma la doppia appartenenza come plus. Non assorbimento e omologazione ma reciprocità
 
 
Quando pensiamo alla società del futuro, agli immigrati che sono arrivati in Italia, ai loro figli nati nel nostro paese o arrivati da piccoli, Il modello verso il quale dobbiamo andare è  quello di  una integrazione reciproca,  occorre cioè affrontare il tema dell’integrazione in chiave interculturale superando  una visione multiculturale che si è dimostrata perdente in altri paesi europei.
 
I giovani di seconda generazione esprimono chiaramente un’idea di integrazione complessa e articolata  desiderano uno scambio e una maggiore conoscenza reciproca, una più ampia disponibilità a comprendere e ad accogliere la loro diversità.
 
Il cammino verso l’integrazione è complesso, articolato, non è un percorso lineare né gratuito. Per certi versi i giovani intervistati contestano il concetto stesso di integrazione perché  se integrazione significa conoscere la lingua, rispettare i codici della società ospitante, questo non basta a farli sentire pienamente integrati né completamente accettati. 
 
“Io vorrei dire che integrare significa sommare, unire, mantenendo quello che sono e cercando di apprendere le cose positive”
“Ci sono idee sbagliata d’integrazione, non dobbiamo integrarci facendo le stesse cose, ma dobbiamo solo accettarci l’un l’altro, io devo rispettare le leggi, ma se per integrarmi devo togliere il velo non è integrazione”
“Ci vuole un equilibrio tra la propria identità e il paese dove vivi, mi sento italiana, ma non sarò mai italiana solo perché  ho il velo o sono  più scura , io mi voglio integrare ma loro  devono accettarmi”
“Sono aperto fino a un certo limite, rimango marocchino, musulmano. So che faccio parte di questa realtà, conosco i miei diritti e doveri”
“Io cerco di  vivere al meglio la relazione con le mie radici, non mi ci voglio separare. Anch’io penso al matrimonio con un musulmano, non solo perché è una regola, ma per condividere la mia cultura, che possa completare e arricchire e approfondire con lo stare insieme”
 
Quando si usa la parola “integrare” sembra volere dire che a loro manca qualcosa, che devono riparare a delle lacune, a delle mancanze.
E invece ci dicono questi ragazzi, non è così. Hanno un grande orgoglio, si sentono portatori di una cultura (che ha la stessa dignità di quella italiana) che non vogliono perdere.
 
Alla domanda su cosa deve fare un immigrato di seconda generazione, integrarsi o mantenere l’identità e le tradizioni del paese di provenienza la risposta è univoca: integrarsi mantenendo le proprie tradizioni.
 
“Integrarmi è una parola che non mi piace, come se avessi qualcosa che mi manca,  noi siamo nati qui ma non saremo mai italiani, pur sentendomi italiana io ho qualcosa di più rispetto agli italiani, visto che ho anche vissuto in Egitto,  forse perché ho avuto esperienza e amicizie anche egiziane”
“Il termine integrazione lo posso capire come contrario di una chiusura, che non ha chi è nato qui. Penso che i miei genitori l’hanno fatto, mamma guardava tv italiana per imparare bene la lingua. Questo è integrazione, è lo sforzo in generale che uno fa…”
“Integrazione non la so definire, per la mia generazione non c’è bisogno”
 
 
Tutti  si sentono sia italiani che marocchini o egiziani. Rispondono  di sentirsi 50%-50% 
Si sentono marocchini per la mentalità, il modo di fare, il rispetto dei propri valori d’origine, una morale ben precisa che qui tende a mancare delle volte.  Si sentono arabi durante le feste religiose o quando  ascoltano una canzone o  leggono un libro nella loro lingua.
Questa doppia identità è per molti di loro una ricchezza. 
Sono abituati al confronto con la differenza, a parlare più lingue, a muoversi tra culture diverse riconoscendone codici e regole. Sentono e qualcuno lo dice, di avere qualcosa in più, qualcosa che non vogliono perdere.
 
Il fatto di sentirsi italiani o arabi dipende da un insieme di sentimenti, condizioni, congiunture.  Conta molto l’educazione ricevuta, lo status sociale della famiglia, la mentalità, i valori familiari, la lingua che si parla in casa, conta il cibo, la musica che si ascolta, contano i viaggi nel paese d’origine ma conta molto anche come si sentono considerati dagli italiani.
L’identità è in diretto rapporto con lo sguardo dell’altro, uno specchio nel quale ci riflettiamo e leggiamo i lineamenti della nostra fisionomia culturale.
Per loro , come per chiunque, è importante sentirsi riconosciuti e rispettati. E quando il rispetto viene a mancare la loro duplice identità comincia a oscillare.
 
“Io non mi sento né marocchina né italiana; mi sento una persona a cui piace vivere dove viene rispettata, è il rispetto ti porta ad amare un posto”
“Io mi sento italiana quando sto in Marocco e marocchina quando sto qui, è la gente che ti fa sentire così”
 
 “Mi sento metà metà, i miei genitori mi fanno sentire anche marocchina. Grazie a Dio conosco bene la lingua marocchina, mi sento a casa mia sia qui che in Marocco”
“Io mi sento marocchino, integrato in Italia, e mi sento marocchino anche per fare capire agli italiani che i marocchini sono civili, non sono degli animali, siamo come gli italiani, siamo tutti esseri viventi, abbiamo due mani e due gambe”
“Io mi sento marocchino anche se sono cresciuto qui. Come seconda patria sicuramente l’Italia perché siamo rispettosi, abbiamo lavorato qua, abbiamo avuto anche degli amici italiani, però mi sento sempre marocchino perché quando entro nel mio paese mi sento una persona libera, la più libera del mondo, quando esco è come rimpiangere di lasciare i nonni, i cugini, cominci già a piangere, pensi adesso comincia il freddo, adesso comincia il lavoro”
“In Marocco mi sento italiana e in Italia marocchina. Italiana per l’apertura mentale, marocchina per il rispetto dei miei valori e per la morale fortemente legata alla religione”
 “Io mi sento italiana, ma la parte egiziana si risveglia. Ho tutti amici italiani, conosco anche ragazze egiziane, ma vivo un contesto italianizzato. Sono felice di essere egiziana da quando ho parlato con un ragazzo americano e mi ha trasmesso la fierezza di esserlo. Prima me lo tenevo per me, non avevo bisogno di dirlo, adesso ne sono fiera e lo dico”
“E’ strano,  io sono sempre stata qua, ogni tanto sono andata per vacanza in Egitto, ma non ci ho studiato nè lavorato. Dico che sono italiana con origini egiziane. Anche se sono nata qui, ho studiato qui, non dico che casa è Italia, la casa è in Egitto.  Non ho più i nonni, ma la mia casa è lì, anche se non ci ho vissuto, non ho amici di infanzia. lì ci sono zii e cugini”
“Voglio dire che mi sento 100% egiziano quando sono in Italia, 100% italiano quando sono in Egitto,  difendo a spada tratta il mio paese. Sentirsi egiziano dentro, per difendere l’Egitto, sento che le mie radici sono egiziane e sento il dovere di difenderlo. Poi mi comporto da Italiano al 100% , tifo per la Nazionale Italia”
“Italiana per l’apertura mentale perché io posso parlare di tutto senza pregiudizi che in alcune culture manca perché c’è la paura di non rispettare i precetti, parlare con riservatezza. Mi sento marocchina per il rispetto dei miei valori d’origine, una morale ben precisa che qui tende a mancare” 
 
Più che di integrazione occorre allora parlare di doppia appartenenza che è un plus.
Perché l’integrazione sembra a loro una forma di impoverimento.
 
Loro parlano italiano e arabo, mangiano spaghetti e cous cous, hanno amici italiani e marocchini o egiziani, sono musulmani e desiderano restarlo.  Hanno dei valori e delle tradizioni che li definiscono, li danno appartenenza, identità, li indicano una strada morale.
 
Amano l’Italia  ma il loro rapporto con il paese è ambivalente.
Amano l’italia che ha accolto le loro famiglie in anni ricchi (‘80/’90),  ma vivono in un’Italia che da anni patisce una grave situazione di crisi economica, e dove è difficile trovare un buon posto di lavoro .
I loro genitori  sono arrivati in un paese dove c’era lavoro, c’erano pochi immigrati e sono stati accolti. Hanno trovato lavoro amicizie, spazi di crescita personale e sociale, accoglienza per i loro figli nelle scuole, disponibilità umana, generosità: “C’era ricchezza economica e di cuore
Il loro rapporto con l’Italia è complesso e controverso . L’Italia da una parte è casa, storia, arte, cultura, cucina dunque affettività e accoglienza, dall’altra è diffidenza e pregiudizio.
 
Per raccontare gli aspetti negativi dell’Italia i ragazzi fanno riferimento alle loro esperienze di vita:   “la mentalità chiusa della gente, l’ignoranza, la diffidenza” sono i problemi che generano le loro difficoltà. Tutto ciò si esprime in diverse circostanze ma principalmente nel mondo del lavoro dove accade talvolta di non essere riconosciuti per quello che si è ma per il proprio mondo etnico di appartenenza.
 
“Quando vado a firmare una bolla e firmo col mio nome vedo che fanno delle facce strade,  poi quando sentono che parlo bene l’italiano allora mi dicono, sei marocchino? Sei cresciuto qui…. Ecco io non vorrei più sentire dire queste cose, vorrei che dicessero sei Tarik. Punto”
“Il lato negativo nel lavoro è che non hai subito la fiducia, sei sottovalutato e l’occasione te la devi sudare per avere la fiducia”
“ Il problema è la mentalità, una certa chiusura nei nostri confronti, se cerchi lavoro e porti il velo non lo trovi ;come cresceranno i nostri figli, se saranno qui la loro crescita sarà un problema”
 
 
Il declino dell’Italia
L’italia è un paese che ai loro occhi sta perdendo quella capacità di accogliere, di aiutare; oggi tende a respingere,  a “fare sentire indesiderato” lo straniero  soprattutto se musulmano.
In passato gli immigrati erano pochi, il loro inserimento non incontrava ostacoli insormontabili,  l’immigrazione non era ancora un problema o come è diventata poi “un’emergenza”. Oggi le cose sono cambiate sul piano economico e sociale. 
L’esempio più eclatante di questo cambiamento è la data spartiacque dell’11 settembre 2001. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il musulmano è divenuto, agli occhi della società occidentale, il nemico e la sua religione è divenuta ideologia politica terrorista. Un cambio di registro che le comunità musulmane hanno avvertito e che ha posto molti dei loro giovani in una situazione di difficoltà.
 
I ragazzi si sentono  doppiamente penalizzati dal loro essere stranieri e musulmani in un momento sociale e politico pieno di paure e di  diffidenza.
 
Ai giovani piace vivere in Italia. Sono figli d’immigrati “sistemati”. Loro, figli trapiantati, hanno avuto opportunità di studio e di benessere che nei paesi dai quali provengono non sarebbero stati possibili.  Hanno studiato, alcuni si sono laureati. 
 
Sono tanti i ragazzi che  sottolineano però il fatto che dopo vent’anni paradossalmente la società italiana tende a rimarcare ancora la loro estraneità.
Qualcuno cresciuto qui, in Italia da 25 anni, si chiede cosa deve fare di più di quello che già fa (studiare, lavorare, pagare le tasse, fare mutui, crescere i suoi figli, ecc. ) perché si possa parlare di integrazione.
 
“Noi qua in Italia come stranieri ci siamo introdotti nella vita quotidiana, nella società,  ma l’italiano non riesce ancora ad accettare questa realtà, questa ideologia. Quindi io penso che forse l’era di mia figlia quando arriverà forse sarà cambiata la mentalità
“Mia figlia all’asilo non è stata invitata a una festa di compleanno perché  marocchina, non ha dormito per tre giorni, non voleva più andare all’asilo, una tragedia
 
“Noi diciamo che vogliamo tornare nella nostra patria perché la società ti fa sentire che non sei a casa, che non appartieni a questa società. Ti fanno sentire ingombrante, sei straniero, sei quello che porta via il lavoro, sei quello che non paga le tasse,  invece non è vero”
“Io sono integrato, gioco a calcio, faccio karatè, faccio tutto però in generale ti fanno sentire che non è il tuo posto; te lo fanno sentire tutti i giorni, te lo lanciano addosso, quando parlano  di un episodio di cronaca fanno generalizzazioni , come se tutti i marocchini fossero delinquenti, e poi mettono in mezzo la religione
“Noi seguiamo i mass media, vediamo come parlano, le reazioni ti feriscono moralmente. Tu dici cavolo io sono qui in Italia, i miei figli stanno crescendo, che futuro avranno, come si comporteranno, se mia figlia sposerà un italiano come si troverà
“Io sono qui da 25 anni, mio cugino è nato qui e mi dice che lo trattano male, gli dicono “marocchino torna al tuo paese”, se vai all’asilo vedi già come sono i bambini e come incide l’ignoranza dei genitori; a volte i bambini vengono anche menati”
 
 
I tempi dell’integrazione sono evidentemente lunghi. Qualcuno sottolinea l’importanza del confronto e del dialogo, risorse indispensabili a superare pregiudizi e diffidenza reciproci. 
 I ragazzi si assumono le loro responsabilità e dichiarano che è necessario anche da parte loro aprirsi, farsi conoscere, creare una relazione.
 
“Certo ci sono pregiudizi, ma ce ne sono di tutti i tipi, come contro i gay, ma bisogna sempre chiarirsi, parlare, far capire che io sono mussulmana e quindi sono così, non farne una categoria”
“Con alcune persone, dato il mio colore di pelle, all’inizio hanno un attimo di pregiudizio, poi appena parlo e sentono che parlo bene italiano tutto si scioglie. È un qualcosa di momentaneo. Non lo definisco razzismo ma ignoranza”
“Molto dipende anche da noi. Io sono sempre pronta a dire chi sono, senza attaccare, senza difendere egiziani o italiani. Quindi è una colpa “nostra”, chi non parla, chi non comunica, fa aumentare l’ignoranza”
“C’è una certa chiusura nei nostri confronti, se cerchi lavoro non lo trovi se indossi il velo, la chiusura non si vede tanto a scuola ma per strada, nei supermercati dove ti danno risposte sgarbate. Non è colpa loro, è anche colpa nostra che dopo 20 anni non ci siamo ancora aperti”
 
 
Sono giovani che per molti versi hanno attese comuni a quelli dei loro coetanei nati da coppie italiane, desiderano buoni posti di lavoro, non immaginano di fare i lavori, talvolta umili, fatti dai loro genitori. Hanno aspettative in linea con i loro diplomi e i loro sogni. Le loro aspirazioni non risentono di quella umiltà che è segno di disagio e sofferenza, questi giovani esprimono una certa dose di autostima, di fiducia in sé stessi, di sicurezza. 
 
“Noi arabi marocchini abbiamo un grande orgoglio e non ci facciamo abbattere. Dobbiamo studiare per raggiungere posizioni importanti. Anche noi siamo intelligenti. I voti dei marocchini a scuola sono più alti di quelli degli italiani. Abbiamo un cervello”
 
 
E poiché non vogliono più sentirsi trattati come stranieri talvolta sognano di tornare nel loro paese.
Se l’Italia, è un paese invecchiato, in crisi, poco accogliente e un po’ razzista , i paesi arabi dai quali provengono le loro famiglie  stanno vivendo una nuova epoca, una fase di cambiamento, di ricerca di democrazia che li rende diversi da come erano quando i loro genitori sono partiti, oggi appaiono più interessanti. 
E allora qualcuno spera di mettere a frutto i propri studi e le proprie abilità e ritornare nel paese d’origine ma tutti  sono consapevoli delle difficoltà di ritornare in un paese dove non sono cresciuti e  dove temono di ritrovarsi ancora una volta stranieri. 
 
“io vado spesso in Marocco,  e vedo il progresso del Marocco e il regresso dell’Italia, il Marocco sta vivendo la crescita, la modernizzazione, la costituzione di un nuovo governo, una trasformazione strutturale. Anche le persone stanno cambiando, mentre l’Italia si sta chiudendo,  ha paura che noi possiamo avere il sopravvento sugli italiani”
“se continua così l’Italia per la crisi me ne andrò col cuore sempre in Italia”
“a me piace la cultura marocchina, mi piacerebbe tornare a vivere in Marocco per tutto, per l’aria, la terra, la religione e la cultura”
“Io in Marocco ci tornerei, i miei parenti sono venditori, mi auguro di aprire un’attività con loro, loro in Marocco io in giro”
“Ho girato molto per lavoro e l’Italia non è il meglio e non so se ci resterò.  In Egitto avevo fatto l’università americana,  sono tornato in Italia per un’offerta lavorativa ma voglio scappare,  dal punto di vista economico non posso lamentarmi, ma non esistono prospettive, c’è una grossa incognita Non c’è dinamismo, guardo verso il futuro e non lo vedo”
 
 
 
Il recupero e rafforzamento della identità islamica è  anche una conseguenza della sensazione di rifiuto
L’espressione più utilizzata per parlare delle difficoltà o del rifiuto da cui si sentono talvolta attorniati è “ignoranza”: gli italiani ignorano cosa sia l’Islam, ignorano la differenza tra un marocchino, un algerino, un egiziano, ignorano che i giovani di seconda generazione – cresciuti in Italia - parlano bene l’italiano e si rivolgono a loro, parlando lentamente, scandendo le parole così come si fa con i turisti stranieri. 
Gli italiani ignorano inoltre i veri motivi per cui le donne indossano il velo e interpretano questa usanza come una forma di sottomissione alla volontà maschile. Ignorano la ricchezza di tradizioni e i valori dell’Islam.
Di fatto i ragazzi soffrono per l’indifferenza che colgono nella società in cui vivono.Molti giovani intervistati desiderano (e alcuni lo fanno) spiegare, raccontare le proprie usanze. Alcune ragazze riferiscono soddisfatte di quando le compagne di classe avendo capito nella frequentazione quotidiana il senso della loro cultura, spiegano agli altri ragazzi il significato del velo che loro indossano. 
 
Immigrazione e convivenza
Quando i giovani parlano delle difficoltà di relazioni con gli italiani lo fanno con un certo equilibrio, cercando di capire entrambi i punti di vista, quello degli italiani e quello degli immigrati. In questo senso esprimono la loro duplice identità.
I rapporti con gli italiani sono talvolta positivi, talvolta critici.  C’è infatti una certa attenzione a non generalizzare sull’argomento: se nel gruppo qualcuno accenna agli “italiani” c’è sempre qualcun altro che specifica, che vuole che si facciano dei distinguo tra le persone.
“anche noi però non dobbiamo generalizzare perché ci sono anche degli italiani che sono curiosi, vogliono conoscere le nostre tradizioni”
 
Alcuni mettono in rapporto la diffidenza degli italiani verso gli stranieri con i comportamenti negativi di alcuni loro concittadini che gettano discredito su tutta la comunità.
 
“La generosità è una cosa bellissima che c’era e che purtroppo non c’è più non per colpa degli italiani. Se quando vengo qui do qualche problemino di ordine, non rispetto le usanze del paese  faccio venire meno l’ospitalità e il buon cuore”
“Un pesce che puzza fa puzzare tutti gli altri. A volte è anche colpa dei marocchini, qualcuno che fa qualcosa di negativo che si riflette su tutti, rovina la nostra immagine. Ma l’italiano non deve condannare uno per tutti”
 
 
Il ruolo negativo dei media contribuisce ad un’immagine stereotipata e sminuente degli immigrati musulmani
Molta responsabilità nella diffusione della diffidenza e del razzismo viene attribuita ai mass media. 
L’immigrazione viene raccontata evidenziando e dilatando le connessioni criminali e trascurando tutto il resto. La realtà degli immigrati, la loro quotidianità, le trasformazioni, la loro cultura sono tutti aspetti che non trovano spazio nei media.
Tutti gli intervistati parlano con grande sofferenza e con una buona dose di rabbia di come i media presentano un’immagine semplificata, parziale, quasi immutabile di un fenomeno assai complesso ed in continuo movimento  come quello dell’immigrazione.
I giornalisti quando scrivono di immigrazione, di Islam o quando riferiscono episodi di cronaca nera in cui sono coinvolti stranieri,  tendono a generalizzare e ad usare un lessico stereotipato. Privilegiano un’informazione immediata e sensazionalistica che lascia poco spazio alla comprensione e all’approfondimento. 
“Sono responsabili le reti televisive e i giornali quando enfatizzano gli atti dei marocchini o dei rumeni, stupratori, senza dare una visione più ampia degli immigrati”
“Io ho un cane e la sera quando scendo e incontro le mie vicine si dimenticano che io arrivo dal Marocco e mi raccontano le loro paure di questi immigrati cattivi che hanno visto al telegiornale”
“Una grande responsabilità l’hanno avuta i mass media quando parlano dei “marocchini” che commettono reati. I più diffidenti sono gli anziani, le casalinghe e ragazzini. Spesso sull’autobus si vede la vecchia pensionata fresca di parrucchiere che si mette a sedere  stringendosi la borsa, guardandoci con diffidenza”
“Perché  chiamano “marocchini” tutti gli stranieri? A un egiziano lo chiamano marocchino, un algerino, un tunisino, marocchino. Anche chi arriva dal Sudan. Non cercano di distinguere, capire”
 
 
 
I musulmani in Italia: la pratica religiosa come momento di identità
Tutti i giovani si definiscono musulmani credenti e, nella stragrande maggioranza, sono anche praticanti. Sottolineano il fatto di essere stati educati all’Islam, che resta il più forte  riferimento culturale e morale che essi abbiano. 
Le ragazze intervistate per la maggior parte indossano il velo ma anche chi non lo indossa si dichiara religiosa. Qualcuna rimanda l’uso del velo a dopo il matrimonio.
 
Per alcuni giovani, nati in Italia e poco esposti alla cultura e alla religione d’origine, ha avuto una certa importanza l’esperienza dell’associazionismo, un fenomeno diffuso e a quanto pare ricco di articolazioni.
L’associazionismo musulmano ha aiutato i ragazzi a riappropriarsi della loro storia, dei loro culti e, soprattutto, a cominciare un vero e proprio dialogo con sé stessi e la loro identità. Si può dire dunque che, per una certa ’categoria’ di giovani - coloro che hanno vissuto la loro quotidianità senza che l’Islam fosse un punto di riferimento centrale nella loro vita - l’associazionismo è servito ad assimilare e interiorizzare quei  principi 
che non erano forse passati attraverso la famiglie d’origine.
 
“I  primi miei anni qui in Italia avevo una idea sbagliata di integrazione, nessun legame con la mia cultura, l’unico legame che avevo era la mia famiglia, non mi sentivo al 100% italiano, stavo male e non capivo ; non potevo negare le mie origine. Poi ho conosciuto alcune persone e  piano piano ho iniziato a praticare ancora la religione, quindi grazie a un gruppo, giovani musulmani italiani,  da grande ha ritrovato le mie radici”
“Fino a quattro anni fa non conoscevo nessun marocchino, poi ho incontrato delle donne  che organizzano delle riunioni in moschea o nelle case dove si parla di religione, del Corano”
“Gli incontri servono a tenerci aggiornate sulle nostre tradizioni, riempiono il nostro bagaglio culturale, lezioni con donne più grandi e colte
“Per vivere bene bisogna conoscere la propria storia, sia quella del luogo in cui vivi. Altrimenti se non vivi bene questa realtà la neghi. Il tornare alle origine è un richiamo che abbiamo noi, che abbiamo vissuto in contesto diverso”
 
 
Le difficoltà di essere musulmani in Italia: la pratica religiosa
 
Molti lamentano che la libertà di culto affermata dalla costituzione italiana resta di fatto una dichiarazione di principio che viene normalmente smentita nella realtà.  
 
Pregare o mettere il velo è teoricamente permesso ma entrambi questi comportamenti sono di fatto disconosciuti, resi difficili nella realtà di tutti i giorni.
In molte città e paesi mancano le moschee. In altri, i luoghi di culto sono ricavati in garage, cortili, strade, cinema, spazi non sempre idonei al raccoglimento e alla preghiera.  L’assenza di luoghi di culto rende difficile vivere la propria religiosità e sentirsi comunità.
La possibilità di pregare cinque volte al giorno è remota e alcuni giovano raccontano di farlo di  nascosto al lavoro.
L’alimentazione  non pone problemi per l’ampia disponibilità di macellerie halal.
L’osservanza del Ramadan non sembra particolarmente difficile, alcuni ottengono di uscire dal lavoro prima per potere mangiare nell’orario dovuto.
 
“A Milano il contesto non mi aiuta, faccio fatica. Quando sono andata in USA ho conosciuto l’Islam che conoscevo da piccola: andavamo in moschea, c’erano gli uomini che ci guidavano, ma poi tornata qui ho difficoltà perché non ci sono Moschee. Nei miei sentimenti non ho dubbi, ma il contesto sociale è importante, se non puoi condividere con amici fai anche fatica a seguirla… ecco perché me ne vado!”
“il sentimento è quello, la pratica è complicata mentre quando vado in Egitto si incrementa”
“Io ho sempre fatto il Ramadan, ma pregato quasi mai,  mio padre aveva orari assurdi, quindi ho fatto la bella vita fin che ho potuto, poi quando sono andato in Egitto ho iniziato a pregare, ho cominciato e sto continuando ancora adesso”
 
“ Non è giusto non potere pregare mentre loro i 5 minuti per la sigaretta ce l’hanno “
“ A volte  ti fanno della battute assurde, ma perché fai il Ramadan, ma muori di fame, ma come fai a non bere, insomma sono secoli  che siamo in Italia e lo facciamo”
“La legge tutela di più la religione cristiana e cattolica, viene dichiarato che c’è libertà di culto però non è reale mentre le altre religioni, gli ebrei ad esempio, possono fare quello che vogliono”
“papà ha fatto il muratore, poi non gli piaceva il comando e si è reso indipendente, anche per avere tempo per pregare, ora è commerciante”
 
 
 
 
La questione del velo
Una difficoltà significativa la incontrano le donne che indossano il velo, un costume più visibile negli ultimi anni da quando in seguito ai ricongiungimenti familiari sono arrivate in Italia molte donne. 
Le donne che indossano il velo,  riferiscono di essere circondate da diffidenza e da rifiuto. Per loro è molto difficile trovare un lavoro qualificato, dicono di riuscire a trovare solo lavori domestici mentre un impiego in uno studio professionale o in una agenzia di viaggio sembra a loro precluso.
Per questo motivo ma anche per avere la libertà di pregare durante la giornata, molti giovani sperano di riuscire ad aprire un’attività lavorativa indipendente.
 
“Ho difficoltà nel lavoro perché io ho il velo e ho un nome straniero; ho provato a mandare il curriculum sia col nome italiano che con nome straniero; con quello italiano sono stata contattata da quasi tutte le aziende mentre con quello straniero no”
“Io indosso il velo e se voglio andare a lavorare da un commercialista o in un’agenzia di viaggio non mi prendono, posso fare solo le pulizie” 
“io che non lo indosso, quando incontro una donna col velo, osservo gli altri come la guardano, vedo che qualche difficoltà c’è”
 
 
Come si sentono percepiti in quanto musulmani: una doppia lettura 
Alcuni non hanno problemi e raccontano della disponibilità dei  loro colleghi o capi durante il Ramadan o nei momenti delle preghiere. 
Altri parlano delle difficoltà e delle limitazioni a cui devono sottostare.
 
“io gioco a calcio e mi conoscono tutti e sanno che quando mi faccio la doccia tengo addosso le mutande, adesso non me lo chiedono più, sanno cosa mangio e cosa non mangio, mi rispettano”
“il Ramadam io lo faccio, dovrei essere in soggezione con i colleghi, invece tutti mi rispettano, lo straniero è il problema, non hanno pregiudizi sull’Islam”
“io non ho problemi al lavoro, mi rispettano, il mio capo il venerdì mi da il giorno per la preghiera, non c’è problema nel luogo di lavoro. Durante il Ramadam salto la pausa pranzo ed esco prima
“i primi tempi in cui ho messo il velo hanno avuto paura ma ora mi fanno battute, la mia amica mi dice che sono la sua kamikaze preferita”
 
Tuttavia se nei rapporti interpersonali consolidati  il pregiudizio sui “simboli” religiosi, dal velo alla preghiera, sembra superato dalla conoscenza e dalla frequentazione quotidiana, è nell’immaginario collettivo che ancora resistono, e rendono difficili i rapporti, le paure legate all’identificazione negativa tra religione islamica e l’attività dei gruppi integralisti e terroristi. Ciò avviene soprattutto nei momenti di crisi e di allarme sociale e viene alimentato da un atteggiamento allarmista dei mezzi di comunicazione e dalla strumentalizzazione, in malafede, fatta da alcune componenti del mondo politico a cui fa comodo acuire nel corpo sociale paure e diffidenza.
 
“Quello italiano è un popolo molto buono ma spesso si fa influenzare troppo dai mass media, prima dell’11 settembre un musulmano era una brava persona, poi dopo sono cambiati ma sbagliano perche guardano solo una cosa, il kamikaze che si fa esplodere ma non sono tutti cosi! “
“i mass media  danno una visione completamente sbagliata dell’Islam. Anche in Norvegia si è subito parlato di terrorismo islamico”
“Nei mass media stanno discriminando tanto la religione mussulmana, dalle torri gemelli l’italia ha cambiato posizione sia politicamente che moralmente sull’Islam, anche il popolo ha avuto un rifiuto verso l’Islam. La politica sta creando nella gente un po’ il terrore. Anche nel lavoro, ti fanno delle battute, il mussulmano è un terrorista” 
“Quando parlano i politici parlano delle cose di cui gli italiani hanno paura: il lavoro, la casa e gli immigrati”
“Dovrebbero impedire gli slogan sui manifesti politici della Lega che affermano che scacceranno l’Islam, è contro tutte le cose umane “
 
Questo tipo di enfatizzazione, nel giudizio di molti ragazzi, è sì figlia di pregiudizi negativi, ma trova supporto anche nell’atteggiamento di chiusura e rifiuto di ogni forma di confronto costruttivo con l’occidente che alcuni imam hanno, e che trasmettono ai fedeli, facendo così divenire la moschea, quando esiste, non un luogo di culto dove l’Islam diventa parte integrante di un territorio e di un contesto sociale, ma un pericolo per quello stesso territorio e quello stesso contesto.
I giovani si sentono spesso stretti tra il pregiudizio che li spinge nel novero dei pericoli, delle minacce sociali e gli atteggiamenti estremisti di alcune loro guide spirituali.
 
“i segnali che la politica dà è di odio verso i musulmani, quindi gli estremisti che hanno diversi intenti, si mettono a capo delle moschee. Tra i candidati sindaco a Milano c’era anche l’Imam, si era messo a capolista. Prova a immaginare quale è il segnale che il capo della Moschea voleva dare nel presentarsi a capo di Milano… non è questo il segnale che devi dare”
“Tanti mi chiedono perché non vado in Moschea, a parte il fatto che non ce ne sono, e quando ho parlato con un Imam che mi parlava male dell’Italia, che mi diceva che non dovevo studiare in italia… anche dalla nostra parte sbagliano. Non do la colpa solo alla politica, ma anche a noi stessi che non facciamo abbastanza”
“È importante mettere le giuste persone nel centro culturale, moderni, giovani che possano dialogare e capirsi, non affidarli a persone che non sanno nulla dell’Islam che è quello il problema grave che abbiamo; se mi fanno aprire un centro voglio fare vedere com’è un mussulmano veramente, come vive un mussulmano  non come certa gentaglia”
“quando sono tornata dall’Egitto alcune amiche mi dicevano ‘Bin Laden spiegami perché fate saltare la gente’
 
 
 
 
La questione della donna
Le donne intervistate sembrano condividere le regole islamiche alle quali sono state educate.
Hanno un forte rispetto per i genitori, “onorano il padre e la madre”
Si distinguono dalle loro coetanee perché non fumano, non bevono, non vanno in discoteca. Dicono di non avere il ragazzo, credono al matrimonio e alla verginità.
Sanno che il futuro marito dovrà essere musulmano e piacere a loro padre. Vogliono costruirsi una famiglia e educare i propri figli secondo la loro tradizione religiosa.
Tutte riferiscono di avere rapporti molto buoni con i loro genitori, un rapporto basato sulla libertà e la fiducia.
Le ragazze parlano della loro condizione di donne musulmane con molta convinzione e pacatezza. Sentono di avere un ruolo importante nella società, di essere un elemento essenziale per il mantenimento e la trasmissione dei valori e della tradizione della loro comunità.
Chi mette il velo sottolinea che la scelta di indossarlo è una scelta personale, che nessuno le ha costrette a farlo.
Chi non indossa il velo esprime rispetto per le donne che lo portano sia per la loro devozione che per il coraggio, la determinazione che mostrano.
La decisione delle donne di indossare il velo evidenzia una precisa scelta identitaria.
 
“Porto il velo perché anche se sono nata qua sento di volere mantenere le mie origini, i miei costumi e la mia religione. Penso che se uno è convinto di quello che fa, gli altri lo rispettano. Anche se agli occhi dell’occidente il fatto che le donne mettano il velo può sembrare un atto fatidico, un gesto di repressione al contrario per noi è solo un modo di salvaguardare la nostra società e la nostra religione”
“La donna, ha un compito onorevole di salvaguardare se stessa e anche il proprio nucleo familiare. Evitando di sottoporsi e di sottoporre gli altri a tentazioni distruttive. L’ijab è una delle tante dottrine della religione mussulmana. Il velo non fa altro che completare un insieme di pratiche religiose interiori che sono la cosa principale di ogni religione. Sicuramente portando sempre nel vestiario uno stile adeguato, rispettoso, pudico. Per evitare di diventare oggetto di mercificazione come oggi sono la stragrande maggioranza delle donne in occidente”
 
 
La politica: lontani dalla politica e vicino all’associazionismo musulmano e interculturale
I giovani di seconda generazione esprimono opinioni (e anche luoghi comuni) simili a quelli espressi da molti italiani e dai loro coetanei.
Vivono i politici come una “casta” lontana dagli interessi del paese.
Vedono la politica come qualcosa di distante, pensano che l’interesse principale dei politici sia quello di mantenere il potere e sfruttare la propria posizione.
Non credono nei partiti, non pensano che destra e sinistra siano categorie distintive. Sono osservatori distratti, disinteressati come molti cittadini italiani. 
Grande è invece il loro desiderio e bisogno di partecipazione in associazioni culturali islamiche: Yalla Italia, Cantieri Giovani Italia Marocco, Giovani Musulmani Italiani
 
Se la politica non interessa in senso generale, quello che coinvolge sono le politiche verso l’immigrazione perché da queste dipende il futuro loro e delle loro famiglie.
Tutti sono fortemente ostili alla Lega per le posizioni xenofobe che esprime.
Mostrano un interesse verso i partiti di sinistra o verso Fini quando parlano di concessione del voto amministrativo agli immigrati. 
In ogni caso accanto a questo sentimento nutrono un senso di diffidenza temendo di essere considerati soltanto un futuro bacino elettorale.
I giovani marocchini si definiscono di sinistra e dicono di appoggiare il PD perché è il partito più attento ai loro bisogni.
 
 
 
Cosa deve fare lo Stato per i giovani di seconda generazione
È diffuso un senso di riconoscenza nei confronti del nostro paese. Per molti lo Stato italiano ha già fatto molto per i musulmani: ha organizzato i corsi di lingua, la formazione professionale, l’accoglienza nelle scuole.
Quello su cui deve impegnarsi oggi è soprattutto l’aspetto educativo. Occorre un lavoro ‘ di fondo’ per avviare una trasformazione culturale della società che non punti solo sull’accoglienza e l’aiuto  ma anche all’avvicinamento e alla conoscenza reciproca (organizzare giornate di intercultura  per fare conoscere l’Islam nella sua complessità e ricchezza, organizzare tavole rotonde ecc. )
I ragazzi pensano che occorra realizzare una campagna di comunicazione sociale volta a valorizzare la diversità culturale come un’opportunità di arricchimento.
 
Importante favorire la libertà di culto, permettere l’apertura di  moschee e  centri culturali per lo studio della lingua, la conoscenza del Corano, la preghiera 
Infine è necessario che lo Stato favorisca il superamento delle barriere e dei pregiudizi che ostacolano l’inserimento delle donne col velo nel lavoro.
 
 
 
La questione della cittadinanza italiana come riconoscimento 
Una questione importante, ai fini  di una più sostanziale integrazione delle seconde generazioni, è la concessione della cittadinanza italiana a chi, figlio d’immigrati, nasca in Italia. Sentirsi italiani ma essere legalmente stranieri è infatti una condizione frustrante tale da potere generare in prospettiva forme di risentimento e o violenza
 
“oggi in Italia siamo in una situazione di passaggio, siamo fortunati perché abbiamo l’opportunità di non seguire né il modello francese, né inglese. Occorre dare il diritto di cittadinanza subito a chi nasce qua. Perché tutti quei bambini che sono nati qui sono stranieri e loro si sentono italiani però sulla carta sono stranieri e questo è la prima cosa che chi ha il potere deve considerare. Per il semplice fatto che questi bambini , adolescenti oggi, avranno la cittadinanza - perché comunque gliela daranno - ma ricorderanno tutta la trafila e la mancanza di riconoscimento che hanno avuto per anni.  Questo è importante perché li fa sentire rifiutati e li potrà domani far fare dei pensieri pericolosi”
 
Altro tema importante è quello di potere offrire ai bambini nati in Italia l’opportunità di recuperare la cultura e le tradizioni dei loro paesi di provenienza. Perché  il problema non è tanto l’integrazione quanto piuttosto la reintegrazione nella cultura d’origine per evitare che la mancanza di identità crei dei danni.
 
“Sarebbe bello potere avere accesso alla scuola pubblica a un corso di lingua araba che ti faccia mantenere un po’ i rapporti con il tuo paese d’origine.  Quando scendono giù sono di fatto del tutto stranieri. E’ importante insegnare loro la storia, la cultura, la lingua del loro paese affinchè abbiano un mondo a cui appartenere”
 
 
 
Alcune considerazioni conclusive
 
Nonostante le criticità e le sofferenze legate alla condizione di ‘diversi’, i ragazzi intervistati hanno espresso un grande equilibrio nell’analisi dei temi proposti. Il loro, tutto sommato, è un piccolo grande universo in mutazione: non solo perché gli eventi dell’11 settembre ne hanno di fatto mutato i toni percettivi, ma anche per la loro giovane età.
Gli elementi di sofferenza che sono emersi con maggiore evidenza dalla ricerca riguardano alcuni nuclei tematici.
 
L’indifferenza, la mancanza di interesse autentico che gli italiani mostrano nei confronti della loro cultura di provenienza: rare sono le domande e le curiosità sui loro mondi; rare sono le occasioni di confronto o le possibilità di spiegare, illustrare in modo approfondito e costruttivo le motivazioni che stanno loro a cuore. C’è, insomma intorno a loro una sorta di apatia, un distacco emotivo che si traduce in un senso di distanza con cui quasi tutti si trovano a fare i conti.
 
Quel tratto di indistinzione con cui noi italiani guardiamo a loro, rapportandoci agli immigrati come a un solo nucleo indifferenziato, quasi un mondo ibrido in cui non distinguiamo le fisionomie etniche, le provenienze, le diverse culture, le diverse sensibilità percettive, i diversi valori. Sentirsi senza volto è, forse, una delle sofferenze più forti che i ragazzi avvertono.
 
L’assenza di luoghi di culto ‘adeguati’, un problema che, se risolto, potrebbe evitare fenomeni di ghettizzazione e far loro vivere, in comunità, la loro fede. Soprattutto, potrebbe facilitare l’integrazione, il dialogo, la collaborazione sul territorio.
 
Le distorsioni operate dai media sui temi dell’immigrazione e, soprattutto, dell’Islam: accostamenti scorretti, superficialità nelle analisi, generalizzazioni, interpretazioni volutamente errate della cultura islamica, interpretazioni ideologiche, stereotipi. Insomma una modalità ‘grezza’ e talvolta volutamente distorta di affrontare i temi dell’immigrazione, modalità che non mancherebbe, sostengono i ragazzi, di alimentare diffidenza, razzismo, paure nei loro confronti.
Quest’ultimo punto merita una riflessione seria: bisogna lavorare affinchè la comunicazione giornalistica sull’immigrazione straniera in Italia prenda una strada diversa
Occorre superare un’immagine dell’immigrazione ancorata sempre alle stesse modalità di rappresentazione, alle stesse notizie di cronaca o giudiziarie, agli stessi stereotipi.
Lo stesso discorso vale per l’Islam: bisogna dare spazio a una narrazione positiva, approfondire gli aspetti morali e religiosi, superare la sovrapposizione tra islam ed estremismo.
Se le giovani seconde generazioni sono tante cose insieme anche i mass media devono  restituirci questa complessità e questa ricchezza.  Devono ricollegare questo mondo a nuovi modi di parlarne, a nuove parole. In modo da potere restituire a ognuno almeno un pezzetto della sua storia.
 
 
 
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