Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
Capitolo VIII
I campi di lavoro

A tenere in vita il caporalato è l’arretratezza culturale ed economica del sistema agricolo pugliese: un sistema che, attraverso i suoi rappresentanti, le associazioni di categoria, si dice strozzato dall’incapacità di incidere sulla trasformazione del prodotto e sulla sua commercializzazione, venendo così tagliato fuori dalla spartizione dei profitti maggiori. Il pomodoro, lamentano, viene pagato al produttore solo 75 euro a tonnellata. Troppo poco per tirare avanti... così moltissimi proprietari terrieri, sia i grandi sia i piccoli (coloro i quali hanno appezzamenti di sei-sette ettari e decidono di investire sul pomodoro perché garantisce maggiori margini di guadagno), arrivano a pagare ogni bracciante 3,50 euro all’ora. o addirittura a cottimo, 3,50 euro a cassone, nonostante che il contratto nazionale abbia fissato la soglia minima a 5,40 euro all’ora, per 6 ore e 30 minuti di lavoro al giorno, non un minuto di più. tuttavia quel compenso già asciugato (i 3,50 euro all’ora) non è mai interamente appannaggio del bracciante; una parte spetta al procacciatore di braccia. Secondo la Flai Cgil pugliese, nel comparto agricolo il lavoro grigio riguarda il 70% delle aziende, il lavoro nero, quello apertamente illegale, il 25%. Solo il 5% degli imprenditori agricoli è perfettamente in regola.
L’Italia è il secondo produttore mondiale di pomodoro da industria, quello cioè che viene trasformato in passata o in pelati e finisce sulla tavola. Viene dopo gli Stati Uniti e precede di poco la Cina, anche se probabilmente nei prossimi anni verrà superata dal gigante asiatico. Secondo l’Istat, ogni anno il nostro paese produce oltre 50 milioni di quintali di pomodoro da trasformare. Nell’ultima stagione registrata, quella del 2007, la produzione è arrivata a 52.602.527 quintali. Di questi, 18.037.300 sono stati prodotti in Puglia e 14.629.363 in Emilia-Romagna; molto più indietro ci sono la Lombardia (3.890.056 quintali), la Campania (2.852.882 quintali), la Sicilia (2.254.325 quintali). Con 28.950 ettari coltivati (quasi tutti in provincia di foggia), la Puglia supera il 34% della produzione nazionale, una percentuale che negli ultimi anni si è mantenuta pressoché inalterata. Nella «favolosa» annata del 2005 i quintali prodotti furono addirittura 21.575.500 e gli ettari coltivati 33.900. Il Tavoliere dei caporali, quindi, è uno dei cuori pulsanti della produzione mondiale di pomodoro.
Eppure, per capire la degenerazione del caporalato attuale, il volgersi dello sfruttamento in schiavismo, bisogna partire da un dato antropologico, prima ancora che economico.
I caporali che si mantenevano nell’alveo del «caporalato classico» prendevano, e hanno continuato a prendere anche negli ultimi anni, 50-60 centesimi di quei 3,50 euro. Più o meno 5 euro al giorno per ogni lavoratore che, moltiplicati per un’intera stagione e per un numero di almeno 50 dipendenti, producevano una somma considerevole. Certo, il caporale doveva poi pagare i suoi autisti, i suoi sorveglianti, la benzina, a volte l’affitto dei casolari; ma, pur detraendo queste spese, il guadagno rimaneva sempre piuttosto alto.
Il nuovo caporalato, quello globalizzato, ha fatto saltare questo schema nel momento in cui ha deciso di allargare la propria fetta, di spingere molto più in là la percentuale dei guadagni. Facendola arrivare in molti casi al 100%. I braccianti polacchi che hanno denunciato i propri sfruttatori hanno detto chiaramente, quasi tutti, di non essere mai stati pagati, o che tali erano le intenzioni dei «capi».
Qui nasce l’enorme differenza. È evidente che un trattamento del genere non lo si sarebbe mai potuto imporre al bracciantato «locale». Perché, anche nei paesi pugliesi dove il caporalato classico persiste, caporali e braccianti finiscono per essere parte della stessa comunità. Per quanto un sottile muro invisibile separi le loro funzioni, sia nei campi che nella vita del paese, il fatto stesso di essere originari della stessa comunità e soprattutto di continuare a vivere al suo interno, pone un argine al peggiore sfruttamento. Lo schiavismo brutale sarebbe controproducente e, percepito immediatamente come criminale, sarebbe prima o poi debellato. Giocando su questi margini il caporalato classico ha mantenuto quasi inalterata la propria forza per decenni, anche dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante le enormi trasformazioni del Mezzogiorno, la migrazione di massa verso il nord, l’urbanesimo impostosi su vasta scala, lo spopolamento delle campagne. I nuovi caporali, che hanno preso il posto degli italiani, questi margini li hanno ampiamente superati, e non perché siano più cattivi, o più «selvaggi», come si sente spesso dire nelle aule di giustizia o nelle redazioni dei giornali. Semplicemente non sono soggetti ai vincoli comunitari, alle regole del paese. Gestiscono un bracciantato globale e privo di ogni legame col territorio con il quale non condividono alcunché. Prelevati singolarmente, questi braccianti si ritrovano in uno spazio vuoto, lontano dai centri abitati, alla totale mercé di «controllori» che non devono rendere conto a nessuno della propria condotta.
I nuovi caporali hanno rapporti con i produttori, ma non con i paesi che lambiscono i campi su cui lavorano. Il loro obiettivo non è quello di difendere un istituto storico, cioè il vecchio caporalato, per preservarlo dai mutamenti storici e sociali affinché possano beneficiarne i figli e i figli dei figli. La loro prospettiva è a corto raggio: servirsi di quell’istituto in una terra lontana, fare tanti soldi in breve tempo e investirli altrove.
Perché questo accadesse è stato necessario che la loro brama di potere incontrasse la più grande mutazione antropologica degli ultimi vent’anni nel Mezzogiorno d’Italia. Con la loro irruzione i braccianti stranieri, sostituendo i figli dei braccianti pugliesi che non vogliono più lavorare la terra «a queste condizioni», hanno profondamente mutato il panorama rurale. Benché questi braccianti parlino la stessa lingua dei loro caporali (il polacco per i polacchi, il romeno per i romeni, il bulgaro per i bulgari, l’arabo – spesso – per gli africani...), sono del tutto «stranieri» ai loro occhi. Non li hanno mai visti prima, né mai li vedranno in seguito. Ed è questa doppia condizione di estraniazione (rispetto al paesino del tavoliere di cui non sanno niente e, soprattutto, rispetto al caporale con il quale, per quanto loro connazionale, non hanno alcun vincolo sociale, comunitario) che trasforma i braccianti in schiavi. Laddove non ci sono argini, mura protettive da erigere all’occorrenza, il caporalato degenera senza ostacoli in schiavismo, nel silenzio compiaciuto di chi vede allargarsi a dismisura i margini di profitto delle imprese agricole.

Il sindaco di Stornarella, Vito Monaco, ripete da tempo che il suo piccolo paese, in tutto cinquemila abitanti, d’estate si riempie di almeno duemila stranieri, giunti dall’Europa dell’Est e dall’Africa per la raccolta dei pomodori. Ogni anno all’improvviso si scopre che uno stornarellese su tre non è italiano. Parla un’altra lingua, vive il piccolo borgo come una giungla sconosciuta, si abbevera alle sue fontane, si tiene alla larga dai suoi bar e dai loro avventori. Vive altri posti, altri luoghi di ritrovo, più appartati, che lentamente fa propri. Stornarella non è un caso isolato. Lo stesso avviene in tutti i paesi e i borghi agricoli del Basso Tavoliere, tra Cerignola (il paese più grande, con i suoi quasi 60 mila abitanti) Ascoli Satriano, Stornara, Borgo Libertà, Orta Nova e, a oriente, San Ferdinando di Puglia, Tressanti, Borgo Mezzanone, Villaggio Amendola... Pare che ogni anno arrivino almeno 15 mila stagionali.
Ci sono ragazzi africani che di sera, dopo una giornata di lavoro in campagna, si raccolgono nella piazza centrale o davanti ai due, tre call center del paese. Bevono una birra, scambiano due chiacchiere, si danno appuntamento per l’indomani. In molti casi provengono dai noti centri di identificazione per richiedenti asilo di Bari Palese e Borgo Mezzanone, vicino Foggia, dove vengono raccolti a centinaia e poi rilasciati con un cedolino: il «pezzo di carta» attesta che non sono «clandestini» e che non possono, pertanto, essere espulsi. Ci sono famiglie di romeni che a grappoli attraversano l’agro in cerca di lavoro, giunte direttamente dalla Romania a bordo di macchine sgangherate e ricolme di bambini e masserizie varie. E poi ci sono i paria. Gli invisibili. Coloro che finiscono nei «campi di lavoro» e che solo di rado, una volta ogni due settimane, vengono portati, sotto il controllo del proprio caporale, a fare la spesa in un supermercato. Prendono un po’ di pane, un po’ di carne in scatola e qualche lattina di birra. Raccolgono questa poca roba in buste di plastica e ritornano silenziosi nei loro casolari lontani dai centri abitati. Sono loro la forza lavoro più ambita. Nel mondo rovesciato delle campagne pugliesi, gli europei poveri rendono più degli africani, accettano paghe che gli africani non accetterebbero mai. E se sono soli, senza le loro famiglie al seguito, rendono ancora di più.
Ci ho messo un po’ a capire perché ciò avvenisse. Poi, intervistando alcuni braccianti sudanesi, mi si è svelato l’arcano. Ho capito che, per un africano, una volta compiuto il Grande Viaggio che gli ha permesso di venire in Italia, l’obiettivo principale è quello di continuare a vivere nel Bel Paese. Per farlo, deve necessariamente andare alla ricerca di lavori che gli consentano di sopravvivere per tutto l’anno. Pertanto il sudanese (che spesso scende al Sud per la stagione agricola da Roma o da Milano) non accetterebbe mai meno di venti-venticinque euro al giorno. Non gli conviene, guadagnerebbe la stessa cifra come ambulante restando nella sua città.
Per il disoccupato polacco o romeno che può attraversare i confini dell’Ue senza essere spedito in un cpt, la prospettiva è radicalmente diversa. In genere non viene in Italia per stabilirsi, ma solo per lavorarvi alcuni mesi. Il suo obiettivo è tornare al proprio paese con i soldi, con un gruzzolo tale da affrontare il resto dell’anno lì. Ma il costo della vita, al suo paese, è di molto inferiore rispetto a quello che è costretto ad affrontare il sudanese a Roma o a Milano. Lui, l’europeo dell’Est, può permettersi di accettare una paga di 10 euro al giorno. ciò che per il sudanese è inammissibile, per lui è meglio di niente.
I nuovi caporali hanno fiutato la differenza, e ne hanno tratto un enorme vantaggio. Hanno stravolto il mercato e hanno cambiato una volta per tutte le vecchie modalità di intermediazione della manodopera. Hanno visto un piano inclinato, e l’hanno sfruttato fino in fondo.
Il caporalato classico non ha mai gestito i «campi di lavoro», come emerge invece dalle drammatiche testimonianze di chi è riuscito a scappare dai nuovi caporali o è stato liberato nei blitz delle forze dell’ordine. Il vecchio caporale andava in piazza o nei baretti dei borghi agricoli la sera prima, all’imbrunire, o la mattina presto, già prima dell’alba, e lì acquistava la forza lavoro di cui, per una giornata, si faceva mediatore. Tale mediazione, benché gestita da una posizione di forza, avveniva – si potrebbe dire – in un luogo neutro (la piazza del paese o un crocicchio di strade rurali) in cui chi voleva metteva sul banco le proprie braccia, in attesa di un sì o di no.
Tale sistema riguarda ancora una larga fetta delle campagne meridionali; sono ancora tantissime le donne italiane che ogni giorno vanno a lavorare in campagna, nella raccolta delle fragole o dei broccoli, dopo essersi accordate in questi termini con i propri caporali. Vengono dai paesi, dai quartieri periferici delle grandi città, dalle sacche di miseria ai bordi di Taranto, Bari, Brindisi. Negli ultimi anni, poi, proprio quando si pensava potesse entrare in crisi, l’antico istituto del caporalato è stato tenuto in vita dall’ingresso sulla scena foggiana di nuovi caporali dapprima magrebini, e poi provenienti anche da altre zone dell’Africa, che, allo stesso modo degli italiani, hanno preso a fare da intermediari per i loro connazionali.
Con l’irruzione dei lavoratori dell’Est c’è stato un salto verso il basso. Una regressione dalla vergogna all’orrore. Il caporale non va nei bar a contrattare, si sottrae a quel margine di incertezza, in cui è il caso a decidere chi o quanti quel giorno si offriranno. Ora prende la forza lavoro di cui necessita direttamente dalle aree più povere dell’Europa, la carica sui pullman e la trasporta in casolari isolati dal mondo e controllati militarmente. «Il campo era vigilato da guardie armate» si legge in più di una denuncia.
Così il caporale si sottrae anche a quel margine di incertezza e trasforma i suoi braccianti in polli da batteria, in schiavi da inviare lunedì su quel campo, martedì su quell’altro, mercoledì su quell’altro ancora... Non è più un semplice intermediario, diventa l’asettico gestore di un «campo di lavoro» più o meno organizzato, in cui i diritti minimi e ogni forma di ragionevolezza sono soppressi. In cui i braccianti sono ridotti a schiavi, e i loro corpi a «nuda vita» da afferrare, manipolare, violentare, piegare, sopprimere. Riempiendosi di questi «campi» fuori dalla legge, le lande agricole del Tavoliere non sono ritornate a un passato che si perde nella notte dei tempi. Al contrario, sono state catapultate nella postmodernità più cruenta, si sono viste precipitare verso un grado di sfruttamento di quella «nuda vita» quasi totalitario, che gli stessi caporali dei primi del Novecento, i «soprastanti» venerati e odiati nelle canzoni di Matteo Salvatore e in altre centinaia di canti di lavoro, avrebbero faticato a ideare.
A raccontare questo mondo sommerso sono stati i fuggitivi, i disertori. Ma il fatto che tutte le loro storie si concludano sempre con la liberazione, con un insperato lieto fine non deve indurre a pensare che sia facile scappare, che sia cosa ordinaria tagliare la corda. Per una storia, per una vita, di cui si viene a sapere, ce ne sono cento, mille, che rimangono sommerse, inconoscibili, incomunicabili. Come incomunicabili restano le storie di chi ha provato a scappare e non ha potuto farlo, perché è stato riacciuffato dai suoi aguzzini. Sono queste le storie che fanno più male. Quelle che non hanno visto la luce del racconto.

Il 18 luglio 2006, undici mesi dopo il blitz al Paradise, vengono arrestati dai carabinieri del Ros 27 caporali. Sedici sono fermati in Puglia, gli altri 11 in Polonia, su mandato di arresto europeo, in collaborazione con la polizia locale. Tra loro ci sono Janusz Niedzwiadek e Mariusz Poleszak, i «gestori del Paradise» di Orta Nova, e alcuni aguzzini al loro servizio; il caporale ucraino Petro Murmylo e i suoi uomini, quelli del casolare di San Carlo; un altro caporale algerino di nome Mohamed Habbeche e la sua banda; un italiano, Addolorato Pompeo Todisco; alcuni autisti; alcuni tra gli organizzatori dei viaggi dalla Polonia (Lukasz Zapal, Joanna Mroczka, Malgorzata Prokopowicz). Sono indagati per «associazione a delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani e alla riduzione in schiavitù».
In genere a operazioni come queste vengono dati i nomi più strampalati, quasi ci fosse in qualche stanza di ogni questura o comando dei carabinieri un creatore di titoli che pretende il copyright su tali strambe invenzioni. Questa volta all’operazione del Ros viene dato il nome «Terra Promessa», e per quanto possano risultare un po’ provinciali, non potevano esserci forse, nella loro semplicità, parole più appropriate.
Tra il blitz dell’agosto 2005, con la raccolta delle prime denunce, e gli arresti passano parecchi mesi di intercettazioni telefoniche e di indagini sul campo che permettono di ricostruire l’organigramma del nuovo caporalato.
Agli inizi del 2006, tra gennaio e febbraio, c’è una svolta nelle indagini. In seguito alle costanti pressioni da parte delle autorità polacche e al tam tam delle denunce raccolte dal consolato di Bari, la Direzione distrettuale antimafia del capoluogo pugliese riunisce i singoli procedimenti, le singole denunce che hanno a che fare con la «questione polacca», in un unico fascicolo di inchiesta. In tal modo il Ros, accentrando le attività di indagine, e in stretta cooperazione con la polizia polacca, si mette sulle tracce dei caporali. Intercetta le loro utenze telefoniche.
Contemporaneamente il caso Paradise produce, per imitazione, i suoi effetti. in pochi mesi vengono raccolte in Polonia oltre 600 denunce. Si tratta di lavoratori stagionali che, nel momento in cui le prime crepe si sono aperte, hanno cominciato a confermare quanto i primi denuncianti, a Orta Nova, a Bari, a Castellana Grotte, avevano già detto. A impressionare è il numero, anche perché agli inquirenti appare subito evidente che i 600 uomini e donne sono solo la punta dell’iceberg, non esauriscono affatto le file dell’esercito degli sfruttati.
La mole delle dichiarazioni raccolte permette alla Dda di Bari di integrare i propri materiali, pervenendo più facilmente all’identificazione di quei personaggi chiave che ritornano ciclicamente nei racconti, e alla procura di Cracovia di aprire un unico procedimento sull’organizzazione dei viaggi. Come era già chiaro dalle dichiarazioni dei primi denuncianti, l’ingaggio-truffa in Polonia e le condizioni subumane nei casolari pugliesi – la «promessa» e la «terra» – costituiscono le due facce della stessa medaglia, strettamente correlate tra loro, tanto che risulta impossibile comprendere un lato della vicenda senza averne studiato anche l’altro.
È un crimine economico, produttivo, transnazionale quello che irrompe nelle campagne pugliesi. E nella nota stampa rilasciata subito dopo gli arresti si precisa che il controllo degli operai è stato assicurato, nel tempo, da una capillare vigilanza armata. i tentativi di fuga, continua il testo, sono stati sanzionati «con violente punizioni corporali, tanto da trasformare i luoghi di lavoro in veri e propri lager».
Forse l’estensore della nota avrà usato quella parola, «lager», mettendola per giunta in corsivo, a cuor leggero. Ma l’utilizzo di quel vocabolo tedesco (con tutta la violenza assoluta, inenarrabile che implica) in Polonia ha l’effetto di un terribile shock. La Polonia è il paese dei campi nella Seconda guerra mondiale, il paese di Oswiecim, il campo di concentramento più tristemente noto con il nome di Auschwitz, non molto lontano da Cracovia, la città dove viene istituito il procedimento parallelo a quello di Bari, e da Katowice, la città da cui sono partiti molti dei pullman diretti nel Tavoliere. Il termine lager evoca il passato che non si deve evocare.
È questo il principale motivo per cui, mentre in Italia la notizia «storica» dell’arresto dei caporali attira l’attenzione solo della stampa pugliese, venendo relegata a margine (in trafiletti di poche righe) su quella nazionale, in Polonia la conferenza stampa successiva al blitz viene trasmessa in diretta da tutte le principali emittenti televisive del paese. È lo stesso ministro dell’interno, Ludwik Dorn, a parlare alla nazione davanti alle telecamere, comunicando tutto il suo sconforto per il fatto che «nel XXI secolo possano ancora esistere campi di lavoro e gente ridotta in schiavitù».
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