Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 ottobre 2010

Sbarco di clandestini alle porte di Roma
Peschereccio fantasma arrivato dalla Libia. Fermati 25 egiziani, altri 30 si sono dileguati
la Repubblica 5 ottobre 2010
Massimo Lugli
LATINA - La "Amir Sabri" è andata ad arenarsi col motore acceso, la marcia innestata e il timone legato, sulla spiaggia di Foce Verde, in località Capoportiere, a una settantina di chilometri di Roma. A bordo, una cinquantina di nordafricani, che avevano viaggiato per dieci giorni in mare aperto (probabilmente seguendo un cargo d'appoggio per sfuggire ai radare ai controlli) dalla Libia fino al largo della Sicilia, poi verso nord, in direzione della Sardegna e infine a ovest, lungo una nuova, inquietante, rotta della disperazione che approda alle coste laziali. Gli scafisti, quasi certamente, si sono dileguati con un'imbarcazione d'appoggio mentre, a terra, altri componenti dell'organizzazione aspettavano con un gommone rubato tre giorni fa e pacchi di viveri comprati in Italia. Una spedizione di prova, un primo tentativo di saggiare la nuova strada tutta da percorrere, dopo il blocco delle rotte per Lampedusa: questa l'ipotesi su cui stanno lavorando il questore di Latina Nicolò D'Angelo e il colonnello Pierluigi Rinaldi, comandante del reparto operativo.
Mai, prima di ieri mattina, i clandestini erano sbarcati cosìa nord, nei pressi della capitale.
Venticinque immigrati egiziani, tutti uomini dai 20 ai 40 anni a parte due ragazzi di 14 e 16, sono stati raggiunti quasi subito da carabinieri e polizia. Alla vista delle divise, gli stranieri non hanno neanche tentato la fuga e sono stati accompagnati in caserma.
Nessuno, stranamente, ha chiesto asilo politico: un escamotage che blocca il rimpatrio e offre buone possibilità di fuga nell'attesa degli accertamenti del ministero. Alcuni verranno rimpatriati nelle prossime ore con un volo diretto, gli altri sono stati provvisoriamente sistemati in un'area attrezzata della zona. Le loro condizioni di salute, nonostante il lungo viaggio in mare sul motopeschereccio (battezzato con un nome proprio che ha il poetico significato di "Principe della pazienza") sono sorprendentemente buone e nessuno ha avuto bisogno di un ricovero in ospedale. Niente documenti, niente soldi: gli stranieri parlano solo arabo e raccontano versioni diverse. Quasi certamente sono partiti da un porto vicino Tripoli e avrebbero pagato circa 2.500 euroa testa. Chi indaga pensa che una trentina di clandestini siano riusciti ad allontanarsi, probabilmente a bordo del gommone e si siano sparpagliati in tutto il Lazio. Quattordici di loro sono stati rintracciati a Latina, gli altri erano undici già arrivati ad Anzio, a 24 chilometri di distanza.
Lo sbarco, che potrebbe essere solo il primo di una nuova serie, è avvenuto verso le 4 del mattino.
Un'ora e mezzo dopo un pescatore ha visto la "Amir Sabri" incagliata di lato a poca distanza dalla riva, come una balena spiaggiata, e ha chiamato il 112. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e, subito dopo, polizia, guardia di finanza, ambulanze e protezione civile. I nordafricani sono stati rifocillati sul posto e successivamente accompagnati in caserma. Tutti, probabilmente, erano stati indottrinati su come comportarsi davanti alle divise e hanno parlato il meno possibile.
«Si esclude che lo sbarco possa rappresentare la creazione di nuove rotte per l'immigrazione» rassicura una nota del Viminale ma è subito polemica. «Bisognerà aspettare uno sbarco a Ostia perché il governo smetta di fare proclami e intervenga seriamente?» attacca Marco Pacciotti, coordinatore del Forum immigrazione del Pd. «È la riprova che sull'immigrazione clandestina Berlusconi e Maroni sanno fare solo propaganda» incalza Pier Filippo Penati, capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, mentre secondo il commissario straordinario della Croce Rossa, Francesco Rocca, «le rotte dell'immigrazione stanno cambiando ed è un fenomeno che va analizzato e compreso e non sottovalutato».



Così si aggirano i controlli la mappa delle nuove rotte

la Repubblica 5 ottobre 2010
Vladimiro Polchi
ROMA - Riace, Sant'Anna Arresi, Santa Maria di Leuca, Foce Verde. Quella degli approdiè una mappa in continua evoluzione: cambiano le rotte, non si fermano gli sbarchi d'irregolari. È la legge dei vasi comunicanti.
Chiudi il canale di Sicilia? I flussi migratori scelgono altre mete: Calabria, Puglia, Sardegna e ora Lazio. «È il fallimento della politica dei respingimenti», accusa la Caritas. Il Viminale si è affrettato a escludere che lo sbarco di ieri alle porte di Roma «possa rappresentare la creazione di nuove rotte per l'immigrazione», ma al ministero alcuni tecnici non negano la preoccupazione per «un natante con scritta in arabo, che ha navigato indisturbato fin quasi alla capitale senza venire intercettato», oltre a riconoscere «la brutta figura a livello di immagine per la politica dei respingimenti». Una cosa è certa: il calo degli arrivi via mare è drastico (l'88% in meno secondo il Viminale). Ma gli sbarchi non si fermano. A luglio, nonostante l'accordo con la Libia nel canale di Sicilia, almeno 350 immigrati sono approdati nell'isola. A settembre sono ripresi anche gli sbarchi sulle coste della Sardegna sud-occidentale: in due giorni sono arrivati 66 africani partiti dall'Algeria. Sempre più battuta è poi la tratta che passa dalla Turchia e arriva in Grecia: qui gli immigrati si imbarcano su traghetti di linea a Patrasso o Igoumenitsa e, nascosti dentro a tir, arrivano nei porti di Ancona, Bari e Venezia. Ma l'estate ha registrato un aumento degli sbarchi anche in Puglia (Otranto, Santa Maria di Leuca) e Calabria (Riace).
«L'asse con Tripoli ha portato a una riduzione del flusso migratorio dal nord Africa - conferma Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas - ma ha sviluppato la ricerca di nuove rotte. Come quelle via terra che passano dalla Turchia e dalla Grecia, via Albania, ma anche tante altre. Ad esempio chi entra nel nostro Paese con il visto turistico e poi vi rimane».
Per il portavoce italiano dell'Unhcr, Laura Boldrini è «prematuro pensare che lo sbarco a Latina rappresenti una nuova rotta», ma è altrettanto evidente che l'accordo Italia-Libia «non può fermare tutti i flussi migratori nel Mediterraneo». Quello che è cambiato è la nazionalità degli arrivi: «Per somali, eritrei, nigeriani, sudanesi, ghanesi, che attraversavano il canale di Sicilia, non ci sono infatti rotte alternative. Nel 2008 il 50% di loro ha ottenuto una qualche forma di protezione umanitaria. Questo spiega perché i respingimenti indiscriminati hanno fatto crollare drasticamente le domande d'asilo.
Sulle nuove rotte, come quelle dai porti greci, arrivano in maggioranza afgani, iracheni, curdi e iraniani. La Sardegna, invece, è la meta dei maghrebini, che partono generalmente dall'Algeria».
«L'accordo con la Libia ha senz'altro diminuito gli sbarchi, ma anche i diritti - sostiene Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati - e ha spinto i migranti su altre rotte». Non manca però una notizia positiva. «Da metà luglio - racconta Hein - i centri di detenzione libici sono vuoti, in seguito alla liberazione di 4 mila trattenuti, che hanno ottenuto un permesso di tre mesi. Ma i richiedenti asilo restano senza tutela e protezione, prigionieri in un Paese di transito, senza poter tornare a casa, dove rischierebbero la vita, né arrivare in Europa».



Il nuovo sbarco di Anzio lo fanno i clandestini

il Giornale, 05-10-2010
Patricia Tagliaferri
Roma È l’alba quando Anzio, città sul mare a 70 chilometri da Roma, è teatro di un nuovo «storico» sbarco. Non sono le truppe alleate, questa volta, a toccare terra sul litorale laziale, ma un piccolo esercito di immigrati in arrivo da un paese del nord Africa a bordo di una carretta arrugginita camuffata da peschereccio.
Hanno attraversato il Tirreno bucando ogni tipo di controllo dal cielo e dal mare e trovato sulla spiaggia di Latina, a Capoportiere, pacchi pieni di viveri e vestiario. Un viaggio, dunque, organizzato e pianificato da una qualche organizzazione che ha fornito supporto agli stranieri - la maggior parte egiziani, palestinesi e tunisini arrivati in Italia dopo una traversata di dieci giorni e dietro pagamento di una somma non inferiore ai duemila euro - anche dopo lo sbarco. Le forze dell’ordine ne hanno identificati 25, tra di loro due minorenni di 14 e 16 anni, che ora verranno rimpatriati, ma l’imbarcazione poteva trasportarne almeno una settantina. È possibile che gli altri abbiano fatto perdere le loro tracce utilizzando gommoni d’appoggio. Uno, quello con il quale sono stati fatti scendere dopo che il peschereccio si era incagliato a 30 metri dalla riva a causa del fondale basso, è stato trovato poco distante. Era stato rubato tre giorni fa nel capoluogo pontino. Dettagli che fanno pensare a uno «sbarco anomalo», sottolineano gli investigatori. Nuove rotte? «È ancora presto per parlarne», dicono. Ma il dipartimento di Pubblica sicurezza «esclude la creazione di nuove rotte per l’immigrazione».
Certo è che nel Lazio uno sbarco del genere non si era mai visto. «È un fatto che ci deve far riflettere: le rotte stanno cambiando ed è un fenomeno che va analizzato, compreso e non sottovalutato», osserva Francesco Rocca, commissario straordinario della Croce Rossa, che ha allestito un campo e sta fornendo assistenza sanitaria e supporto psicologico agli immigrati. «Ci sono segnali inquietanti - sottolinea Rocca - come la presenza di appoggi a terra e il fatto che tutto ciò accada in un territorio fortemente infiltrato dalla criminalità». Per Laura Boldrini, portavoce italiano dell’Alto commissario per i rifugiati dell’Onu, è «prematuro pensare che lo sbarco a Latina rappresenti una nuova rotta», anche se è evidente che l’accordo tra Italia e Libia «non può fermare i flussi migratori nell’intero bacino del Mediterraneo e qualsiasi accordo bilaterale tra stati per il contrasto all’immigrazione irregolare può causare il cambiamento delle rotte».
La barca, di venti metri, non esponeva alcuna bandiera di appartenza e sulla fiancata aveva una scritta in arabo. Eppure è riuscita a eludere i controlli delle autorità marittime raggiungendo il litorale pontino. L’allarme è stato dato intorno alle cinque di ieri mattina, quando un peschereccio ha notato l’imbarcazione sospetta, da cui fuoriusciva fumo, e ha avvertito la Guardia costiera. All’arrivo delle forze dell’ordine molti immigrati si erano già allontanati in piccoli gruppi. Sul posto ne sono stati bloccati 14, altri 11 sono stati fermati nella tarda mattinata ad Anzio. Alcuni erano sulla spiaggia, altri passeggiavano nelle strade del centro. Indagini sono in corso per capire come siano arrivati fin lì, ma anche sul peschereccio, sulla rotta che ha seguito e sul luogo di partenza. Per ora nessuna traccia degli scafisti.



MIGRANTI • Si trovano in Grecia e Turchia i porti dai quali partono le imbarcazioni con i «clandestini». Ma non manca chi arriva in aereo
Nuove rotte e carrette, così i trafficanti vanificano i controlli del Viminale
il manifesto, 05-10-2010
ROMA - Il Viminale smentisce che il peschereccio approdato ieri sulle coste laziali, a una manciata di chilometri da Roma, abbia inaugurato l'ennesima nuova rotta aperta dai trafficanti di uomini dopo la chiusura del canale di Sicilia. Eppure la vecchia imbarcazione, lunga venti metri e piuttosto malconcia, rappresenta comunque un giallo per gli esperti del ministro Maroni. Intanto perché nonostante le sue condizioni ne rendessero evidente il suo carico umano, inspiegabilmente non ha insospettito neanche una delle navi della Guardia costiera o della Guardia di finanza che pattugliano le coste italiane con il compito anche di fronteggiare l'immigrazione clandestina. E poi perché, nonostante le smentite d'ufficio del ministero degli Interni, che lo sbarco avvenuto a Latina non sia casuale o frutto di un errore è provato dai primi accertamenti fatti dagli inquirenti, che hanno dimostrato l'esistenza a terra di almeno un basista con il compito di accogliere gli immigrati rifornendoli di cibo e vestiti.
Il fatto è che il discutìbile accordo fatto dal governo Berlusconi con la Libia del colonnello Gheddafi ha sì ridotto notevolmente il numero degli sbarchi sulle coste dell'isola siciliana di Lampedusa (passati effettivamente dai 29 mila del periodo agosto 2008-luglio 2009 ai 3.499 del luglio 2010) ma solo perché il traffico di uomini si è spostato su altre sponde e lungo altre strade. L'estate che ci siamo appena lasciati alle spalle è stata segnata infatti da un'intensificazione degli sbarchi soprattutto lungo le coste calabresi e pugliesi. Non potendo più passare per il canale di Sicilia, le organizzazioni criminali hanno infatti optato per un altro canale, quello di Otranto, riaprendo una vecchia rotta utilizzata dai profughi curdi negli anni '90. Punti di partenza di questi nuovi tragitti sono la Turchia e la Grecia, paesi con cui, non a caso, il ministro Maroni sta tentando di arrivare alla stesura di un accordo per il contrasto dell'immigrazione clandestina simile a quello fatto con la Libia. Se Gheddafi per trasformarsi nel gerdarme del Mediterraneo ha preteso dall'Italia un risarcimento milionario per le conseguenze provocate dal colonialismo, in questo caso la contropartita, almeno per la Turchia, potrebbe non limitarsi al solo fattore economico, ma offrire un appoggio ancora più deciso per il suo ingresso in Europa.
E chi può arriva direttamente in aereo, con un regolare visto turistico salvo poi diventare clandestino alla sua scadenza. E' stato proprio Maroni, a luglio, a denunciare come proprio l'aeroporto di Malpensa «è la frontiera più avanzata per l'ingresso di immigrati clandestini». A ulteriore dimostrazione - se pure ce ne fosse stato bisogno - di come politiche esclusivamente repressive e xenofobe servano ben poco.



Allarme immigrazione
I clandestini sbarcano a 80 km dal Parlamento
Libero, 05-10-2010
Filippo Manfredini
Barcone arriva davanti a Latina, fermati venticinque egiziani "Bucati" tutti i controlli. Il Viminale: non ci sono nuove rotte
ROMA -  Che le rotte dei barconi carichi di clandestini stiano rapidamente cambiando, dopo gli accordi con la Libia e il sostanziale azzeramento di quelli diretti in Sicilia, è un fatto. Negli ultimi mesi, per esempio, si sono verificati episodi del genere in Sardegna - in particolare nei pressi di Santa Margherita di Pula e Sant'Antioco - e sulle coste salentine e anche in Calabria (ma questo è meno sorprendente). E però fa davvero impressione quest'ultimo sbarco nel Lazio, il primo mai registrato nella regione. In località Foce Verde di Capoportiere, una decina di chilometri dal centro di Latina. E si capisce che - se si può parlare di déja vu davanti alle immagini della malmessa imbarcazione spiaggiata e alla disperata fuga dei clandestini, parecchi dei quali sono stati rintracciati e fermati - l'episodio assume tutt'altra prospettiva aggiungendo la considerazione che, questa volta, la vicenda s'è svolta a soli ottanta chilometri dal centro di Roma. Uno sbarco di clandestini a ottanta chilometri dal Parlamento: sconcertante.
Una cinquantina potrebbero essere gli stranieri sbarcati intorno alle tre del mattino di ieri, cifra del tutto ipotetica. Verso le sei le prime segnalazioni ai Carabinieri, che sono intervenuti fermando complessivamente venticinque egiziani, alcuni dei quali erano riusciti a spingersi fino ad Anzio. In virtù degli accordi bilaterali con l'Egitto, saranno immediatamente rimpatriati. «Sulla spiaggia sono stati trovati
pacchi con cibo e vestiti - spiegano gli inquirenti - e dunque non si esclude che lo sbarco fosse appoggiato anche da terra». I mezzi di Carabinieri e Guardia di Finanza e Guardia Costiera hanno poi per tutto il giorno pattugliato il mare di fronte al litorale pontino, per eventualmente intercettare altre imbarcazioni. Per ora niente.
APPOGGI A TERRA
In base ai primi racconti, il viaggio sarebbe durato una decina di giorni, pagamento non meno di 2mila euro, e oltre al peschereccio palestinese in legno con scritte in arabo incagliato a pochi metri dalla spiaggia, si pensa sia stato utilizzato anche un gommone. Forse per le operazioni di sbarco, visto che ne è stato trovato uno un centinaio di metri dalla barca, risultato rubato in zona tre giorni fa. Elemento che, dunque, avvalora l'ipotesi di un'organizzazione in grado di pianificare l'intera operazione. E che sia riuscita a farlo in una regione così lontana dalle consuete "rotte dei disperati" suscita più d'una preoccupazione: la bagnarola è riuscita a "bucare" tutti i controlli, dal cielo e in mare, percorrendo evidentemente indisturbata centinaia di miglia marine. Peraltro, secondo il comandante della squadra nautica della Capitaneria pontina, «questo tipo di barche può portare anche fino a duecento persone, e non è detto che lo sbarco sia avvenuto in più punti della costa». È al vaglio anche l'ipotesi che i clandestini non ancora rintracciati siano stati trasportati con altri gommoni in altri punti del litorale.
I DATI DEL MINISTERO
Sempre in base alle prime testimonianze rese dai clandestini, si sta cercando di capire da dove sia partito il motopeschereccio. Si parla della Tunisia, ma per la verità non si esclude sia salpato proprio dalla Libia, cosa che innescherebbe inevitabili polemiche. Come quella che oppose, lo scorso agosto, la Caritas al governo. Mentre la prima esprimeva preoccupazione proprio per la ripresa degli sbarchi sia pur su rotte diverse, il ministro dell'Interno Maroni replicava che «a fronte dei 29.076 immigrati arrivati sulle coste italia -ne dal 1 agosto 2008 al 31 luglio 2009, nell'ultimo anno sono stati invece 3.499 quelli sbarcati». In ogni caso, ieri è stato il Commissario straordinario della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, a parlare di «rotte dell'immigrazione che stanno cambiando, ed è un fenomeno che non va sottovalutato». D'altro canto, il Dipartimento di pubblica sicurezza del Viminale esclude «che tale sbarco possa rappresentare la creazione di nuove rotte per l'immigrazione ma l'approdo sul litorale latino è stato possibile solo in virtù della particolare conformazione del natante». E mentre il Partito Democratico attacca frontalmente il governo, con il responsabile-immigrazione Marco Pacciotti a rimarcare come «i recenti roboanti proclami sul quasi azzeramento degli sbarchi vengono nei fatti smentiti per l'ennesima volta», anche Laura Boldrini, portavoce italiano dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Orni (Unhcr), sottolinea come sia «prematuro pensare che lo sbarco a Latina rappresenti una nuova rotta» per coloro che che vogliono raggiungere l'Europa, anche se appare evidente che l'accordo tra Italia e Libia «non può da solo fermare tutti i flussi migratori nell'intero bacino del Mediterraneo».



L'assessore
«Il fenomeno non è risolto il governo ha torto»

Dnews, 05-10-2010
» È la prima volta che accade nel Lazio. Segno che «il fenomeno degli sbarchi clandestini non è risolto, a differenza di quanto affermi il governo». L'assessore alle Politiche sociali della Regione, Aldo Forte mette i puntini sulle "i" su quanto avvenuto ieri a Latina, dove sono sbarcati una cinquantina di immigrati, la maggior parte dei quali si sono dati alla fuga subito dopo essere approdati sulla costa. «Gli scafisti, a quanto pare, si stanno organizzando e stanno cambiando le loro rotte - continua Fortementre non cambia l'entità del problema, che chiama in gioco i difficili temi della sicurezza e dell'integrazione».
Sul tema, la governatrice della Regione Lazio, Renata Polverini, si limita a dichiarare di essere «in costante contatto con il prefetto di Latina il quale mi ha rassicurato che la situazione è seguita con la massima attenzione». «Anche in questo caso - aggiunge - la protezione civile regionale è intervenuta per garantire gli aiuti di primo soccorso». I consiglieri provinciali del Pd Paolo Bianchini e Marco Palumbo sottolineano come «lo sbarco degli immigrati a Latina dimostri tutta la cecità, il fallimento delle politiche di Maroni e della Lega sui respingimenti e fa emergere la verità di una situazione fuori controllo».



L'INTERVISTA
La Caritas: «Fallita la politica dei respingimenti»

Messaggero, 05-10-2010
ROMA - Franco Pittau è il coordinatore del Dossier statistico Immigrazione della Caritas. Dal 1991 segue la materia, dunque pochi sono più esperti di lui nell'osservazione dei flussi migratori. Gli chiediamo se sia rimasto sorpreso dallo sbarco dei clandestini sulle coste del Lazio. Risponde serafico: «Sorpreso? No. Questo vuol dire che, nonostante tutti i controlli marittimi, le esigenze dei disperati rimangono».
Sbarcare nel Lazio, invece che a Lampedusa o a Crotone, significa fare molte miglia marine in più...
«E significa veder aumentare il pericolo. La rotta più lunga, infatti, fa crescere pure i rischi. E cresce anche il prezzo del "biglietto". Molti, per pagarsi il viaggio, chiedono soldi a tutti i parenti e le famiglie si impoveriscono ulteriormente per permettere a un figlio, un nipote, di fare il viaggio in Europa».
A Lampedusa il fenomeno-sbarchi è stato azzerato. Come giudica questo fatto?
«Nel 2008 ci sono stati quasi 37.000 arrivi a Lampedusa, oggi siamo a zero. Possiamo perciò dire di aver risolto il problema dell'immigrazione clandestina? La risposta è no. I respingimenti non servono».
£ come si risolve il problema, secondo lei?
«Gli sbarchi riguardano solo una mìnima parte dei clandestini. Ogni anno, in Italia, entrano 30 milioni di turisti. Ogni anno viene rilasciato un milione e mezzo di visti. Tra questi ce ne sono molti che, una volta entrati nel nostro Paese, fanno poi perdere le loro tracce. Io dico: i controlli vanno bene, ma dobbiamo dare le necessarie garanzie ai richiedenti asilo. E dobbiamo rendere più "appetibile" la condizione di lavoratori regolari».



Il Governo studia  regole  più severe

la Padania, 05-10-2010
PAOLO BASSI
Nelle nostre città non sorgeranno nuovi minareti fino a quando non ci saranno norme chiare che disciplinino l'apertura dei luoghi di culto delle religioni che non hanno sottoscritto un accordo con lo Stato. La linea del Governo è stata ribadita ieri dal ministro dell'Interno nel corso di un intervento alla trasmissione televisiva Mattino 5. «Servono regole certe per la costruzione di nuove moschee», ha spiegato Roberto Maroni rispondendo in merito alle polemiche che sono tornate ad accendersi a Milano a proposito della richiesta di avere un nuovo spazio in città avanzata dalla comunità musulmana. «Il sindaco Moratti dice che non la farà se non ci sarà prima un'iniziativa del governo», ha detto l'esponente di palazzo Chigi, aggiungendo che: «Questa iniziativa consiste nel definire regole da applicare in circostanze come questa, per garantire la libertà di religione senza ledere i diritti dei cittadini e le norme che regolano la vita all'interno di un Comune». Il Carroccio da tempo persegue l'obiettivo di colmare il vuoto normativo al riguardo. In Parlamento aspetta di essere discusso un disegno di legge che mira proprio a questo risultato. Il ddl, i cui primi firmatari sono Andrea Gibelli e Roberto Cota, chiede fra le altre cose che la costruzione di una nuova moschea passi sempre attraverso la consultazione dei cittadini del territorio che la dovrà ospitare attraverso un referendum popolare. Nonché vengano rispettate alcuni criteri, come una distanza minima da altri luoghi di culto. Un ddl che presto verrà presentato, sempre dall'ex presidente della commissione Attività produttive di Montecitorio, anche in Regione Lombardia.
«La nostra proposta di referendum non riguarderà il diritto e la libertà di professare una religione», precisava il vice-presidente del Pirellone solo poche settimane fa, «ma la consultazione già prevista dalla Costituzione nel caso di mancata intesa tra lo Stato e una confessione religiosa. In questo caso, la sovranità appartiene al popolo. Visto che in oltre sessant'anni non è stato possibile raggiungere un accorso tra l'Italia e la religione dell'Islam. Inoltre, ricordo che lo strumento del referendum è previsto dal nostro statuto regionale».
Un altro capitolo sul quale la Lega intende fare chiarezza attraverso la sua proposta è in-trodurre una distinzione più stringente tra i luoghi di culto e i centri sociali o culturali che nell'attuale legislazione sono messi sullo stesso piano. «Non si potrà più pregare in locali destinati ad attività culturali - ha chiarito Gibelli - . Adotteremo il modello in vigore in Egitto, rivendicando il principio della reciprocità. Un chilometro di di-stanza tra un luogo di culto e l'altro. Non sulle vie principali o a ridosso delle fermate dei mezzi pubblici».
Infine un tasto sul quale il movimento di Umberto Bossi intende continuare a battere è quello della reciprocità. Non si può infatti pensare che i musulmani in Italia possano arrogarsi il diritto di rivendicare dei diritti che nei loro paesi sono totalmente negati a chiunque non sia seguace di Maometto. Persino negli Stati considerati "moderati" come l'Egitto, la professione della religione cristiana è soggetta a fortissime limitazioni. Senza riconoscimento di pari libertà, secondo il Carroccio, non ci può essere dialogo.



LA PAKISTANA RIBELLE
"Nosheen non voleva sentirsi una schiava"

La Stampa, 05-10-2010
La rabbia delle amiche: "Diceva: mi sposo solo per amore"
Reportage
PIERANGELO SAPEGNO
INVIATO A NOVI (Modena)
Gli occhi di Nosheen sono l'unica cosa che potevi vedere quando andava a scuola salendo le scale con la testa china nella sua veste lunga e il velo bianco sul volto, e sono l'unica cosa che hanno visto domenica pomeriggio quelli come Raif, che sono accorsi in questo straccio d'orto, guardandola stesa sulla terra dove suo padre Khan Butt Ahmad aveva seminato le patate, vicino alla tettoia di lamiera, con il braccio maciullato appena sollevato per chiedere aiuto e la testa coperta dal sangue che si spargeva. «Ma aveva gli occhi vivi», ha detto Raif, occhi di ragazza, neri, dolci e spauriti. E anche sua madre, Begam Shanhaz, riversa un poco più in là, «dove c'è la bombola del gas», sotto le viti dell'uva, accanto alle scale poggiate di sbieco contro il muro di mattoni a vista, anche lei era viva: sarebbe morta dopo, mentre la portavano in ospedale.
Madre e figlia sono state massacrate inermi, ferocemente sprangate e lapidate dal padre e da Humair, il fratello più giovane di Nosheen, donne senza difesa e senza giustizia, senza nessuno che urlasse a questo raccapriccio neanche dopo, quando i vicini di casa, pachistani pure loro, accorsi alle grida e all'orrore di quella violenza, allontanavano i curiosi dicendo che «era una cosa che non li riguardava, che era una lite in famiglia», e neanche adesso, alla fine, perché non ci sono femministe, e non ci sono scandali, ma quasi rassegnazione, come quella del sindaco di Novi, Luisa Turci, che dice che «sì, qualche problema era stato evidenziato, ma certo nulla che potesse far presumere una cosa di questo genere».
La mamma era andata dai carabinieri due mesi fa perché il marito picchiava. Poi non aveva fatto denuncia. Il suo era stato un matrimonio combinato, come molti nel suo Paese, in Pakistan, e lei continuava a ripeterlo a sua figlia: «Non devi fare come me. Tu ti devi sposare per amore». Nosheen non è Hina e non è Sanah, ma come loro è vittima di un mondo affacciato alle nostre porte, dove la donna è costretta in schiavitù. Nosheen non è una ribelle. E' musulmana praticante e aiuta la mamma «a preparare le feste religiose», come spiega una delle amiche pachistane, Nochen Lyas, raccontando che era Begam Shanhaz «che aveva il compito di organizzarle. Faceva il giro a chiamare le altre donne, a raccoglierle tutte per la preghiera, e Nosheen l'accompagnava sempre».
Una compagna di classe, Giulia, dice che «è una ragazza molto seria. Non avvicinava mai i ragazzi. Portava sempre il velo, anche quando veniva a scuola. Vestiva solo nel modo tradizionale pachistano». Non si confidava con nessuno, era molto chiusa e parlava soltanto con pochissime amiche, «ma una cosa la ripeteva a tutti», aggiunge Giulia, ed era «che lei si sarebbe sposata per amore». E' stata massacrata per questo, per aver detto al padre che non voleva sposare il cugino che voleva lui, per aver difeso il solo ideale che unisce tutte le donne del mondo. L'unica sua amica italiana che riusciva a frequentare e che adesso la aspetta camminando nervosamente nei corridoi dell'ospedale di Modena - dove Nosheen lotta ancora contro la morte - confessa che «un amore ce l'aveva» ed era un ragazzo italiano. L'aveva conosciuto un giorno per caso e avevano girato un video, un piccolo filmato dove sorridevano appena. Ma Nosheen era troppo timida e ancora così ingenua perché quello non fosse altro che un piccolo, grande amore platonico.
Il fatto è che aveva «enorme rispetto per la famiglia» e «terrore del padre», racconta l'amica. Una volta che le stava facendo vedere il filmato con le immagini del suo amore nascosto, «a un certo punto ha spento tutto e buttato via di corsa il video solo perché credeva che fosse arrivato suo papà». Khan Butt Ahmad, 53 anni, da dieci in Italia, operaio saldatore in una ditta di Soliera, è un uomo magro, alto, «con uno sguardo e dei modi persino miti», come ricorda Sergio Pagani, il preside dell'Istituto Vallauri di Carpi dove Nosheen aveva frequentato fino al terzo anno con ottimi risultati: «Lui voleva che lei restasse a casa e non venisse più a studiare. Allora l'ho chiamato e quando l'ho incontrato sono riuscito a convincerlo. M'era sembrato un bravuomo».
Le ha fatto finire l'anno scolastico e poi però non l'ha più rimandata. Il problema non è essere buoni o cattivi, ma quello di un mondo che concepisce la donna come una schiava. Nosheen aveva sempre detto di sì al papà, perché così doveva fare. Il giorno che ha detto di no, che non voleva sposare il cugino imposto da lui, il giorno che l'ha urlato, lui ha cominciato a lapidarla, e quando la madre è intervenuta per difenderla l'ha massacrata a pietrate, mentre suo figlio prendeva a sprangate Nosheen, picchiandola in testa con violenza. Adesso Mohammed Arif e Raja e tutti i vicini di casa pachistani ripetono a tutti che «l'Islam non c'entra niente. E' un brutto episodio, ma non metteteci di mezzo la religione. Non c'è scritto da nessuna parte che la figlia deve sposare chi vuole suo padre». Solo che Lashid, un ragazzino appoggiato al muro, dice che è brutto ma che è così. Se suo padre glielo imponesse, lui direbbe di «sì». Lo mormora a testa bassa, quasi sottovoce, come un amore che si nasconde e non si urla. Domande & risposte in ultima pagina



Modena E grave la figlia della pakistana uccisa
Nosheen è in coma Al padre diceva: «Sposerò chi amo»

Corriere della Sera, 05-10-2010
Francesco Alberti
Portava il velo ma sulle nozze voleva restare libera
NOVI (Modena) — Adesso hanno capito le compagne di scuola. Hanno capito cosa si nascondeva dietro quella frase che Nosheen spesso ripeteva quando, tra una lezione e l'altra all'istituto di moda «Vallauri» di Carpi, il conversare tra ragazze toccava l'argomento «maschi e filarini», con annesse battute. Nosheen ascoltava, il viso dolce e lo sguardo intenso incorniciati in quel velo che portava sempre («Perfino durante l'ora di ginnastica» racconta un'insegnante), e quando le chiedevano se aveva il fidanzato, si faceva seria, uscendone con quella frase che pareva un proclama: «Io so solo che mi sposerò con qualcuno che amo». La guardavano come un ufo, le altre, talmente era scontato per loro. Beate ragazze. Mica potevano sapere da quale mondo veniva Nosheen con i suoi 20 anni. Mica potevano sapere la lotta che aveva dovuto sostenere con il padre per frequentare quella scuola di moda, arrivando a strappare il diploma triennale.
Mica potevano immaginare quante lacrime aveva versato, sapendo di non poter trascorrere i pomeriggi con la compagnia («Mio padre non vuole...»): lei che ribelle non era, sempre con il velo, rispettosa del ramadan.
E non c'erano le amiche, in quella casa di Novi distante non più di 50 metri dal Comune, eppure così lontana dal comune sentire, quando Ahmad Khan Butt, musulmano e tra gli animatori della comunità pakistana, alzava la voce, e spesso pure le mani, contro Nosheen e sua madre Begum Shanaz, colpevoli di non voler accettare quello che gli antenati «ci hanno insegnato e tramandato». E, cioè, che non erano le figlie a scegliere i mariti: spettava al padre. Così era stato per sua madre, andata in sposa assieme alla sorella a lui e a suo fratello. E così sarebbe stato per Nosheen. Lo sposo c'era già: un cugino di qualche anno più grande. Non si poteva più aspettare. Si rassegnasse, Nosheen.
È morta per questo, Begum Shanaz, 46 anni, madre di Nosheen. Perché, prima ancora della figlia, è stata lei a non rassegnarsi («Le due donne erano alleate» ha detto il pm Lucia Musi).
È morta, questa donna di 5 figli, con il cranio fracassato da un mattone lanciato dal marito, mentre tentava di impedire al figlio Humair di uccidere a sprangate Nosheen.
Non è morta invano: la ragazza, anche se tuttora in coma farmacologico, dovrebbe farcela, dicono i medici che l'hanno operata alla testa e al braccio. Il marito e il figlio, arrestati per concorso in omicidio e tentato, «non proferiscono parola». Lo stesso muro di silenzio che domenica, subito dopo la mattanza nell'orto di casa, alcuni dei parenti hanno tentato di alzare, tenendo lontano i vicini («Non è successo niente, cose di famiglia», ripetevano), mentre Khan Butt gettava in lavatrice gli abiti sporchi di sangue, e le due donne agonizzavano a terra. «Sono sconvolta, una violenza inaudita e incomprensibile»: il sindaco di Novi (16% di immigrati su 11 mila anime), Luisa Turci, pd, conosce bene Khan Butt, arrivato una decina di anni fa, saldatore, «persona che si relazionava con la comunità». Pure il preside dell'istituto frequentato dalla ragazza, Sergio Pagani, descrive l'uomo come «capace di ascoltare e farsi convincere, come nel caso dell'iscrizione della figlia, inizialmente da lui osteggiata». Ma tra le mura di casa la musica era diversa. Madre e figlia, come conferma il sindaco, «si erano rivolte ai servizi sociali, denunciando un disagio domestico». Un percorso poi interrotto dalla donna, «che forse non se la sentiva di rompere con il marito». Di tutto questo sangue, ora, restano parole. Quelle del ministro Mara Carfagna, decisa a costituirsi parte civile «per dire alle giovani immigrate che l'Italia rifiuta qualunque forma di prevaricazione». Quelle dell'ambasciatore pakistano in Italia, Tasnim Aslam: «Un fatto inaccettabile». Quelle di Lega e Pdl, che accusano Khan Butt (e di rimbalzo la giunta pd di Novi) «di aver allestito sotto casa una moschea abusiva». Il sindaco scuote la testa: «E solo un piccolo garage, poteva farne ciò che voleva». Tutto già sentito.



Quando gli uomini uccidono le donne

la Repubblica, 05-10-2010
Adriano Sofri
CHI tenga il conto degli uomini che ammazzano le donne annovererà l'uxoricidio di Novi (Modena) in questa categoria, alla data del 3 ottobre.
Alla data del 4, appena un giorno dopo e a qualche chilometro da lì, nel Piacentino, un uomo ha ridotto in fin di vita la sua convivente, trafiggendole la schiena con un forcone. Per questa voce, "Uomini che uccidono le donne", i dettagli sono secondari. ANovi l'uomo, 53 anni, che ha ucciso a colpi di mattone la moglie, Begm Shaneez, 46 anni, era, come lei, pachistano, e pachistano il figlio maschio, 19, che ha ridotto in coma a sprangate sua sorella, Nosheed, 20 anni. A Castelsangiovanni, sono italiani, piacentini ambedue, lui 60 anni, e lei 41. Sarà diverso il registro di chi invece tenga nota dei pachistani che ammazzano le donne o, rispettivamente, dei musulmani che ammazzano le donne. Gli uni avranno annotato in particolare l'assassinio di Hina, 20 anni, sgozzata nel 2006 dal padre a Sarezzo, Brescia, gli altri quello di Sanaa, 18 anni, sgozzata nel 2009 dal padre fin quasi a decapitarla, a Pordenone.
Sono i casi più famosi in elenchi fitti. Ogni volta si ripeterà doverosamente che le generalizzazioni sono arbitrarie e disastrose. "I musulmani ammazzano le donne", o "i pachistani ammazzano le donne" - o, del resto, "i cristiani ammazzano le donne". Tuttavia, senza una misura convenzionale di generalizzazione, non sapremmo né ragionare né comunicare. Così, quando diciamo che "gli uomini ammazzano le donne", sappiamo naturalmente che non tutti gli uomini ammazzano le donne, ma intendiamo che parecchi uomini, e senz'altro troppi, ammazzano donne. In Italia, per esempio, l'anno scorso sono state assassinate (almeno, i dati non sono completi) 119 donne, 147 nel 2008, 181 nel 2006, più di 600 tra il 2006 e oggi. Se dicessimo che "le donne uccidono gli uomini" la generalizzazione sarebbe molto più infondata, dal momento che le donne che uccidono uomini sono una minima percentuale degli omicidi fra persone di sesso differente.
Quella arbitraria dichiarazione - gli uomini uccidono le donne - allude anche, per eccesso, a un'altra verità: che gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall'ammazzare e violentare e picchiare donne, se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l'impulso che spinge i loro simili a quell'orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come "raptus" e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all'antisemitismo. Il succo della "Sonata a Kreutzer" è questo: che, secondo Tolstoj, chiunque può ammazzare la propria moglie. Lui non lo fece, però lo scrisse. Le uccisioni di donne, anche quando sono privati, anche quando sono l'opera di uomini miti - "tranquilli", diranno i vicini - e da un assassinio solo, sono efferati. A Novi di Modena, una ferocia infame si è compiuta così: due uomini, un padre e un figlio, si sono accaniti su due donne, moglie e sorella, ripetendo e però rovesciando il modo dell'agguato a Hina. Lì, la violenza del padre e dei suoi parenti maschi complici si era procurata poi il consenso, chissà quanto forzato e rassegnato, della madre di Hina. Qui, la madre di Nosheed ha dato la vita per proteggerla. Ha fatto bene il ministro Carfagna a parlare di "deliri patriarcali". Fanno bene quelli che ricordano che il delitto d'onore è uscito dal nostro codice nel 1981 appena ieri (e dalle nostre teste, chissà) e che appunto gli uomini ammazzano le donne, e di preferenza le "loro" donne - mogli, fidanzate, amanti, come nella singolare espressione che estende la proprietà - "la mia donna" - oltre la data di scadenza - "la mia ex-donna". "Uccide la sua ex-fidanzata".
(Ahimé, anche il comandamento, "la donna d'altri"). E se no le prostitute, che non sono di nessuno, dunque di tutti, dunque "mie". Quanto al modo in cui il cristianesimo ha innovato nella condizione della donna (e dei bambini, soprattutto introducendo una tenerezza e più tardi un amore cavalleresco) e insieme ha accolto e perpetuato una soggezione patriarcale, e non di rado una veemente misoginia, è un fatto che oggi è più difficile adattare una cultura cristiana alla brutalità contro le donne. La quale troppo spesso si compie, ma contro la sua ispirazione. Ne abbiamo appena riparlato a proposito della più tradizionale delle pratiche contro le donne: le mutilazioni genitali - o d'altra parte dell'abbigliamento teso a occultare la vista della donna (che sia vista,e che veda, anche). Per questi usi il relativismo per conto terzi richiama la complicità di nonne e madri infibulate e autrici a loro volta dell'infibulazione delle loro bambine, come se ne risultasse una loro responsabilità libera, e non la più trista prova del dominio patriarcale. Cui meravigliosamente si ribellano tante donne (le bambine, si erano sempre ribellate, e tenute ferme a forza come in una tortura), com'è successo l'altro ieri nel giardino mattatoio di Novi. Queste pratiche, tradizionali e patriarcali, e sconfessate (non sempre, del resto) dalle autorità di tutte le religioni, sono state però incorporate e fissate, e a volte inasprite, in molti paesi dalla tradizione islamica. Lo conferma proprio l'argomento invocato per smentirlo: cioè che costumi e prescrizioni misogine non appartengano al Corano, ma risalgano a prima dell'Islam. Esso è diventato il pretesto per una «riconquista» delle donne alla modernità: nella «rivoluzione» khomeinista che ha ricondotto in cattività le donne iraniane, o in quella taliban che la sta perseguendo. Ho letto la sterminata trilogia di Stieg Larsson diffidando, e ricredendomi. A cominciare dal titolo, "Uomini che odiano le donne", dunque le uccidono. A stare alle motivazioni che un gran numero di loro fornisce a se stesso e al pubblico, si potrebbe dire anche "Uomini che amano le donne", dunque le uccidono. (I francesi, campioni di eufemismo, hanno tradotto: "Uomini che non amano le donne"!). Larsson è stato un campione dell'impegno contro il razzismo e il fascismo nella sua Svezia.I suoi romanzi hanno finito per offrire la miglior chiave di interpretazione del recente voto svedese, segnato dal successo del partito xenofobo e nazisteggiante.
Se la libertà è misurata prima di tutto dalla libertà delle donne - la Scandinavia ne fu un esempio precoce e proverbiale, fino allo scherzo - l'immigrazione che trascina con sé il peso di una tradizione patriarcale e sperimenta nella nuova condizione lo scontro fra i suoi maschi e le sue donne, eccita lo spettro dell'aggressione e della rivalsa sulle donne libere. Due modi distanti e perfino opposti di "odiare le donne" rischiano di congiurare contro la loro libertà - e incolumità. La nuova demografia di Malmoe coincide strettamente con la sua nuova mappa elettorale. L'alternativa starebbe, all'opposto, nella congiura di donne libere e donne immigrate, cui leggi, istituzioni e forza pubblica dovrebbero mettersi al servizio.
Pochi giorni fa, il 23 settembre, a Scandolara (Cremona) una donna indiana di 25 anni, Rupika, si è cosparsa di benzinaa casa suae siè data fuoco ed è morta. Aveva perso il lavoro, in un ristorante, e aveva paura, scaduto il permesso di soggiorno, di essere rimpatriata. Ho letto che in India l'aspettava un matrimonio combinato. Chissà. Non si può far a meno di pensare a una ragazza che si è data fuoco qui, dove si sentiva libera, per non tornare nel proprio paese, dove una solenne tradizione vuole bruciare vive le vedove sul rogo dei mariti morti.



Le donne e il dramma di Modena

l'Unità, 05-10-2010
Barbara Pollastrini
Mentre in Brasile due signore vanno al ballottaggio per la presidenza, in Italia si torna a parlare di padre-padrone. Ma l'immigrazione non c'entra: il passo indietro è dovuto ai ritardi della politica
Forse Gianni Rodari avrebbe scritto una delle sue filastrocche titolandola "Il mondo alla rovescia". Perché la giornata di domenica questo ci ha riservato: un mondo capovolto, almeno all'apparenza. Lontano da noi, in quel Brasile che la presidenza Lula ha sottratto a marginalità e miseria, la candidata favorita, Dilma Roussef se la vedrà al secondo turno con il successo di una seconda donna, la leader dei Verdi, Marina Silva. Saranno loro a decidere, nel ballottaggio, il futuro di una tra le democrazie più popolose della terra. Stesso giorno, domenica, ma a Modena, territorio di benessere e tradizioni civiche. In casa di Begm Shnez, 46 anni, pachistana, scoppia l'ennesima lite tra un padre-padrone che vuole combinare il matrimonio della figlia ventenne, la ragazza che si oppone con tutte le sue forze e un fratello che la vuole "rieducare" a colpi di bastone. La tragedia si consuma così, in una tranquillo pomeriggio festivo. La madre muore nel tentativo di sottrarre la figlia a quella furia. La giovane forse si salverà.
Adesso si discuterà nuovamente di sicurezza e "tolleranza zero". Si ricorderà la tragedia di Hina, in tutto simile a questa. Ho letto che la famiglia degli assassini e delle vittime - uomini i primi, donne le seconde - era in regola coi permessi di soggiorno. Pareva gente normale, che lavorava. Ma è proprio questo contrasto tra una presunta "normalità" e regole che non sanno fare i conti con la negazione dell'autonomia e della libertà delle donne che dovremmo osservare più da vicino. La "Carta dei valori" messa a punto, alcuni anni fa, da Giuliano Amato si muoveva in questa direzione. Ma la destra ha abbandonato quella strada scegliendo, invece, anche in materia di violenza (penso alla normativa sullo stalking) di frammentare il piano d'azione del governo riducendone l'impatto e l'efficacia.
Un mondo alla rovescia, dicevo, ma forse non è così. Forse, più semplicemente, il mondo è divenuto davvero unico, con le sue potenzialità enormi, e le sue terribili regressioni. Per cui può capitare che nello stesso giorno due donne decidano dell'avvenire di una potenza globale a diecimila chilometri di distanza, mentre, nel cortile di casa nostra, si ripresenti nella forma più tragica un dominio ancestrale verso le donne e il loro corpo.
Allora come reagire? Nell'unico modo serio. Scegliendo di fare ciò che in questi anni istituzioni e cultura hanno fatto poco e male. Restituendo i diritti umani delle donne e la loro libertà alla centralità che meritano per la civiltà di tutti. Dobbiamo farlo per Sakineh, certo. Ma anche per milioni di altre che soffrono sul loro corpo le ossessioni di vecchi e nuovi fondamentalismi. O pagano quella sottile violenza che è il venir meno del rispetto pubblico. Dal Parlamento alla scuola e alle università, ai media, serve un piano straordinario, legislativo ma non solo, capace di alzare il velo sui diritti e sull'autonomia femminili, sulla forza che ne deriva, e sul bisogno di garantire a ogni persona, a ogni bambina, la libertà e la gioia di decidere della propria vita, a partire dal diritto fondamentale al lavoro. Questo non è e non sarà mai soltanto un punto dentro un programma  di governo o l'impegno di una costante mobilitazione civile. Questo è oggi, in ogni parte della terra, lo spartiacque della Democrazia. La leva che deciderà il segno della globalizzazione nel nostro secolo. Guai se non lo capiamo. Ora.



donna lapidata a Modena
Le Sakineh che non vediamo in casa nostra

il Riformista, 05-10-2010
LUCETTA SCARAFFIA
Mentre sui muri ci guardano ancora i manifesti di Sakineh da salvare, in cui una donna velata di nero con lo sguardo drammaticamente assorto ci ricorda il caso della dorma che è stata condannata a morte in Iran, proprio qui in casa nostra, in un paese vicino a Modena, è stata uccisa con una pietra, cioè lapidata, una madre pakistana che difendeva la libertà della figlia. Libertà legittima di scegliersi il marito di fronte alla prepotenza del padre e dei fratelli che le volevano imporre - a sprangate - il loro candidato. È una coincidenza drammatica che fa riflettere: siamo pronti a scendere in piazza, a protestare, per una donna lontana, sicuramente bisognosa del nostro aiuto per scampare
alla morte, ma anche, forse, colpevole di omicidio - è sotto processo per questo - e non vediamo quello che succede sotto i nostri occhi a povere donne innocenti.   
Nessuna Carla Bruni si è mobilitata per stigmatizzare e cercar di fermare l'eccidio di donne immigrate che dal 2006 - quando è stata uccisa Hina Saleem a Brescia - sta insanguinando un paese libero e democratico dell'Occidente quale è il nostro. Nessuna manifestazione per far sentire alle comunità etniche che non vogliono rinunciare alle loro sanguinarie tradizioni la nostra disapprovazione, il nostro rifiuto di accogliere immigrati che non siano disposti ad abbandonare queste mentalità arretrate e violente.
Certo, i giornali danno la notizia in un profluvio di deprecazione, preoccupandosi comunque di far presente che non si tratta di tradizioni islamiche, ma legate a particolari gruppi etnici, come non fosse chiaro a tutti che, anche se si tratta di particolari etnie queste sono sempre, chissà come mai, musulmane. Ma poi il problema non viene ripreso e approfondito, non ci sono inchieste nelle enclaves di immigrati per capire la condizione delle donne. Quelle sono riservate ai luoghi lontani, come l'Iran.
Viene il sospetto che questo fare i paladini dei diritti umani da lontano, per poi chiudere gli occhi da vicino, sia una scelta un po' vigliacca per pulirsi la coscienza pagando il prezzo più basso. È un atteggiamento che tradisce la paura per chi abbiamo accolto, fa capire che non vogliamo irritare con troppi controlli, e rivela come sia più facile far finta di non vedere, per poi riempirsi la bocca di parole come accoglienza e interculturalità, piuttosto che difendere le donne straniere che sono arrivate nella nostra terra. Meglio far bella figura con Sakineh che occuparsi seriamente delle bambine, figlie di immigrati islamici a cui, anche nel nostro paese, viene imposta la cloridectomia a un'età sempre più precoce per evitare ribellioni e denunce. Più facile - non costa niente - parlare di «interazione fra le culture», come scrive Repubblica a proposito di questo caso, piuttosto che obbligare i padri prepotenti a rispettare la libertà delle figlie: invece qui non si tratta proprio di un caso di interazione, ma di abbandono di una mentalità per acquisirne un'altra, la nostra. Invece i titoli che alludono a una necessità di cambiamento sono prudenti e molto soft: «Comunità chiuse e impermeabili dobbiamo aiutarle a cambiare regole» titolava sempre Repubblica, come se si trattasse di un paziente lavoro di convincimento a cui i maschi pachistani, o marocchini e indiani, sono pronti a prestare orecchio.
Si evita così di prendere atto sul serio di quello che succede anche da noi, perché questo farebbe crollare quel castello di carte che sono i miti di interculturalità, delle culture tutte sullo stesso piano, tutte egualmente degne di rispetto e di riconoscimento. Perché dovremmo dire che ci sono culture che difendono la dignità di tutti gli esseri umani, e altre che invece sanciscono l'inferiorità di alcuni, in genere le donne. Quindi che ci sono culture migliori di altre, culture da difendere e altre da combattere. E non solo regimi politici cattivi, come gli ayatollah iraniani, ma conflitti di valore in cui dobbiamo impegnarci per far vincere il bene. Solo in questo modo possiamo affrontare sul serio il problema dell'immigrazione  possiamo parlare di accoglienza senza fare della vuota retorica. E soprattutto lavorare concretamente per migliorare la condizione delle donne, che ne hanno molto bisogno.



Le testimonianze Le immigrate di seconda generazione
Lo scontro di civiltà in casa e le donne in prima linea
Corriere della Sera, 05-10-2010
Alessandra Coppola
MILANO — Lo scontro di civiltà in casa Ibrahim scoppiò quando Rania un giorno di fine maggio annunciò che avrebbe sposato un italiano, non musulmano. «Vidi mia madre prendersi istericamente a schiaffi e cercare di strapparsi i vestiti». Un biglietto di sola andata per Il Cairo, il passaporto sequestrato, l'ordine di dimenticare Marco. «Eppure i miei genitori erano stati, fino ad allora, abbastanza aperti, mi avevano cresciuto come una qualunque ragazza italiana», come del resto lei si sentiva, arrivata a Milano che aveva due anni.
La storia ha un lieto fine, Rania e Marco si son sposati, hanno tre figli. Lei fa la giornalista freelance ed è collaboratrice di Yalla Italia, la rivista delle seconde generazioni (allegata a Vita). Di «rivoluzioni» come le sue ne ha viste altre, tra amiche, parenti e conoscenti. «Le figlie di immigrati hanno spesso più coraggio dei fratelli — riflette —, sono più agguerrite perché devono dimostrare qualcosa in più: ai maschi è tutto concesso, possono sposare chi vogliono (l'Islam lo permette), possono uscire e tornare quando gli pare. Molti genitori, invece, si vergognano delle figlie "spensierate". Cominciano a mettere paletti e tutto diventa haram, peccato». Nascono così i conflitti, e quando va bene sono spesso le donne ad aver fatto da apripista e a essersi tirate dietro tutti gli altri. Quando va molto male, son botte. Anche se i casi di Hina, Sanaa e adesso Nosheen sono estremi e isolati.
«La componente femminile vive criticità maggiori, ma è anche una componente di trasformazione più rapida», spiega Stefano Allievi, sociologo dell'Università di Padova, esperto di immigrazione e Islam. Non succede solo tra le figlie. «C'è questo strano paradosso per cui le donne immigrate sono meno presenti nel mercato del lavoro, sono considerate al traino, meno attive, e invece è spesso il contrario, anche nella prima generazione. L'apparente chiusura è uno stereotipo: la componente femminile è trasformativa». Secondo luogo comune da sfatare: lo scontro di civiltà non riguarda esclusivamente la comunità islamica. «Casi analoghi a quelli di Modena, di matrimoni imposti, in Gran Bretagna si vedono tra indù e sikh, per esempio. Dipende più dalla cultura che dalla religione».
È anche l'esperienza della dottoressa Elena Calabro, psicologa e psicoterapeuta che assiste le vittime di violenza domestica alla Clinica Mangiagalli di Milano: «La situazione cambia a seconda della cultura di appartenenza», ragiona, e i problemi sorgono «se c'è un gap molto forte» tra la tradizione e il contesto di arrivo. A farne le spese sono soprattutto gli adolescenti, sdoppiati tra la casa e il mondo esterno, dove tra scuola, attività sportive, bar e sale giochi sperimentano stili di vita diversi. Le cifre sono solo orientative, ogni caso è a sé e le seconde generazioni mescolano passaporti italiani e non. Ma si può scrivere (stime Ismu) che i minorenni stranieri sono poco più di un milione e che i giovani tra i 18 e i 25 anni si possono calcolare in 650 mila (su 5,2 milioni totali, irregolari compresi).
Di ragazzine che escono vestite come vuole papà e poi si cambiano in ascensore per assomigliare alle altre coetanee suor Claudia Biondi della Caritas Ambrosiana ne ha viste a decine. «Per le figlie femmine c'è sempre una maggiore
attenzione e protezione soprattutto da parte di padri e fratelli, protezione che sconfina col possesso». E porta spesso alla rottura. Le madri mediano? «Non sempre. Nel caso di un'adolescente scappata di casa, per esempio, abbiamo fatto un incontro con un gruppo di donne: si sono divise». Alcune legate alle origini, altre alleate delle figlie.
Ouejdane Mejri, giovane presidente dell'associazione Pontes dei tunisini in Italia, per esperienza mette tra le ragioni della mancata emancipazione di una parte delle donne migranti anche «la dipendenza economica dal marito. E il permesso di soggiorno: molte sono arrivate in Italia con i ricongiungimenti. Separarsi significa dover tornare nel Paese di origine».
Nella comunità pakistana di Desio (Monza-Brianza) prima che di rotture e rivoluzioni bisogna affrontare il nodo del dialogo. A farsene carico sono un padre e una figlia, Jawaira Ashras, 21 anni, iscritta al secondo anno di Comunicazione interculturale all'Università. Dal caso di Hina in poi hanno cominciato a organizzare incontri genitori/figli: «Ci siamo sentiti chiamati in causa — spiega Jawaira — Nella nostra tradizione bisogna rispettare i genitori, stare zitti, non parlare. L'obiettivo mio e di mio padre è rompere questa barriera. Senza essere maleducati». Piccoli passi. Jawaira porta il velo, non esce la sera e (per ora) promette: «Sposerò un musulmano».



Il governatore veneto e il sindacato guidato da Epifani rilanciano il modello della tolleranza zero
Cgil con Zaia, stop agli immigrati
ItaliaOgi, 05-10- 2010
Luigi Bacialli
La crisi mette d'accordo tutti: le quote per gli stranieri servono
Saranno state le nuove rotte dei clandestini (i 150 palestinesi sbarcati a Latina, ma ne arrivano a decine anche nel porto di Venezia stipati nei tir e nei container) o più probabilmente i due maghrebini uccisi l'altra notte a Padova in un regolamento di conti tra clan rivali a indurre il governatore del Veneto Luca Zaia a una nuova intemerata anti-immigrazione. E, caso più unico che raro, anche la Cgil si dice d'accordo con un Presidente leghista.
E stato in particolare Paolino Barbiero, segretario provinciale della Cgil trevigiana, a parlare già qualche mese fa della necessità di limitare le quote. Il governatore fa presente in un'intervista sorprendentemente anonima sul Gazzettino (per protesta con la Direzione i giornalisti non firmano i loro articoli) che ci sono centomila veneti in cerca di occupazione ed è inutile fare arrivare extracomunitari che andrebbero inevitabilmente a ingrossare le fila della criminalità più o meno organizzata.
L'intervistatore-fantasma chiede a Zaia cosa intende fare: «Ci sono sicuramente extracomunitari e penso a pachistani, etiopi, senegalesi, che scappano da situazioni gravissime e hanno quindi bisogno di aiuto. Ma smettiamola di dire che i maghrebini, i tunisini, gli algerini, i marocchini, oppure gli albanesi e i rumeni provengono da realtà di povertà e degrado. Sono lavoratori stranieri in territorio italiano e nient'altro. Infatti molti di loro ad agosto tornano a casa per le ferie, hanno la macchina, la casa. E qualcuno acquista attività commerciali in patria».
Strano ma vero, in tempi di vacche magre gli uomini di Guglielmo Epifani apprezzano il pensiero del successore di Galan. A tutto il sindacato, specie a Cisl e Uil, non sfugge che in Italia si conta una media di 500 disoccupati al giorno e almeno su questo fronte il paese è decisamente unito, visto che i senza lavoro crescono costantemente in Calabria come nella cosiddetta Marca Gioiosa. Anzi, i dati Istat dimostrano che la recessione ha colpito più duramente al Nord rispetto al Sud.
E allora stop agli ingressi: è un coro senza più steccati ideologici, a destra e a sinistra. Non c'è più lotta di classe ma lotta per la sopravvivenza. Una guerra tra poveri, mors tua vita mea, altro che imprenditori costretti ad assumere stranieri «perché gli italiani certi lavori non li vogliono fare».
I giornali parlano solo dei barconi a Lampedusa, dimenticando il flusso incessante di irregolari dai paesi dell'Est sulla rotta d'asfalto Trieste-Milano. Romeni, bulgari e russi che vanno ad aggiungersi ai nordafricani spesso bene integrati nel Nordest ma certo più vulnerabili quando la crisi morde.
Così Zaia ha parlato nuovamente di "tolleranza zero" per i delinquenti ma soprattutto di un blocco totale dei flussi migratori. «Il Veneto non ha bisogno di una sola persona in più», ripete un giorno sì e l'altro pure il presidente alle testate locali. «Bastano e avanzano quelli già presenti, gli altri se ne devono restare a casa loro». E un altro dei refrain di Zaia, quello di un accesso troppo facile per gli stranieri in generale. Non a caso il governatore aveva sostenuto le critiche del ministro degli Interni Roberto Maroni alle lacunose direttive europee sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Anche secondo Zaia un cittadino da oltre tre mesi residente nell'Unione europea dovrebbe dimostrare di avere un reddito, una residenza e un lavoro, ma tutto questo per Bruxelles non sembra essere una regola con annesse 
sanzioni ma un optional.
E se proprio vogliono stare in Veneto, aggiunge l'europarlamentare del Pdl Lia Sartori si sottopongano ad un test di lingua e cultura italiana che possa in qualche modo arginare il  fenomeno delle violenze familiari contro i giovani che essendo nati in Italia sono più   vicini all'Occidente che all'Islam. Via i  rom con gli allontanamenti incentivati seguendo la "lezione" di Nicholas Sarkozy e vade retro per gli , stranieri. Non c'è più spazio per i "foresti", punto e basta. Anche perché, come fa notare la Cgia di Mestre, la crisi ha colpito soprattutto gli stranieri. «In questi ultimi due anni», dice il segretario Giuseppe Bortolussi, «i disoccupati sono aumentati di 389 mila unità, quasi uno su tre è d'oltreconfine. La variazione percentuale di crtescita del numero di disoccupati stranieri è aumentata del 63,1% contro il 22, 8%  dei   giovani e l'8,3 per cento delle donne». Di qui, concordano persino gli imprenditori, la necessità di un "tappo".



Da Brescia e Modena, esempi di integrazione in corso

La Stampa, 05-10-2010
Mario Calabresi
Ci risiamo. Dopo il caso di Hina l'estate 2006 (uccisa a Brescia dal padre perché accusata di vivere troppo «all'occidentale») e quello di Saana l'anno scorso (accoltellata dal padre marocchino perché voleva vivere con il fidanzato italiano), un altro orribile fatto di sangue che ha coinvolto una famiglia musulmana nel nostro Paese.
Nel Modenese un padre pakistano ha ammazzato la moglie per una lite sul matrimonio combinato della figlia, Nosheen, che avrebbe dovuto sposare un connazionale. La ragazza non voleva saperne, il fratello l'ha presa a sprangate e l'ha ridotta in fin di vita. La madre, che prendeva le difese della figlia, è stata lapidata dal marito.
Sembrerebbero cronache d'altri tempi, e altri luòghi. Invece succede in Italia, nel 2010. Famiglie musulmane - pakistane, egiziane, marocchine, algerine - che pretendono di trapiantare in Italia costumi del loro Paese. Cous cous, veli e schiavitù femminile. Uomini che odiano le donne, ma non è fiction: è realtà. La realtà di un'integrazione impossibile, tra Islam e mondo occidentale. Alla faccia delle belle parole e dei proclami dei politici.
CHIARAT.
Gian Enrico Rusconi ieri ha commentato con un certo ottimismo il discorso del Presidente federale Christian Wulff per il ventennale della riunificazione delle due Germanie: «Io sono il presidente di tutti, anche il presidente dei tedeschi musulmani e dei musulmani che vivono in Germania». Mi chiedo se i tre milioni di musulmani che vivono in Germania riconoscono come impersonificazione dei loro diritti e dei loro doveri il Presidente federale Christian Wulff o l'imam della loro moschea.
R.BELLIA
La storia terribile di Novi di Modena ci racconta invece che l'integrazione è qualcosa che non solo è possibile ma sta già accadendo: la ragazza che si ribella al padre e al fratello lo fa perché ha assimilato i nostri costumi e, come Hina e Saana, non vuole saperne di matrimoni combinati ma vuole sposarsi per amore. Questa volta è successo qualcosa di più: anche la madre si è schierata coraggiosamente con la figlia, contro le tradizioni dei Paese di origine, pagando con la vita questo gesto. Queste storie si moltiplicheranno, perché sta emergendo e diventando maggiorenne una generazione di nuovi italiani che rifiuta di seguire i costumi dei genitori  immigrati. Quando parliamo di integrazione dobbiamo guardare a queste nuove generazioni, a quelle ragazze e a quei ragazzi che crescono in Italia e sognano da italiani. Non possiamo pensare di lasciarli ai margini o di lasciarli soli nella loro lotta per essere come i compagni di classe o di giochi.
www.lastampa.it/lettere



Inghilterra Scuole islamiche con il velo obbligatorio

il Giornale, 05-10-2010
Centinaia di ragazze musulmane britanniche vengono obbligate dalle loro scuo -le - istituti per sole ragazze di fede islamica - a indossare il velo integrale - burqa o niqab - in una stretta religiosa e conservatrice che preoccupa i musulmani moderati. Il Sunday Telegraph ha identificato tre scuole, una a Londra, una a Leicester, che per la loro uniforme pretendono il burqa o il niqab. Si tratta di istituti privati e indipendenti, frequentati da ragazze tra gli 11 ei 18 anni. Secondo alcuni esponenti musulmani moderati, si tratta di un obbligo che rischia di danneggiare le relazioni tra gli islamici e il resto della comunità britannica. «E assurdo che le scuole applichino una tradizione ormai vecchia, che può inviare un messaggio dannoso, ossia che i musulmani non vogliono essere pienamente parte della società britannica», ha dichiarato Ed Husain, co-direttore del think tank Quilliam, che si occupa di combattere l'estremismo, aggiungendo: «Anche se non sta al governo dettare come i suoi cittadini si devono vestire, ci si dovrebbe comunque assicurare che queste scuole non siano finanziate o appoggiate con i soldi dei contribuenti britannici». Ma, a quanto pare, le autorità scolastiche britanniche troverebbero la pratica perfettamente lecita.



OLANDA: IL LEADER DELLA DESTRA RISCHIA 16 MESI
"Odio per l'Islam" Wìlders a processo
La Stampa, 05-10-2010
Giordano Stabile
«Non è un processo a me, è un processo alla libertà di espressione di un milione e mezzo di persone». Con la sua distintiva capigliatura bionda, pettinata all'indietro come un gentiluomo del Settecento, alla Barry Lindon, il leader della destra populista olandese Geert Wilders si è presentato ieri al tribunale di Amsterdam attorniato da una folla incoraggiante, parte di quel milione e mezzo che lo ha votato due mesi fa e ha fatto del suo Partito delle Libertà (Pvv) la terza forza politica olandese. E con la stessa determinazione ha incitato i suoi: «Tranquilli, continuerò a dire quello che penso».
Wilders, diventato famoso con il film anti-islamico Fìtna, era in tribunale perché è accusato di incitamento all'odio razziale e discriminazione contro i musulmani. Rischia fino a 16 mesi di carcere e 10 euro di multa, anche se il suo seggio in Parlamento rimarrà comunque al sicuro, come pure il suo appoggio esterno alla coalizione tra Cristiano democratici (Cda) e liberali del Vvd, che si è faticosamente formata dopo sei settimane di trattative. Ma è chiaro che il processo è altamente simbolico e il leader populista l'ha voluto caricare di valenza politica. Ha ricusato corte, presieduta da Jan Moors, «per manifesta ostilità» nei suoi confronti, dopo essersi appellato alla sua «investitura popolare» con un messaggio via Internet sul sito Twitter. E la volontà popolare «non si processa».
Ora una camera indipendente di magistrati valuterà se sostituire il giudice, entro 24 ore dalla ricusazione. Poi il processo ricomincerà. Le accuse sono basate su un oramai famigerato editoriale sul quotidiano De Volksrant, uno dei più importanti in Olanda: «Ne ho abbastanza di Islam in Olanda, non lasciamo che entrino altri immigrati musulmani». E poi, con largo anticipo sugli annunciati roghi negli Stati Uniti: «Ne ho abbastanza di Corano in Olanda, mettiamo al bando quel libro fascista». Di fronte al giudice, però, Wilders si è rifiutato di commentare, e ha fatto parlare il suo avvocato, Bram Moszkowicz, che ha anticipato l'intenzione dell'imputato di non rispondere alle domande. E quando il giudice ha risposto che così si «evitava la discussione», è scattata la ricusazione.
Con un nuovo giudice oppure no, la sentenza è prevista per il 4 novembre. E comunque vada a finire, la battaglia si sposta ora in Parlamento. I due partiti delle nuova coalizione hanno solo 52 voti su 150 e assoluto bisogno dei 24 deputati del Partito delle Libertà di Wilders. Già si parla di nuove misure per limitare l'immigrazione e di proibire il velo, già definito da Wilders «straccio che si mette in testa» da tassare «per inquinamento del paesaggio olandese». Una nuova legge in questi termini è poco probabile, ma è facile che all'Aja si segua l'esempio di Parigi nel mettere al bando almeno il burqa.


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