Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

16 settembre 2011

 

Lampedusa,proseguono gli sbarchi. Arrivati 55 tunisini
Ieri pomeriggio si sono registrati intoppi nei trasferimenti, probabilmente per un guasto a una nave
Palermo, 16 set. (TMNews) - Proseguono gli sbarchi di immigrati a Lampedusa. Ieri sera alle 22.20 un natante con a bordo 55 extracomunitari, di origine tunisina, è approdato sulla maggiore delle Pelagie. Tra gli immigrati erano presenti anche due donne.
Intanto, sul fronte dei trasferimenti, ieri si sono registrati alcuni intoppi burocratici che hanno bloccato le operazioni. I 110 tunisini imbarcati ieri a bordo della nave "Audacia" per essere trasferiti a Palermo, e da qui successivamente rimpatriati, sono stati fatti scendere poco dopo dal traghetto appartenente alla flotta Grimaldi.
Per evitare scontri sono intervenuti gli uomini delle forze dell'ordine, che hanno convinto i tunisini a tornare al centro d'accoglienza.
All'origine del mancato trasferimento ci sarebbe stato un problema tecnico della nave.
 
 
 
Proposta del Comune di Prato: deposito cauzionale per gli extracomunitari che aprono la partita iva da rimborsare dopo la prima dichiarazione dei redditi.
La misura “anti evasione”, sull’esempio del Canada, è stata presentata dal sindaco al Tavolo nazionale per Prato promosso dal Ministero dell’interno. Il Viminale ha promesso maggiori controlli soprattutto nei money transfer.
Immigrazione Oggi, 16-09-2011
Un deposito cauzionale per gli immigrati che aprono una partita Iva da rimborsare dopo la prima dichiarazione dei redditi.
È la proposta per combattere l’evasione fiscale che il sindaco di Prato ha presentato ieri nel corso del Tavolo nazionale per Prato, avviato un anno fa su iniziativa del ministro Maroni. Ad esso hanno preso parte il Prefetto, il Sindaco e il Presidente della Provincia di Prato, l’Assessore al Welfare della Regione Toscana, i vertici del Gabinetto e dei Dipartimenti del Ministero dell’interno, dirigenti dei Ministeri dell’economia, della giustizia, delle infrastrutture, del welfare, dello sviluppo economico, dell’istruzione, dei Carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, dell’Agenzia delle entrate, delle Dogane e della Banca d’Italia.
La misura richiesta dal Comune di Prato era stata anticipata dall'assessore pratese alla Sicurezza, Aldo Milone, nel corso di una conferenza stampa.
Per fermare la “dilagante evasione fiscale delle aziende cinesi”, ha spiegato Milone, il Comune propone una misura già praticata in Canada: “gli extracomunitari intenzionati ad aprire una partita iva siano vincolati a un deposito cauzionale, da rimborsare eventualmente dopo la prima dichiarazione dei redditi”.
Prima di avanzare la proposta, l'assessore Aldo Milone ha presentato i dati sull'evasione dei cittadini cinesi di Prato: nei primi otto mesi dell’anno sono state controllate dal Comune 189 aziende di confezione con titolari e dipendenti cinesi, di queste 131 sono risultate “fuori dalla regolarità del codice penale per abusi edilizi e per 127 di queste è scattato il sequestro dell'immobile”. I macchinari sequestrati nel 2011 sono stati 3484. Gli introiti comunali registrati l'anno scorso per il dissequestro dei macchinari - 228 mila euro - è già stato superato nei primi otto mesi del 2011: nelle casse del Comune sono entrati 232.352 euro. Nell’arco di un biennio (settembre 2009-settembre 2011) ben 510 aziende di confezioni hanno ricevuto un blitz della squadra interforze composta da polizia municipale, vigili del fuoco, ispettori del lavoro e dell’Asl.
Nel corso del Tavolo invece – come riporta una nota del Viminale – ciascuna amministrazione ha garantito unità aggiuntive per i compiti propri al fine di aumentare i controlli: 25 in più per l’Agenzia delle entrate, 8 in più per la Questura, 5 in più per i Carabinieri, 3 in più per la Direzione del lavoro, e così via. Si è confermata la linea di controlli coordinati e - se necessario - congiunti fra i vari uffici, tesa a rilevare il sommerso e a favorire l’imprenditoria in regola, e si è rivolta particolare attenzione al settore del money transfer, spesso strumento privilegiato per attività di riciclaggio e di evasione. Come è accaduto nel recente passato per una norma sulla confisca amministrativa, si è esaminata l’ipotesi che, partendo proprio dall’esperienza di Prato e dai suggerimenti degli addetti ai lavori, sia elaborata una disposizione che renda meno agevole l'aggiramento delle regole e renda effettive le sanzioni.
 
 
 
Fornaser: «Gli immigrati in crisi? Tornino a casa con il fondo Ue»
PESCANTINA. Il suggerimento di Fornaser. L'assessore: «Lavoro introvabile e possono usare i fondi europei»
L'Arena.it, 16-09-2011
Pescantina: Manuel Fornaser, assessore ai servizi sociali (ARCHIVIO)
Pescantina. Un fondo europero per tornare al paese d'origine. Lo suggerisce agli immigrati in difficoltà il vicesindaco Manuel Fornaser, assessore ai servizi sociali. «Sono sempre più numerosi», spiega, «gli utenti che vengono seguiti dagli uffici sociali del Comune di Pescantina, persone che chiedono un intervento di tipo sociale per varie situazioni di difficoltà. Ogni giorno si presentano cittadini che si trovano a dover affrontare situazioni di emergenza familiare o lavorativa. Le situazioni seguite si sviluppano in molti settori: anziani seguiti con l'assistenza domiciliare o con problemi di alzheimer; minori e famiglie con problemi di vario tipo; assistenza ai disabili e molte altre situazioni delicate. Poi ci sono le attività, organizzate direttamente dal nostro settore per offrire servizi alla persona». 
«Oggi», continua Fornaser, «in maniera sempre maggiore, stiamo assistendo ad un incremento di interventi anche per persone definite nella norma: semplici cittadini che in molti casi, a causa della mancanza di una attività lavorativa non riescono più a far fronte alle esigenze di tipo economico e abitativo. Mantenersi e sostenere la famiglia in presenza di mutui o affitti diventa difficile. È sempre più impegnativo poter dare un aiuto concreto in queste situazioni dove la reale necessità è avere un lavoro. A livello comunale infatti, trovare riferimenti di aziende e ditte che possano avere esigenza di personale non è semplice. In certi casi la rete parentale dell'utente risulta molto preziosa per far fronte, in qualche maniera, alle primarie necessità».
Diversa è invece la situazione quando è uno straniero a trovarsi in emergenza lavorativa. «La mancanza», sottolinea l'assessore, «di un legame familiare sul territorio rende ancora più grave la situazione. Una possibilità per l'extracomunitario può arrivare dal programma europeo per il rimpatrio volontario. Il rimpatrio, se pur difficile da accettare, può dare alla persona e alla sua famiglia una ulteriore opportunità di vita in un paese dove vivere costa meno o dove esiste la possibilità di trovare spazio per ulteriori impieghi lavorativi. Il fondo europeo eroga anche delle somme per il viaggio e per accompagnare l'emigrato ad una prima sistemazione arrivati nel paese di origine. È attivo un sito specifico, www.ritornare.eu, che offre le informazioni necessarie su questo argomento».L.C.
 
 
 
Immigrati in Lombardia: "grana padana"
AgoraVox, 16-09-2011
A sfogliare gli elenchi telefonici del cremonese, si scopre che il cognome più diffuso è ormai Singh, che non è propriamente padano. È da tempo, infatti, almeno da una ventina d'anni, che gli immigrati provenienti dalla regione indiana del Punjab si sono stabiliti in quell'area della Lombardia per lavorare nei caseifici. E se oggi, improvvisamente, questi decidessero di scioperare, i produttori dell'ottimo e rinomato Grana Padano sarebbero costretti a sospendere le attività.
Gli indiani, come testimonia pure Coldiretti, sono ormai divenuti indispensabili all'agricoltura e all'allevamento dell'intero Nord. E proprio nella provincia di Cremona è possibile continuare a produrre circa un milione di tonnellate all'anno di latte (un decimo di tutto il latte prodotto in Italia), grazie ai lavoranti stranieri.
Fra questi, molti sono Sikh. Giunti in Italia quando la generazione di operai caseari autoctoni si accingeva alla pensione senza prospettive di ricambio, hanno salvato un’economia altrimenti condannata alla rovina. Perché nel nostro Paese - e il Nord non fa certo eccezione - sono pochissimi i giovani disposti ancora a lavorare nei settori legati all'industria agricola e alimentare. Ci si sporca le mani, vanno sopportati duri turni e il tempo libero è davvero scarso. In più, aspetto probabilmente decisivo, a differenza degli immigrati noi italiani non sappiamo più come si manda avanti una fattoria.
Statistiche ufficiali sul numero degli indiani impiegati nella nostra agricoltura e nei caseifici non esistono, ma molti osservatori locali dicono che ogni tremila operai immigrati c'è un terzo originario dell'India. Lo sanno bene anche gli amministratori della Lega, che malgrado gli slogan devono riconoscenza a questa mole di lavoratori. Un segno della loro presenza rilevante è stata la recente inaugurazione del tempio Sikh lombardo di Pessima Cremonese, il più grande d'Europa, progettato per contenere fino a 600 fedeli.
L’iter che ha portato alla realizzazione della struttura religiosa non è stato per niente semplice, tra permessi edilizi prima concessi e poi revocati sull'onda delle polemiche politiche, fino all'individuazione del sito definitivo. Mentre il Sindaco ne appoggiava attivamente la costruzione (la comunità indiana è stata capace di raccogliere per lo scopo ben due milioni di euro e, come probabilmente si dice anche nelle valli padane, "Pecunia, si uti scis, ancilla est; si nescis, domina". Che letteralmenente suona più o meno così: "se sai usarli, i soldi ti servono; se non sai usarli, ti rendono schiavo"), gli esponenti locali della Lega Nord hanno fatto ricorso a ogni forma di ostruzionismo.
Manuel Gelmini, leghista di ferro e consigliere provinciale a Cremona, ha provato vanamente a fermare la costruzione del tempio col pretesto del Kirpan, la spada cerimoniale portata dai Sikh ortodossi durante le funzioni religiose. Tuttavia, è significativo che la Lega non abbia fatto aperta propaganda contro i lavoratori indiani del latte.
Ormai il partito di Bossi ha perso la sua antica spinta rivoluzionaria e intransigente, e quando attacca lo fa solo per nascondere l'assuefazione a quelle pratiche del potere mal digerite dalla sua base. Un po' quello che avviene in Parlamento, quando si tratta di votare i provvedimenti ad personam cari al premier o di esprimersi sull'autorizzazione all'arresto di questo o di quell'esponente della maggioranza: prevale solo e sempre la convenienza tattica del momento. Al di là delle urla di circostanza contro i corrotti, i parassiti e (per fortuna) gli immigrati stessi.
Del resto, come volere l'allontanamento di una mano d'opera che costa appena 2-4 euro l'ora e fatica per mezza giornata quanto lavorerebbero tre italiani? Patrizia Santangeli ha realizzato l'interessante documentario "Visit India", nelle sale dal prossimo ottobre, nel quale spiega appunto che i circa 16 mila stagionali indiani presenti in Italia fanno la fortuna degli imprenditori e in fondo vanno bene alla stessa politica: costano poco e vivono in accampamenti modesti, non si segnalano per episodi di violenza, passano quasi inosservati agli occhi delle comunità locali. Il film approfondisce soprattutto la condizione degli indiani del Lazio e della provincia di Latina, la loro meta preferita.
Dai dati Istat emerge che molti di loro sono diventati cittadini italiani, hanno acquistato casa e si sono insediati senza difficoltà di integrazione con le rispettive famiglie. Perfino nel cremonese, dove l'atteggiamento ambivalente della Lega ha suscitato a volte l'indignazione dei verdi barbudos dagli elmi cornuti, si è evitata l'emarginazione degli indiani ricorrendo a vari programmi istituzionali, come le lezioni di lingua italiana e i piani di formazione culturale e inserimento professionale.
I loro figli, in maggioranza nati qui in Italia, sono bravissimi a scuola e dimostrano un senso civico perfino superiore a quello dei nostri ragazzi. E se a sostenerlo è un allevatore lombardo che vive e opera nel cuore pulsante della Padania in camicia verde, non c'è che da credergli. Domandando a uno dei suoi dipendenti arrivati dall'India negli anni '90 se ha voglia di tornare in patria, la risposta che si sentirà è la seguente: "i miei figli si sentono più italiani che indiani, qui abbiamo messo radici: ormai è questa la nostra Patria".
 
 
Trani, sportello immigrati in gestione per 3 anni
Pronta la gara, appalto da 105 mila euro
Traniweb, 16-09-2011
Tre anni di gestione, 105mila euro a disposizione. L’ufficio di piano del Comune di Trani ha predisposto gli atti per la gestione di uno sportello socioassistenziale per cittadini stranieri. Lo sportello avrà sede negli uffici della Asl di Trani e servirà per garantire consulenze, orientamento, informazioni, attività linguistiche ed interventi socio sanitari in favore di cittadine e cittadini non italiani ma residenti nel nostro territorio. 
La formula è quella della procedura negoziata. Al bando saranno invitate associazioni ed Enti del settore che, in caso di aggiudicazione del servizio, dovranno garantire la presenza qualificata di educatori e professionisti per 4 ore al giorno durante tutti i giorni della settimana (tutte mattine ed un turno pomeridiano).
 
 
ROMA VEDE I ROM SOLO COME NOMADI
La Stampa, 16-09-2011 
NAVI PILLAY*
All'epoca della mia visita in Italia, nel marzo 2010, i temi riguardanti i Rom dell'Europa Orientale erano prioritari. Oggi, la loro situazione sembra alquanto oscurata dal dramma di rifugiati e immigrati provenienti dal travagliato Nord Africa. Ma non per questo dovrebbero essere dimenticate le questioni attinenti ai diritti umani affrontate dai Rom.
Durante la mia visita l'anno scorso, mi recai in due insediamenti Rom alla periferia di Roma. Il primo, in via Marchetti, era una baraccopoli non autorizzata. Il secondo, in via Candoni, era stato creato dalle autorità. In quell'occasione incontrai anche il ministro dell'Interno Roberto Maroni, che mi garantì che i Rom avrebbero beneficiato del cosiddetto Piano per i Nomadi elaborato dal governo, attraverso il loro ricollocamento da insediamenti illegali a «campi» regolamentati.
Manifestai la mia seria preoccupazione circa tali soluzioni, osservando che, in nome della sicurezza, il «campo modello» ufficiale, in via Candoni, era circondato da alti muri di cinta con torri di sorveglianza della polizia. Ciò non lo distingueva affatto da quello non autorizzato, altrettanto segregato, lontano dalla città, dalle opportunità di lavoro che essa può offrire, dai suoi servizi sociali. La soluzione è l'integrazione nel tessuto della vita urbana. Questo solamente può condurre a un reale godimento dei diritti umani gruppi in precedenza marginalizzati e stigmatizzati, tra i quali i Rom.
Trattare interi gruppi etnici come «problemi di sicurezza» ne pregiudica ulteriormente diritti e benessere. Il governo italiano ha mantenuto il proprio approccio condizionato dalla sicurezza e continua a trattare i Rom come «nomadi» che non sono in grado di vivere in normali ambienti urbani. Ma la maggior parte dei Rom non è composta da nomadi in qualunque senso si voglia intendere tale termine. Un Rom che viveva nell'insediamento di via Marchetti mi disse con ironia amara: «Naturalmente, se passi da un trasferimento coatto all'altro, diventi un "nomade" che deve poter vivere in un "campo". Come possono pensare che noi non vorremmo lavori, case, e mandare a scuola i nostri figli come chiunque altro?».
Come ebbi modo di verificare lo scorso anno attraverso i miei contatti diretti con gli abitanti di via Marchetti, quell'insediamento comprendeva un numero di Rom dalla Bosnia che si trovavano in Italia dagli inizi degli Anni Novanta, costretti ad allontanarsi a causa del conflitto interetnico che produsse un genocidio. Alcuni di essi mi mostrarono documenti che indicavano che era stato loro riconosciuto lo status di rifugiati. Altri avevano carte che attestavano la positiva considerazione del loro caso da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, che aveva portato - quasi un decennio fa - l'Italia a riconoscerne il diritto a rimanere sul suo territorio. Anche queste famiglie furono sottoposte a trasferimenti coatti in giugno, senza alcuna assistenza e senza un posto dove poter andare.
In seguito, sono rimasta scossa nell'apprendere che, dall'agosto 2010, sei bimbi Rom hanno già perso la vita a Roma o nei suoi dintorni, a causa di incidenti connessi alla mancanza di sicurezza negli insediamenti dove erano costretti a stare. La soluzione proposta ogni volta dopo tali tragedie è sempre stata la stessa: trasferimenti coatti.
Se da una parte un livello considerevole di risorse continua a indirizzarsi verso l'organizzazione di tali trasferimenti, viene invece data scarsa attenzione alle misure di inclusione sociale. Un recente rapporto su Rom e Sinti della Commissione speciale sui diritti umani del Senato italiano è giunto alla conclusione che le attuali politiche non hanno raggiunto alcun progresso al riguardo.
Mi sono particolarmente preoccupata quando, nel contesto delle elezioni locali tenutesi quest'anno in Italia, il partito del primo ministro Berlusconi ha fatto ricorso a un'aperta retorica anti-Rom come strumento di campagna elettorale. In contrasto, accolgo con piacere l'espressione di sostegno manifestata da Papa Benedetto XVI in occasione di un incontro con i Rom lo scorso giugno. Purtroppo, appena dieci giorni dopo l'udienza con il Pontefice, l'insediamento di via Marchetti è stato oggetto di trasferimenti coatti, con le autorità locali a sostegno della tesi che ciò fosse a grande vantaggio della sicurezza.
Secondo fonti affidabili della società civile, il trasferimento coatto di via Marchetti è stato condotto in una maniera che ha violato gli standard internazionali. La data non è stata annunciata in anticipo. Contro le rassicurazioni che mi erano state date nel 2010, agli abitanti non sono nemmeno stati offerti posti alternativi a via Candoni o in altri simili insediamenti ufficiali. Alcuni di coloro che sono stati allontanati si sono comunque spostati nell'insediamento di via Candoni, vivendo ai suoi margini, senza alcun alloggio loro fornito. Il sovraffollamento ha portato al deterioramento delle condizioni di vita in via Candoni. E le promesse di lavori e altri miglioramenti in favore dei residenti autorizzati del «campo» non si sono materializzati.
L'Unione Europea ha adottato un quadro per le strategie nazionali per l'integrazione dei Rom, in base al quale gli Stati membri dell'Ue devono formulare strategie inclusive che mirino a miglioramenti tangibili in materia di educazione, impiego, salute e alloggi. per i Rom.
La posizione del governo italiano è in contrasto con lo spirito e gli obiettivi di tali disposizioni quadro. Occorre che l'Italia attui un cambiamento drastico nel proprio approccio e si discosti da politiche che sono principalmente mosse da motivi di sicurezza, piuttosto che da una visione di integrazione.
Se ci fosse abbastanza volontà politica da riconoscere quello che ora appare come l'ovvio fallimento dell'approccio fondato sulla sicurezza, l'elaborazione e la successive attuazione di una Strategia nazionale per l'integrazione dei Rom potrebbe segnare un punto di svolta. Oltre a creare una Strategia nazionale inclusiva in linea con le richieste politiche dell'Unione Europea, l'Italia dovrebbe anche essere attenta a rispettare i propri obblighi legali, che derivano da standard internazionali in materia di diritti umani.
*Alto Commissario Onu per i Diritti Umani
 
 
 
Immigrato e qualificato
Cresce la percentuale di "stranieri" di seconda generazione con un valido curriculum professionale. Se ne parla in un incontro sull'intellighenzia africana a Tramedafrica.
FamigliaCristiana.it, 15-09-2011
Albarosa Camaldo
Otto Bitjoka, imprenditore camerunense, in Italia da quarant’anni, presidente della Fondazione Ethnoland e vicepresidente di Extrabanca.
«Si parla tanto dell’immigrazione in generale, ma non degli immigrati qualificati della seconda generazione fra i quali il 7 per cento sono universitari e l’8 per cento liceali. Il mercato deve capitalizzare tali risorse in modo che gli immigrati abbiano accesso a profili di carriere qualificate, invece che essere relegati a ruoli di servizio: se uno diventa medico ha diritto di lavorare come medico.» Così parla Otto Bitjoka, imprenditore camerunense, in Italia da quarant’anni, presidente della Fondazione Ethnoland e vicepresidente di Extrabanca, la prima banca italiana solo per stranieri. Approfondirà proprio il tema dell’immigrazione qualificata, coordinando, con altri esperti, la tavola rotonda del 17 settembre che apre la due giorni su “L’Intellighenzia africana che vive in Lombardia” all’interno del ricco e variegato programma proposto da Outis per il festival Tramedafrica, dedicato per il terzo anno all’Africa e in particolare a quella Subsahariana. 
Bitjoka, sposato con un’italiana, sottolinea che il meticciato non è solo come ai tempi del film Indovina chi viene a cena?, ma è diventato «un fiume carsico nella nostra società, poiché gli immigrati frequentando anche la scuola insieme ai bianchi, pur non dimenticando le loro tradizioni, effettuano una preziosa sintesi delle due culture». Alla letteratura della migrazione, cioè prodotta in italiano da africani che hanno imparato da adulti la nostra lingua in Italia, sono dedicati incontri con autori e reading delle loro opere, presentati da Raffaele Taddeo del Comitato editoriale di El Ghibli e presidente del Centro multietnico La Tenda. «I testi letterari sono caratterizzati dall’oralità», spiega Taddei, «che emerge negli scritti di Pap Khouma e Komla Ebri, nei romanzi degli eritrei quando commentano la rivendicazione dell’indipendenza, nella narrazione di fiabe tradizionali africane, accompagnate dalla musica dei griot (cantastorie), coinvolgenti specialmente per i bambini. I poeti, invece, come Cheik Tediane Gaye, utilizzano immagini e metafore che risentono dello studio di Montale e Ungaretti.» Performance di danza e di musica, dibattiti con danzatori e musicisti e una mostra di Ako Atikossie nel Chiostro del Teatro Grassi completano il quadro delle attività artistiche. 
DOVE E QUANDO
L’INTELLIGHENZIA AFRICANA CHE VIVE IN LOMBARDIA dal 17 al 18 settembre al Piccolo Teatro Grassi e Chiostro, ingresso libero. Info: tel. 02/39.25.70.55, www.outis.it; www.piccoloteatro.org 
TRAMEDAFRICA, XI Festival Tramedautore, dal 17 al 25 settembre 2011 al Piccolo Teatro Grassi e Chiostro e Piccolo Teatro Studio EXPO.
 
 
 
La fantasia è la voce dei migranti  
Versi, racconti e musica dei lavoratori stranieri, in media più istruiti degli italiani  
Corriere della Sera, 15-09-2011
GIAN ANTONIO STELLA 
«In un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani emigrati, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera, per un intero isolato... ». Così scriveva, alla fine dell'Ottocento, nel libro How the Other Half Lives («Così vive l'altra metà») il grande reporter della «New York Tribune» Jacob Riis. (...) «Altri tempi!», dicono i razzisti che rifiutano ogni parallelo con l'immigrazione di oggi in Italia. Certo. L'idea che si trattasse di un lontano Medioevo imparagonabile con il mondo di oggi, però, è una sciocchezza dovuta solo all'ignoranza. Quando Riis scrive i suoi reportage, esistono a settant'anni il treno e il telegrafo, da una quarantina il motore a scoppio e il fax, da una trentina il sommergibile e la metropolitana di Londra, da una ventina la luce elettrica.
Per capire la distanza abissale tra «quella Italia» e «quell'America» occorre mettere a confronto due documenti del 1882: la relazione della commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Stefano Jacini sulla povertà del mondo contadino e un reportage su New York di Dario Papa pubblicato dal «Corriere della Sera». La prima denuncia la disperazione di un mondo con centinaia di migliaia di tuguri «ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame» e si descrive il degrado igienico di province come quella di Treviso, oggi marcata da una forte presenza di razzisti: «Ogni sorta d'immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo sterco degli animali a quello dell'uomo, è raccolta nelle vie e intorno alle case, e vi è quasi rispettosamente conservata; in qualche sito si giunge fino a spargere ad arte del fogliame oppure dei ricci di castagne perché, parte coll'aiuto dell'acqua piovana e parte con quello dei passanti, il materiale si maceri, fermenti, e si converta poi in letame. Presso la generalità dei contadini i concimi vengono dalle stalle non trasportati nei campi o in un ben acconcio letamaio distante dall'abitato, ma si raccolgono o nei cortili o nelle adiacenze delle case, ed ivi si lasciano a fermentare finché si presenti la occasione di portarli all'aperto per gli usi agricoli». (...) Il 26 gennaio dello stesso 1882, mentre tanta parte del nostro Paese è ancora affondata nel Medioevo, Dario Papa così descrive il Ponte di Brooklyn: «Il più meraviglioso ponte del mondo (...) unisce Brooklyn con Nuova York a un dipresso come quello di ferro che unisce Buda con Pest: ma io credo sia lungo più del doppio e mi pare basterebbe per traversare due volte il Po nei punti della sua maggiore larghezza: e non ha ombra di pila o puntello di sorta: è tutto fatto da due immense catene, che ti pajono — là in alto — leggiere come una piuma. Il forte dei sostegni, d'una grandiosità solamente paragonabile alle più colossali fra le opere umane, è sulle rive, d'onde — dentro Nuova York — il ponte si prolunga per un pajo di chilometri passando sopra i tetti delle case. Le quali così hanno: sovra la testa la ferrovia che viene da Brooklyn; ai lati e a livello del primo piano la ferrovia “elevata”, cioè tutta fabbricata in aria, che circola dentro tutta quanta la città; ai piedi i trams, gli omnibus e tutto il resto del movimento cittadino; e sotto i piedi... avranno tra poco un'altra ferrovia che circolerà sotto terra. Se questo non è dormire fra due guanciali, è per lo meno dormire fra quattro ferrovie».
Da noi i contadini tenevano il letame in casa perché scaldava e aiutava a passare l'inverno, dall'altra parte dell'oceano il ponte di Brooklyn aveva quattro piani di ferrovie. Qual è la differenza tra l'abisso che separa oggi il Burkina Faso dalla Lombardia e quello che separava il Veneto (per non dire del Meridione) dal New Jersey? Dov'è questa «immensa» differenza tra i nostri nonni e «loro»?
Immaginiamo la risposta: «I nostri nonni non erano delinquenti!». Andiamo allora a rileggere Un italiano in America, scritto nel 1894 dal grande Adolfo Rossi, originario di Lendinara, in provincia di Rovigo: «Sotto i cortili interni dei tenement-houses (casermoni) più ributtanti vi sono certe cantine (basements) scure e mefitiche, illuminate da una lampada a petrolio dove si balla e si beve la birra a buon mercato. Se non si è del quartiere è pericoloso avventurarsi senza essere accompagnati da un police-man in quelle catacombe del vizio e della abbiezione».
Immaginiamo la nuova obiezione: «Quelli erano terroni, che arrivavano da terre piene di delinquenti!». Allora andiamo a prendere il libro O soldi o vita di Luigi Piva. Dove si spiega che le due sezioni veneta e lombarda del Tribunale statario asburgico «avevano istruito 3.400 processi e dal giugno 1850 al giugno 1853 le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova erano state colpite da 1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite e 735 commutate in detenzione per un periodo medio di 15-20 anni di carcere duro». Per cosa? Rapine in casa. Soprattutto nella Bassa padovana, nel rodigino, nel mantovano: 1.144 condanne a morte! Tra polentoni! (...) Ma torniamo ai nostri emigranti in America o in Europa: «È diffusissima in Germania l'opinione che la criminalità degli immigrati italiani sia di gran lunga superiore a quella dei nazionali e degli immigrati di altre nazionalità», scrive alla vigilia della Prima guerra mondiale l'ispettore regio per l'emigrazione Giacomo Pertile. (...) Giuseppe De Michelis, sul «Bollettino dell'emigrazione» edito dal ministero degli Esteri, confermava: «Tutti parlano della grande criminalità fra i nostri emigranti come di un fatto acquisito. I giornali, appena viene commesso un delitto, un furto, un'azione riprovevole, cercano l'italiano». Solo il frutto di una campagna calunniosa? «Purtroppo, sovente, è la verità», sospirava l'autore dell'inchiesta.
Occorre rileggerle, queste parole di tanti anni fa, per inquadrare l'Hotel House nel suo corretto contesto. Sia chiaro, il fatto che anche noi abbiamo creato problemi agli altri non vuol dire affatto che dobbiamo rassegnarci a una sorta di nemesi storica. Proprio per niente. Là dove ci sono i reati vanno perseguiti con durezza e chi li commette deve pagarli a caro prezzo. Tanto più che ogni delinquente, e ce ne sono, contribuisce a rassodare le ostilità e i pregiudizi razzisti che poi ricadono sull'intera comunità degli immigrati. Ma come gli altri hanno dovuto mostrare insieme fermezza ma anche un po' di pazienza verso i nostri nonni, così dobbiamo fare noi: fermezza e pazienza. Accompagnate dall'idea che l'immigrazione, oltre a creare problemi, contribuisce ad arricchire la nostra società. Economicamente, se è vero che ormai l'11,2 per cento del nostro Pil dipende dai lavoratori stranieri. Ma anche culturalmente.
Lo dimostra il volume Babel Hotel, curato da Ramona Parenzan. Dove questa ricchezza di poesie e racconti e canzoni, frutto di una straordinaria molteplicità di etnie e culture, testimonia l'unica vera, grande, differenza (a parte quella dell'estremismo religioso che tocca una minoranza del mondo islamico) tra i nostri nonni emigrati e i «nuovi italiani». Prendiamo ad esempio uno studio sulle liste passeggeri dei transatlantici in arrivo in America nel 1910 condotto da Ira A. Glazier e Robert Kleiner. Su due navi a caso che attraccarono a New York nel 1910, gli immigrati analfabeti sbarcati dall'italiana «Madonna» erano il 71 per cento, quelli provenienti dall'impero zarista e scesi dalla «Lithuania» il 49 per cento: 22 punti in meno. (...) Spiega nel febbraio 2011 l'Indagine conoscitiva sulla situazione dell'Hotel House di Porto Recanati, condotta da un gruppo di docenti dell'Università di Macerata coordinati da Angelo Ventrone, che l'Hotel House, a dispetto di certi reportage razzisti che lo descrivono come un ghetto abitato da loschi figuri sporchi, portati a delinquere e magari un po' scimmieschi, ospita immigrati che sono per il 55,2 per cento in possesso di un diploma o di una laurea. Una percentuale superiore di circa 12 punti a quella degli italiani diplomati, che sono solo 33 su 100 e collocano l'Italia al venticinquesimo posto dei Paesi Ocse.
Tutta gente, dice la ricerca, che sta lì nel 22,5 per cento dei casi per il «basso costo» delle abitazioni (gli appartamenti, in quell'alveare che solo la perversione urbanistica degli anni Sessanta poteva concepire, sono in vendita a partire da 30 mila euro…), nel 18,4 per cento per «mancanza di soluzioni abitative alternative», nel 36,7 per la «presenza di parenti/conoscenti» o perché il posto è «comodo per la posizione rispetto al lavoro». Nessuno è lì, ovvio, perché «gli piace». Certo, spiega la ricerca, «il nodo problematico maggiore è quello della criminalità», «la grande maggioranza del campione (81 per cento) rileva la presenza di sacche di criminalità presso l'Hotel House» e «la maggioranza ha individuato nello spaccio di sostanze stupefacenti la problematica più grave e prevalente; anche i danneggiamenti, le aggressioni, i furti e le rapine vengono citati in modo ricorrente dagli intervistati, anche se con minore evidenza rispetto allo spaccio». Le prime vittime, infatti, sono proprio le persone perbene che vivono all'Hotel House le quali, stando al campione, nella larga maggioranza (73,8 per cento) lavorano regolarmente. Di più, il 70 per cento «dei residenti ritiene la vivibilità dell'Hotel House come minimo mediocre se non pessima», soprattutto per «il degrado dell'edificio e la scarsa manutenzione degli spazi comuni» e più ancora per «la scarsa sicurezza per motivi di violenza e criminalità». Problemi che vanno sradicati dalla cittadella multietnica non solo per la serenità dei marchigiani, che ne hanno assolutamente diritto, ma anche per quella degli stessi abitanti dell'alveare, che vanno sottratti alla dimensione del «ghetto» che tanto ha pesato sul destino dei nostri nonni.
 
 
 
Nella cattedrale il rifugio dei disperati di Mogadiscio
I profughi somali cercano scampo tra le rovine della chiesa
Avvenire, 16-09-2011
NELLO SCAVO
La faccia di Hassan è il ritratto della Somalia. Non c'è posto per altre rughe. Unico vezzo, la barba tinta all'hennè, da vero capovillaggio. I calzari poteva scambiarli con un sacco di cereali per sfamare i nove figli delle due mogli. Non ha esitato. Si è liberato delle scarpe in cambio del foraggio per l'unica mucca sopravvissuta. È così che ha salvato i suoi bambini. «Prima il fieno, poi la farina», urla un operatore della Fao elencando le priorità a uno dei trasportatori locali degli aiuti internazionali. Le mamme dei piccoli denutriti non fanno una piega. «Dipendiamo dalle bestie - sentenzia Hassan, spalancando la bocca completamente sdentata -. Se loro non mangiano, noi crepiamo: niente latte per i bambini, niente concime per i campi. E poi chi traina l'aratro e il carro per portare il raccolto ai mercati?». Le putride carcasse di vacche e caprette indicano la strada verso le fattorie nella regione di Gedo, a ovest di Mogadiscio, tra piste arse dal sole percorse sperando di non incappare in un " posto di blocco " di banditi o guerriglieri al-Shabaab, ammesso che si riesca a distinguere gli uni dagli altri. Qui la Fao ha scommesso su braccianti e pastori. L'idea è dello staff di Luca Alinovi, l'italiano a capo del dipartimento per la Somalia del Fondo mondiale per l'agricoltura e l'alimentazione. Per evitare sprechi e corruzione la popolazione locale viene pagata in contanti (a lavori ultimati) per costruire o ripristinare i canali d'irrigazione, le strade che conducono ai mercati agricoli e le stesse piazze di vendita dei prodotti della terra. «Un incentivo - spiega Alinovi - per spingere la gente a non fuggire, in attesa che a ottobre, quando ci aspettiamo le prime piogge, le coltivazioni possano ripartire anche con la fornitura da parte nostra di sementi e fertilizzanti». I guerriglieri al-Shabaab, per ora stanno a guar-dare. Considerano agricoltura e pastorizia un' attività sacra, gradita all'Islam; contrastarla sarebbe una bestemmia, perciò lasciano fare. Sarà anche per questo che a Mogadiscio sta diminuendo l'afflusso di sfollati. Uno degli ultimi accampamenti si è formato all'esterno della derelitta cattedrale cattolica. Vent'anni di guerra ininterrotta l'hanno trasformata nel bersaglio di ogni milizia. Neanche stavolta i pesanti blocchi di pietra sono voluti venire giù. Prima di abbandonare il cuore della capitale i miliziani fondamentalisti hanno cannoneggiato, come altri in passato, quel che restava dell'edificio mirando alla bella facciata costruita secondo il modello della cattedrale arabo-normanna di Cefalù. Nonostante il tetto sia precipitato al suolo, e le torri laterali siano state cancellate dalla dinamite, la chiesa è ancora l'edificio più alto di Mogadiscio. Tra le rovine   vive   un centinaio di famiglie. Sono tutti   musulmani, ma nessuno ha voluto  accamparsi all'interno delle mura ancora forti della chiesa. Qualcuno avrebbe voluto trasformare l'abside in una latrina. Le donne hanno protestato indicando l'immagine di Maria - l'unica a non essere stata decapitata dai cecchini - «venerata anche da noi islamici», ricorda Habiba Ahmed, 25 anni, mentre aiuta il più piccolo dei cinque figli a fare pipì in un barattolo.
«Di giorno, però, entrano dei ragazzi di Mogadiscio, alcuni sono armati, e la fanno lì», racconta a voce bassa indicando le macerie di un altare interamente ricoperte di escrementi.
Solo nella capitale si contano almeno 18 milizie, tra quelle governative, quelle dei distretti (riconducibili ai signori della guerra che guidano i clan più forti)  e la "guardia personale" dei ministri del governo, i quali a loro volta appartengono ai clan già dotati di propri battaglioni. In città si rivedono le "tecniche", camionette giapponesi sulle quali gli armieri hanno montato potenti mitragliatrici. I fuoristrada sono nuovi di zecca. Uno status symbol portato a zonzo come in una lenta processione, per sciorinare sotto il naso
degli altri clan la propria argenteria bellica. Un deterrente che non si sa fino a quando potrà reggere. Due giorni fa un gruppo di "profughi interni" ha protestato contro il governo provvisorio, accusato di essersi accaparrato parte degli aiuti umanitari destinati ai rifugiati. Non è chiaro quanto la protesta sia stata spontanea, ma nelle stesse ore un centinaio di deputati si è riunito po-lemicamente in un albergo «perché il Parlamento è chiuso». Un modo per denunciare lo strapotere, a loro dire, del presidente Sheik Sharif Sheik Ahmed e del capo dei parlamentari: «Usano il Parlamento come la loro cantina». Habiba dice di non saper ragionare di politica. «È roba da uomini», assicura. Lei non ha più sogni, solo due desideri: «Che anche domani passino a dare da mangiare ai bambini. E magari - quasi si vergogna a dirlo - che rimettano a posto la chiesa, non avevo mai visto niente di così grande e così bello».
 
 
 
Domenica nelle parrocchie la colletta per il Corno d'Africa
Avvenire, 16-09-2011
Si svolgerà domenica prossima, 18 settembre, in tutte le chiese d'Italia la colletta nazionale per il Corno d'Africa. A lanciarla è stata la Presidenza della Conferenza episcopale italiana, che a sua volta ha già messo a disposizione 1 milione di euro, in risposta all'invito di Benedetto XVI a non far mancare «a queste popolazioni sofferenti la nostra solidarietà e il concreto sostegno di tutte le persone di buona volontà».
La siccità che sta affamando il Corno d'Africa, come ha ricordato la Cei, è la peggiore degli ultimi 60 anni. Colpisce oltre 12 milioni di persone - soprattutto bambini - in Somalia, Kenya, Gibuti, Etiopia, Eritrea, e in misura significativa anche in Uganda, Tanzania e Sud Sudan. Di qui l'iniziativa della raccolta straordinaria, per «esprimere solidarietà attraverso gli interventi di Caritas italiana in collaborazione con le Caritas locali». La Caritas italiana da anni è infatti impegnata nel Corno d'Africa, in collaborazione con le Chiese locali, in ambiti diversi: la salute, la lotta all'esclusione sociale, l'istruzione. Quasi 20 anni fa lanciò «una campagna di sensibilizzazione sulla situazione del Paese che purtroppo è ancora drammaticamente attuale».
Per sostenere gli interventi si pos-sono inviare offerte a Caritas Italiana (c/c postale n. 347013-causale: "Carestia Corno d'Africa 2011". Offerte sono possibili anche tramite UniCredit, via Taranto 49, Roma (Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119); Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma (Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474); Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma (Iban: IT 95 M 03069 05098100000005384); Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma (Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113); CartaSi (VI-SA e MasterCard) telefonando a Caritas Italiana, tei. 06 66177001).
 
 
 
Fame, esodo, malattie: un genocidio silenzioso
Avvenire, 16-09-2011
I  diplomatici della folta comunità Onu di stanza a Nairobi pronunciano quelle due parole solo off the record. E "fuori dall'ufficialità" parlano di «genocidio somalo». Un'ecatombe provocata dalla più vigliacca delle armi non convenzionali: la fame. Almeno 29mila, secondo Usaid (l'agenzia Usa per la cooperazione), i bambini uccisi dalla denutrizione. Più di 80mila, secondo stime di vari enti internazionali presenti nel Corno d'Africa, i morti negli ultimi sei mesi. In proporzione molto più dei 25 mila all'anno provocati dai due decenni di guerra che hanno riempito i cimiteri di mezzo milione di nomi. E non è che l'inizio: «750mila persone sono a rischio di morte nei prossimi quattro mesi», avvisa F-snau, il Centro analisi sulla sicurezza alimentare e la nutrizione dell'Orni. Alla Fao non hanno dubbi: «La carestia era prevedibile e governabile». Dall'Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) sostengono che, non fosse stato per la guerra, la maggior parte dei somali avrebbe atteso gli aiuti umanitari in casa, evitandosi un esodo epico e tragico. La carenza di cibo, insomma, è stata usata per colpire laddove la gittata dei cannoni non arriva. «Una mattanza silenziosa - osserva uno dei più alti funzionari delle Nazioni Unite in Africa - con molti colpevoli: i militanti filoqaedisti al-Shabaab, i signori della guerra, la corruzione del governo transitorio di Mogadiscio, l'egoismo dei Paesi vicini, svegliatisi solo quando il fiume di profughi è tracimato in casa loro, e la calcolata indifferenza delle grandi potenze».
Sono oltre 917mila - secondo calcoli dell'Acnur - i somali che attualmente sono profughi nei quattro Paesi limitrofi: Kenya, Etiopia, Gibuti e Yemen. Circa uno su tre è stato costretto alla fuga nel corso di quest'anno. La maggioranza, dunque, si era messa in marcia a causa del conflitto, quando la carestia non era ancora dilagante. I somali sfollati all'interno del proprio Paese sono invece oltre 1,4 milioni. In tutto, un terzo dei 7,5 milioni di abitanti è stato costretto a lasciare la propria casa. Sono i bambini le vittime principali della crisi «politico-militare-alimentare» che ha investito il quadrante. Nei campi etiopi di Dolio Ado i minori di 18 anni costituiscono il gruppo più numeroso: l'80% dei 121mila rifugiati ospitati nei quattro accampamenti dell'area al confine con la regione somala di Gedo. La situazione più estrema si registra nel campo di Kobe, dove l'88,6% degli oltre 25mila fuggiaschi sono bambini e adolescenti, tra cui si contano centinaia di orfani.
Oltre agli alti tassi di mortalità per malnutri-zione acuta e malattie altrove curabili, come il morbillo, preoccupa il numero di fratellini separati o non accompagnati: secondo le prime stime potrebbero essere almeno 2.500 solo nel¬le tendopoli d'Etiopia, mentre cifre ben superiori potrebbero arrivare dal censimento in corso tra i 500mila somali espatriati a Dadaab, in Kenia.
«È imperativo - osserva il rappresentante in Somalia dell'Acnur, Bruno Geddo - potenziare al più presto la consegna di grandi quantità di aiuti alle persone bisognose all'interno della Paese». Gli sfollati, del resto, «continuano a preferire la permanenza nel proprio Paese -racconta Geddo - piuttosto che attraversare un confine internazionale in cerca di assistenza». Un modo neanche tanto diplomatico per dire che, in mancanza di fondi, non si riuscirà a evitare la "mattanza silenziosa". (N.S.)
 
 
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