Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

04 luglio 2014

ESODO SENZA FINE 
Continuano ad arrivare da un anno. E altri tre milioni sono pronti a partire dalla Libia. Per fuggire dalla fame e dalle guerre. Ma l`Europa non fa nulla. E lascia sull`Italia tutto il peso dei soccorsi 
l'Espresso, 04-07-14
FABRIZIO GATTI FOTO DI MASSIMO SESTINI 
Tre milioni di persone hanno cercato scampo negli ultimi mesi in Libia. E cercare salvezza in una terra in cui ogni giorno governativi, milizie, islamisti, banditi si scambiano pareri a colpi di mitra, attentati e rapimenti eccellenti, dà l`idea della disperazione. Tre milioni di persone senza documenti, secondo la stima del ministero del Lavoro libico, fuggite dalla Siria, dall`Eritrea, dalla Somalia 
e da Paesi ancora assenti dall`immaginario della guerra globale, ma con ampie regioni di instabilità, come Mali, Niger, Nigeria, Camerun, Sudan, Congo. Questi sono i numeri sull`orizzonte dell`operazione di salvataggio Mare nostrum decisa dal governo italiano: perché a quei tre milioni di profughi, la Libia non ha nulla da offrire e il limite alle partenze è dato in questo momento soltanto dalla mancanza di imbarcazioni o di soldi per pagare la traversata. Così se da gennaio l`Italia ha gia superato il record 61 mila profughi raggiunto nel 2011, l`anno d`inizio delle rivoluzioni arabe, se non si esclude che a fine 2014 si tocchi la cifra mostruosa di 100 mila arrivi dal mare, potremmo essere soltanto all`inizio del peggio. Una pressione senza precedenti sulla rete di assistenza, già scarsa, di prefetture e Comuni. Mentre il governo italiano sta silenziosamente portando avanti un piano per rifornire di motovedette la difesa libica, già accusata 
di avere sparato contro i pescherecci carichi di profughi e avere provocato il naufragio dell`il ottobre scorso. 
Oltre ai morti delle ultime ore, alle immagini dei sopravvissuti che abbracciano i loro bambini, sono i numeri a smascherare la lontananza dell`Unione europea da quanto sta accadendo. Cominciamo da Frontex, l`agenzia di polizia fondata dieci anni fa e citata più volte dal premier Matteo Renzi, dal ministro dell`Interno, Angelino Alfano, e soprattutto dalle linee guida al nuovo Europarlamento dettate dal Consiglio europeo per i prossimi cinque anni: «Frontex, in quanto strumento della solidarietà europea nel settore della gestione delle frontiere», è scritto nelle conclusioni dei rappresentanti dei 28 governi che si sono riuniti a fine giugno, «dovrebbe rafforzare la sua 
assistenza operativa, in particolare per sostenere gli Stati membri esposti a forte pressione alle frontiere esterne, avvalendosi 
pienamente del nuovo sistema europeo di sorveglianza delle frontiere Eurosur». Parole. Come se l`Europa continuasse a vivere nella sua fortezza protetta dai dittatori amici Muhammar Gheddafi, Ben Ali, Hosni Mubarak e Bashar Assad. Quel mondo è finito. Ma sapete a quanto ammonta lo stanziamento per il 2014 assegnato da Bruxelles a Frontex, per controllare tutti í confini dell`Unione? Sono 89 milioni 197 
mila euro. Poco più di quanto hanno incassato i trafficanti libici ed egiziani in appena sei mesi: cioè 97 milioni 600 mila dollari 
Usa al costo a persona di 1.600 dollari, la valuta richiesta all`imbarco. Più il milione e mezzo pagato dal migliaio di profughi che da ottobre a oggi sono annegati durante il viaggio. Un incasso per i criminali che al cambio supera i 75 milioni di euro. Con centomila profughi, i trafficanti potrebbero ricavare quest`anno più di 150 milioni di euro soltanto dalla rotta che porta in Sicilia. Grecia, Spagna, i riscatti pagati dai familiari dei profughi rapiti e le piste che attraversano il deserto del Sahara e i confini mediorientali sono ulteriori fonti di guadagno per diversi miliardi di dollari. Basta considerare la catastrofe siriana: «I più poveri sono rintanati sotto le bombe. I profughi in movimento appartengono soprattutto alla classe media. La Siria era un Paese ricco. C`è chi è riuscito a mettere in salvo i risparmi, chi ha venduto l`auto, chi la casa prima che venisse distrutta. Quello che è in atto», osserva una fonte diplomatica a Tripoli, «è un colossale trasferimento non solo di persone, ma di ricchezze dalle famiglie alle bande criminali. In cambio della sopravvivenza. La guerra è anche questo». 
Il budget di Frontex è nulla se confrontato con l`impegno finanziario messo in campo dal governo italiano per la nostra Marina militare. Impegno deciso unilateralmente all`indomani delle tre stragi dell`autunno scorso: oltre 640 morti il 30 settembre, il 3 e 1`11 ottobre. Ecco le cifre: 9 milioni al mese per l`operazione Mare nostrum, 20 milioni per il Fondo nazionale per l`accoglienza dei minori stranieri non accompagnati e 190 milioni per il Fondo del ministero dell`Interno per far fronte all`emergenza. Un totale di 318 milioni, in parte finanziati con 90 milioni dal Fondo rimpatri e con 70 milioni dalle entrate Inps versate dagli immigrati per la regolarizzazione o il rinnovo dei permessi di soggiorno. 
Pur essendo in prima linea nel soccorso in mare, l`Italia non ha però rinunciato al progetto di addestrare e armare la Guardia costiera libica sostenuto dall`Unione europea attraverso la missione «Eubam», il piano di sicurezza e difesa comune per la sorveglianza deì confini, Lo rivela l`ambasciatore e inviato speciale dell`Italia in Libia, Giuseppe Buccino Grimaldi, in una intervista al quotidiano "Libya Herald": «Ci sono dieci motovedette in via di consegna alla Libia, sette finanziate dall`Italia e tre dall`Ue», spiega l`ambasciatore a Tripoli: 
« Capiamo che le condizioni all`interno della Libia possono non essere le migliori in questo periodo. Ma noi chiediamo fermamente alla Libia di intraprendere più azioni. Meno del 10 per cento dei migranti che partono per l`Italia, sono fermati dalle autorità libiche». Una richiesta che può nascondere molti rischi. Non bisogna dimenticare che proprio l`equipaggio di una motovedetta libica, la notte dell`i l ottobre forse interpretando alla lettera le richieste di fermezza arrivate in quei giorni dall`Europa, ha sparato raffiche di mitra contro un peschereccio con 500 profughi siriani. I fori provocati dai proiettili sotto la linea di galleggiamento hanno poi fatto rovesciare lo scafo, trascinando in fondo al mare più di 260 passeggeri, tra cui una sessantina di bambini. 
La prima settimana di giugno la Marina libica ha fermato tre gommoni davanti alla costa di Gasr Garabulli, a Est di Tripoli. I militari della Guardia costiera hanno riportato a terra 385 persone. Operazione che si è aggiunta a molte altre precedenti. Lunedì 9 giugno il portavoce della Marina,colonello Ayoub Qasem, ha annunciato la disfatta: «Siamo sopraffatti dal numero di stranieri in arrivo dall`Africa e dall`Asia. Li scarichiamo sul molo, ma non abbiamo né acqua né viveri per assisterli » . I militari libici si lamentano anche perché il ministero dell`Interno non sta dando nessun aiuto. Ma è impossibile immaginare un qualunque piano di soccorso quando per settimane a Tripoli si sono insediati contemporaneamente due governi. E quanto è appena accaduto in Siria e in Iraq, con la proclamazione del califfato, fa prevedere che la prossima a precipitare dì nuovo nel caos potrebbe essere proprio la Libia. 
Tre milioni dì stranieri sono il 50 per cento della popolazione. Un record mai raggiunto nemmeno negli anni del regime del colonnello Gheddafi. Il dato è stato fornito dal ministero del Lavoro di Tripoli all`organizzazione umanitaria «Human rights watch» che l`ha pubblicato nel suo rapporto 2014 sui centri di detenzione in Libia, finanziati dall`Italia e dalla Ue. «La situazione politica in Libia può essere dura», dice Gerry Simpson, responsabile della ricerca: «Ma il governo non ha scuse per torture o altre deplorevoli violenze da parte delle guardie». Racconta un ragazzo somalo, 27 anni, intervistato nel centro per migranti di Tomeina: «Ho visto i guardiani appendere persone a testa in giù ad un albero fuori della porta principale e poi percuoterli e frustarli sui piedi e sulla pancia». 
La presenza in Libia di tre milioni di stranieri senza documenti è comunque difficile da verificare. Ma è giustificata dall`enorme numero di profughi in movimento intorno al Mediterraneo, dalla Grecia alla Spagna. La catastrofe in Siria, prima di tutto, con 6,5 milioni di sfollati bloccati all`interno del Paese e 2 milioni 900 mila censiti dalle Nazioni unite all`estero: in Libano (un milione 117 mila rifugiato su una popolazione di 4 milioni 227 mila abitanti), in Turchia (789 mila), in Giordania (604 mila ),Iraq (225 mila),Egitto (138 mila). Poi la fuga costante di eritrei e somali dai campi profughi in Sudan e la radicaliz7azione di nuovi conflitti in Mali e Nigeria. 
L`estrema destra, con il leghista Matteo Sa lvini in testa, sta accusando la Marina militare di avere contribuito al boom di arrivi grazie ai soccorsi. E quindi anche al numero di morti. Non è così, dice Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, «gli sbarchi hanno cominciato ad aumentare ai primi di luglio, molto prima di Mare nostrum». Per dare ragione a Hein e alla Marina, basterebbe vedere cosa sta accadendo con i respingimenti nel mare Egeo dove lo scorso inverno la guardia costiera greca si è ostinata a trainare un barcone in Turchia, facendolo affondare e provocando così un`altra strage di profughi siriani. Oppure in Spagna, dove il 18 giugno nell`enclave di Melilla la Guardia civil ha lasciato entrare sul proprio territorio una squadra di militari marocchini che hanno ucciso a bastonate quattro migranti inermi scappati al di qua della rete di confine. Dunque, qual è la soluzione preferita dalla civilissima Europa? 
Al nostro governo viene rimproverato che centomila profughi in un anno sarebbero ordinaria amministrazione rispetto alle 126 mila domande di asilo presentate in Germania nel 2013,65 mila in Francia, 54 mila in Svezia, 30 mila in Gran Bretagna. Contro le 28 mila richieste in Italia. In dieci anni il nostro Paese ha comunque accolto più di due milioni di immigrati irregolari, grazie a diverse sanatorie: si è così passati dal milione 994 mila stranieri residenti nel 2004 (3,4 per cento della popolazione) ai 4 milioni 387 mila del 2013 (7,4 per cento). Una pratica mal vista dalla burocrazia di Bruxelles. La figura di profugo economico non è infatti tutelata in Europa: se uno fugge dalla guerra va accolto, ma se scappa da una regione affamata dalla povertà, va cacciato. Il premier Renzi ha sei mesi di presidenza europea per farsi capire. Se fallisce, l`operazione Mare nostrum forse si concluderà. Ma, finché ci sono guerre e profughi, i trafficanti al di là del mare continueranno a fare quello che hanno sempre fatto.
 
 
 
«MARE NOSTRUM» • 834 migranti soccorsi in poche ore dalla Marina. Sbarchi a Crotone 
Pinot* «Campi Onu in Libia» 
il manifesto, 04-07-14
Luca Fazio 
Finalmente una parolina buona. «L`Italia con Mare Nostrum ha salvato migliaia di persone. L`Italia non è sola», ha garantito ieri il Commissario europeo per gli Affari interni Cecilia Malmstrom in un breve intervento al Quirinale. Poche parole, ma inutili. Staremo a vedere. Oggi non morire è la migliore delle non notizie. E quasi mille persone al giorno ormai sono ordinaria amministrazione. Tanto più se ce l`hanno fatta. 
Ieri il «mare nostro» non ha restituito altri cadaveri (anche se visto il traffico intenso sarebbe meglio tacere per scaramanzia) ma solo esseri umani da assistere. Con uno sbarco agevole, quasi lussuoso, quaranta persone, venti donne e venti uomini, sono sbarcate in Calabria (a Crotone) dopo aver viaggiato a bordo di un gommone lungo dieci metri con tre motori fuoribordo. Sono stati tutti trasferiti nel centro di prima accoglienza di Isola Capo Rizzuto. Sono siriani e somali, hanno detto di essere partiti da una non meglio precisata località della Grecia e di aver viaggiato circa 6 ore. Secondo la Guardia di Finanza di Crotone lo stesso gommone - poi abbandonato dagli scafisti - fin dallo scorso maggio potrebbe essere stato utilizzato da una «organizzazione criminale» per trasportare migranti in Calabria. 
Più tradizionale, e drammatica, la rotta degli altri 834 migranti salvati la scorsa notte dalla marina militare nel canale di Sicilia: la nave Vega ha raccolto prima 236 persone e poi altre 195, mentre la San Giorgio ne ha salvate 403 a sud est di Capo Passero. Tre interventi nel giro di poche ore che dicono di una situazione ormai totalmente fuori controllo. 
Intanto resta incredibilmente sullo sfondo, come un ricordo sbiadito, la tragedia dei 45 migranti asfissiati nel peschereccio trascinato nel porto di Pozzallo. Ieri la polizia ha fermato altri due presunti scafisti, e così salgono a quattro le persone accusate di favoreggiamento dell`immigrazione clandestina (per il viaggio avrebbero ricevuto 15 mila euro dai trafficanti). Domani nel comune del ragusano ci sarà una fiaccolata in ricordo delle vittime, lo ha voluto il sindaco Ammatuna, così come la funzione multi religiosa. Non ci sono aggiornamenti invece sui due naufragi avvenuti nei giorni scorsi in cui avrebbero perso la vita altri ottanta migranti. 
Ogni giorno è come il bollettino di una guerra persa in partenza dichiarata dall`Europa. Forse non è un caso se, nel silenzio generale della politica, ieri gli unici a prendere parola sono stati la ministro della Difesa Roberta Pinotti e il capo di stato maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli. L`approccio di Roberta Pinotti ha qualcosa di surreale, se è vero che nel deserto di iniziative messe in campo sta pensando di chiedere al governo libico di coordinarsi con le Nazioni unite per aiutare i profughi. »Il nuovo governo libico - sogna Pinotti potrebbe favorire un`intesa tra quel paese e l`Onu. Si potrebbe chiedere alla Libia di fare richiesta all`Unhcr di intervenire per evitare tragedie ulteriori, magari aprire campi umanitari sotto il controllo dell`Onu». Campi umanitari in Libia: un ossimoro che non tiene conto della storia, della realtà e del trattamento disumano che i migranti hanno sempre subito in Libia. Eppure Pinotti vede «spiragli» per un rinnovato rapporto di collaborazione con Tripoli, anche grazie all`interessamento dell`Europa - »ora ci ascolta». Meno fantasiosa, e chissà come mai non ci ha pensato prima, l`ipotesi («è allo studio») di investire 130 milioni per utilizzare qualche caserma, come «centro di accoglienza». 
Anche l`ammiraglio Luigi Binelli Mantelli lancia una sorta di appello all`Europa: »Deve capire che le coste siciliane non sono il porto d`Italia, ma di tutto il continente. C`è il problema dei rifugiati e lo si deve risolvere sulle coste di partenza, non su quelle di arrivo». È la filosofia della fortezza Europa, ma da buon militare Binelli Mantelli sa che per affidarsi alla Libia «occorre un interlocutore istituzionale certo». E non bande che non hanno alcun interesse a impedire partenze di migranti che pagano migliaia di euro per rischiare assurdamente la vita. 
La situazione è così fluida che si presta come sempre alla drammatizzazione più scomposta, come quando si ipotizzano «invasioni» di milioni di persone pronte a divorare l`Europa, nemmeno fossero cavallette. L`ultima cifra tonda la spara l`Espresso oggi in edicola: »Tre milioni di persone sono pronte a partire dalla Libia per l`Italia» (Alfano aveva detto sei). Insomma, tenendo conto che già quest`anno potrebbero arrivare circa 100 mila migranti, e calcolando i profughi di tutte le guerre, «potremmo essere soltanto all`inizio del peggio». Una valutazione piuttosto ottimistica: il peggio è già stato oltrepassato.
 
 
 
Migranti, l'emergenza rifugiati c'è e in Italia ha caratteristiche diverse 
Il nostro Paese sta affrontando un fenomeno planetario che ha a che fare con numeri che impallidiscono se paragonati con quanto avviene altrove. Anche se  le modalità di arrivo del flusso sulle coste italiane costringe il nostro sistema di salvataggio e accoglienza a sforzi diversi e maggiori, rispetto a quelli imposti ad altri paesi europei dove i migranti arrivano via terra o per via aerea 
la Repubblica.it, 03-07-14
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - "Allarme sbarchi". "Emergenza rifugiati". "Accoglienza in tilt". Tutti sanno che l'Italia sta affrontando in questi mesi un'ondata imponente di profughi. Ma non tutti sanno che i numeri, che il nostro Paese sta affrontando, impallidiscono se paragonati con quanto avviene altrove. Anche se - va aggiunto per chiarezza - le modalità di arrivo del flusso migratorio sulle coste italiane costringe il nostro sistema di salvataggio in mare e d'accoglienza a sforzi diversi e maggiori, rispetto a quelli imposti ad altri paesi europei dove i migranti arrivano via terra o per via aerea. 
L'ondata di arrivi. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha aggiornato il numero di persone sbarcate nel nostro Paese: "Dall'inizio dell'anno sono arrivati in Italia circa 64mila migranti sia nell'ambito dell'operazione Mare nostrum, sia con altre modalità, nel corso di 395 eventi di sbarco". E l'Unhcr stima che siano circa 500 i migranti e rifugiati morti nel Mediterraneo dall'inizio del 2014.
Un'invasione? "Non si può certo parlare di invasione - scrive l'OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) - 50.000 arrivi, anche se diventassero il doppio, rappresentano certamente un numero importante, ma non eccezionale per un Paese di 60 milioni di abitanti, anche  rispetto a quanto già accade in altri Paesi europei, come in Germania (126.000 richieste d'asilo nel 2013) e in Francia (65.000). Numeri che poi diventano quasi residuali se paragonati a quanto accade in Paesi extra Ue: ad esempio il Libano, Paese di 4 milioni di abitanti, ospita 1 milione di rifugiati siriani".
Uno sguardo al di là del mare. Di ritorno proprio da una missione clinico-scientifica in Libano, Aldo Morrone, direttore della Struttura complessa di medicina preventiva delle migrazioni dell'istituto San Gallicano di Roma, racconta a Repubblica.it le condizioni di vita e di salute dei rifugiati siriani in Libano.
 
 
 
Un anno dopo si muore ancora 
l'Espresso, 04-07-14
Bruno Manfellotto
Giusto un anno fa, poco prima che un barcone della speranza si trasformasse nella bara di 366 eritrei e un altro colasse a picco trascinando in fondo al mare 260 profughi siriani, Massimo Sestini scattò una foto eccezionale che si conquistò la copertina dell`"Espresso". L`immagine rifletteva tutta la tragedia che da anni si consuma uguale e terribile nel mare di Lampedusa: l`isola ormai vicina, l`imbarcazione è lasciata al suo destino dagli scafisti tornati alla base e pronti a ricominciare il loro cinico traffico di morte. A bordo uomini si stipano, donne stringono al petto il loro bambino. Un`odissea. Che però non si arresta. Anzi. Nei giorni scorsi Sestini è tornato lì e dall`elicottero ha scattato ancora, inquadrando l`ennesimo barcone alla deriva. 
Sembra quello dell`anno prima, e purtroppo non lo è. È ancora più grosso, ancora più zeppo. Perché, nonostante i morti di allora, nulla è stato fatto, la vergogna si ripete, e i ragazzi di "Mare nostrum" continuano a correre in soccorso di uomini donne e bambini allo stremo delle forze: 6Smila in sei mesi. E probabilmente, se non ci fossero stati domenica scorsa quei trenta migranti morti di soffocamento nella stiva dí un peschereccio al largo di Pozzallo, Ragusa, un`indifferenza di comodo sarebbe tornata a coprire l`infinita tragedia di chi scappa dalla fame e dalla guerra. 
STAVOLTA, POI, C`È UN`AGGRAVANTE. Squisitamente politica. Mercoledì 2 luglio, in stridente coincidenza, Matteo Renzí pronunciava dinanzi al Parlamento di Strasburgo il discorso con il quale apriva ufficialmente i sei mesi di presidenza italiana del Consiglio d`Europa. Naturalmente dando spazio e attenzione alla tragedia dell`immigrazione. Non si può più fare finta di niente: la nuova Europa nata a fine maggio è chiamata alla sua prima importante sfida unitaria; l`Italia a dimostrare che finalmente conta nel club europeo. 
Finora gli esordi sono stati miseri assai. Il dopo elezioni è trascorso in defatiganti trattative su nomine e posti - con un balletto che guarda poco all`Europa e molto a faccende domestiche - e per uno straccio di flessibilità in più nei conti. Per il resto, prima e dopo il voto l`Europa si è voltata dall`altra parte. Lasciandoci soli. 
L`ORGANISMO CHE DOVREBBE fare qualcosa, Frontex, ha sede a Varsavia, a duemila chilometri dal teatro della tragedia, e anche da quello che fa e non fa sembra guardare più al nord che al sud del Continente: l`80 per cento del suo tempo e delle sue risorse è speso a controllare le frontiere dell`est europeo, l`area balcanica, gli aeroporti; i fondi a disposizione - lo spiega Fabrizio Gatti a pag. 48 - sono poco rispetto a quello che spende da sola la Marina italiana (perennemente a rischio tagli da spending review). La crisi economica, inoltre, ha reso l`emergenza più acuta, e la necessità di una politica condivisa più stringente: prima erano gli stessi paesi forti - Germania in testa - a chiedere braccia; ora non sanno più che farsene e la loro unica speranza è che i migranti di Lampedusa se ne restino buoni e zitti qui, che non arrivino mai fino a casa loro. 
Ora, che Bruxelles ci bacchetti per le inumane condizioni di vita nelle carceri italiane è giusto e doveroso, ce lo meritiamo; ma francamente sorprende, e indigna pure, che invece taccia dinanzi a centri di accoglienza-lager dove i profughi vengono trattati come bestie e chiusi perché nessuno li veda; fa rabbia che tremi all`idea di un`invasione - alimentando così populismi e xenofobia - ma non muova un dito quando migliaia di esseri umani muoiono nel mare sul quale si affaccia uno dei paesi fondatori dell`Europa; e fa amaramente sorridere pensare che ora si voglia risolvere tutto nominando un commissario per l`immigrazione senza fissarne - insieme, unitariamente - poteri, compiti, strategie. 
Omertà,indifferenza,miopia. Ma è vano illudersi, perché il fenomeno continuerà e presto riguarderà anche frontiere dalle quali sembra oggi impensabile un esodo. Bisognerebbe avere il coraggio di aprire gli occhi: ci accorgeremmo finalmente di non integrati, precari, disoccupati. La maggioranza del continente, ormai. 
Twitter@bmanfellotto 
 
 
 
L’incubo senza fine di Ezzat e gli altri bimbi rapiti dopo gli sbarchi
Minori sequestrati in Sicilia, i familiari (a Milano) ricattati Ecco l’ultimo orrore del traffico di esseri umani dall’Africa
la Repubblica, 04-07-14
Francesco Viviano
POZZALLO. «Per liberare tuo fratello devi darmi 1.000 euro altrimenti lo ammazzo o vendo il suo cuore, i reni e tutto quanto». Il “fratello” è Ezzat B., 14enne egiziano: uno degli oltre 6mila “minori non accompagnati” sopravvissuti alle traversate sui barconi e sbarcati qui a Pozzallo, ad Augusta e Porto Empedocle.
Ma l’odissea di Ezzat è proseguita anche dopo, quando è stato smistato in un centro di accoglienza per minori di Augusta. Lì ad attenderlo c’erano altri “trafficanti di esseri umani” che, pistola puntata sullo stomaco, lo hanno rapito, infilandolo in un furgone e poi in treno. Fino alla sua nuova “prigione”: un casolare a Priverno, in provincia di Latina, dove ha trovato altri bambini come lui. Sbarcati e rapiti.
Fortunatamente Ezzat e i suoi compagni di prigionia sono stati poi liberati con un blitz dalla Polizia che, un mese fa, ha arrestato anche i loro sequestratori, due egiziani e un marocchino in collegamento con i trafficanti che segnalano l’arrivo in Sicilia di nuove piccole “prede”. Ma quanti altri minori non accompagnati spariscono appena arrivati in Sicilia? Nessuno ha una risposta precisa: si sa solo quanti ne arrivano, ma non quanti ne sopravvivono. Spesso gli scomparsi risultano ancora “presenti” nei centri di accoglienza tra la Sicilia e il resto d’Italia, perché così i gestori incassano ancora le loro rette dalle prefetture. Ma è un business disumano che è stato scoperto per caso quando Nasr, il fratello di Ezzat, residente da anni a Milano dove fa il muratore in nero, ha ricevuto una telefonata dai rapitori che gli hanno chiesto in tono minaccioso di pagare “mille euro, in contanti e subito” per liberarlo. “Altrimenti lo ammazziamo”. Nasr non voleva crederci, ha chiesto di parlare con il fratellino che sapeva doveva arrivare in Italia con uno dei barconi partiti dalla Libia. «Sono prigioniero, ti prego liberami », l’ha implorato il piccolo. Così Nasr ha deciso di assecondare la richiesta dei rapitori. E, il giorno dopo si è presentato all’appuntamento con il carceriere marocchino: alle 10 del mattino alla stazione Centrale di Milano. Avvenuta la consegna dei mille euro per il riscatto, sembrava tutto finito. Ma l’indomani invece di liberare il piccolo, come da accordo, il rapitore chiama Nasr e gli chiede altri 2,000 euro. A quel punto, disperato, il fratello maggiore di Ezzat si rivolge alla polizia di Milano e il questore Savina allerta i suoi uomini per liberare quei ragazzini.
Gli investigatori risalgono all’utenza del carceriere e in 24 ore, con i colleghi di Latina, localizzano la prigione e irrompono in quel casolare nelle campagne di Priverno. Liberano Ezzat e un altro piccolo prigioniero, Ebyd M., arrestano i rapitori, che da anni risiedono tra Gaeta e Priverno. Così Ezzat può raccontare il suo incubo: «Sono partito dal mio villaggio in Egitto ad aprile, arrivando a Skandari dove sono rimasto per circa 15 giorni in attesa di essere imbarcato sul barcone che ci avrebbe portato in Italia. Con me c’erano altre 120 persone: abbiamo pagato dai 2.000 ai 5.000 mila dollari a testa. Poi con una grande nave che a metà strada è stata raggiunta da altre imbarcazioni più piccole sulle quali siamo saliti proseguendo il viaggio fino a quando delle navi della Marina Militare ci hanno soccorsi». E poi? «Accompagnati dai poliziotti siamo stati ospitati in una scuola siciliana dove ci hanno tenuto per tre giorni lasciandoci liberi di girare per il paese. Mentre ero in giro con altri ragazzi sonostato avvicinato da due arabi che mi hanno offerto di farmi fuggire verso nord. Ma volevano soldi e io non avevo più un dollaro... Mi hanno minacciato con una pistola e ci hanno portato a forza in stazione. Abbiamo viaggiato per tutta la notte e quando siamo arrivati in un’altra stazione ci hanno infilati in un furgone e portati in quella casa abbandonata dove ci hanno tenuti per giorni, senza cibo e con poca acqua ».
 
 
 
Rifugiati, quando ad accoglierli c'è un paese già provato da povertà ed altri allarmi 
E' il caso del Libano di 4,5 milioni di abitanti che ha visto negli ultimi tre anni arrivare una marea umana di oltre 1,5 milioni di rifugiati dalla Siria Le falle incolmabili di un sistema sanitario inesistente e che garantisce solo la metà della popolazione
la Repubblica.it, 03-07-14
ALDO MORRONE *
ROMA - Gli occhi grandi dei bambini incontrati nei campi dei rifugiati Siriani in Libano, mi sono rimasti nel cuore e nella mente. Mi sembrava che mi chiedessero "Perché noi? Perché ora? Per quanto tempo ancora?" e mille altre domande. Oltre tre anni di guerra in Siria, una distruzione globale, più di 150 mila morti, circa 3 milioni di rifugiati registrati nei paesi vicini e oltre 6 milioni di sfollati interni nel paese. Un quadro desolante che, al momento, non fa certo sperare per una pace possibile.
Una marea umana di 1,5  milioni. Il Libano è un paese di 4,5 milioni di abitanti che ha visto negli ultimi tre anni arrivare una marea umana di oltre 1,5 milioni di rifugiati dalla Siria. Un paese che già aveva ospitato nella storia degli ultimi 60 anni centinaia migliaia di rifugiati palestinesi che attualmente sono ancora 450 mila. La situazione è molto complessa e difficile. A differenza di quanto avvenuto in Giordania e in Turchia dove i rifugiati sono stati sistemati in campi di accoglienza, in Libano i profughi si sono stabiliti tra le comunità locali, ospitati nelle case di parenti o conoscenti o organizzati in tendopoli dentro i villaggi.
Risposte insufficienti. Le comunità locali, spesso già caratterizzate da condizioni di povertà e scarsità di servizi sanitari, sociali e scolastici, non sono in grado di sostenere il peso ulteriore della popolazione rifugiata che spesso è tanto numerosa quanto quella locale. Le risposte che le organizzazioni internazionali provano a dare sono insufficienti a fronteggiare l'emergenza e la gravità della situazione. La commistione e la condivisione delle stesse ridotte opportunità esistenti tra siriani e libanesi sono la principale causa di tensioni: usufruire degli stessi servizi sociali, sanitari ed educativi e competere, con tanti problemi, nello stesso mondo del lavoro.
Metà dei libanesi senza assistenza sanitaria. Per avere un quadro più completo possibile, in particolare, della condizione di salute in Libano, occorre sottolineare la debolezza del sistema sanitario nazionale. Il 50% della popolazione libanese non possiede un'assicurazione sanitaria ed è priva anche di una protezione sociale di base. Inoltre solo 28 ospedali su oltre 200 sono pubblici. I rifugiati siriani condividono le già scarse risorse e servizi socio-sanitari con i Libanesi che vivono sotto la soglia di povertà. L'85% dei rifugiati vive infatti in 182 aree nelle quali il 67% della popolazione che li ospita vive in condizioni di miseria. Il sistema socio-sanitario libanese è ormai al tracollo completo e non più in grado di far fronte alle necessità sia dei Libanesi che dei rifugiati siriani. I pochi ospedali pubblici non sono più in grado neppure di garantire l'assistenza alle donne che devono partorire, l'esecuzione di interventi chirurgici d'urgenza e il controllo delle malattie infettive e diffusive.
Il disastro di un sistema. Il Ministero della Salute rileva che la domanda di vaccini e di farmaci salvavita è almeno triplicata negli ultimi mesi. Il livello di assistenza alle donne in gravidanza, o durante l'allattamento è ormai sempre più scarso. I livelli essenziali di salute e soprattutto la salute materno-infantile è sempre più lontana dagli obiettivi dello Sviluppo del Millennio proclamati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli anziani, le persone con malattie croniche e degenerative, così come le persone disabili non riescono a ricevere le cure e il sostegno socio-terapeutico di cui avrebbero bisogno.
Il morbillo che fa strage. Tra il 2013 ed i primi cinque mesi del 2014, sono stati diagnosticati oltre 2 mila casi di Morbillo, una malattia esantematica estremamente contagiosa, che presenta tra le principali complicanze, la broncopolmonite, l'otite, l'encefalite e la cheratite. Fino agli inizi degli anni ottanta, quando si è diffusa la vaccinazione contro il morbillo, si calcola che la malattia uccidesse  una media di 2 milioni e mezzo di bambini ogni anno. Nel 2012 sono stati invece "solo" 122 mila le persone uccise dal morbillo, prevalentemente bambini sotto i 5 anni. È del tutto evidente che i casi diagnosticati rappresentino solo la punta dell'iceberg e sono la conseguenza il fallimento delle politiche vaccinali da parte delle istituzioni sanitarie. Sono stati 2.300 i casi di Epatite A, 270 i casi di Epatite B e 150 casi di Epatite C. La Leishmaniasi, malattia ormai rarissima in Italia, è stata diagnosticata in oltre 1.400 persone, così come la Brucellosi, osservata in più di 280 persone. Ci sono stati inoltre più di 500 casi di Febbre tifoide e oltre 260 casi di Meningite. Sono stati 52 i casi di Paralisi acuta flaccida e 9 casi di Poliomielite, malattia eradicata in Europa  
L'infestazione dei pipistrelli. Del tutto recentemente  è stato registrato il primo caso di MERS (Middle East Respiratory Syndrome), patologia causata da un nuovo coronavirus individuato per la prima volta nel 2012 in Arabia Saudita, che è  simile alla SARS (10% di mortalità) ma più acuta arrivando a oltre il 50% di mortalità dei soggetti colpiti  dal nuovo ceppo virale. L'origine non è chiarissima ma un veicolo importante sarebbe costituito dai pipistrelli che infettano degli animali che poi vengono consumati, poco cotti, da persone che vengono in questo modo contagiate. Anche il latte di cammella è stato ipotizzato avere un ruolo nella trasmissione dell'infezione. Si tratta di una nuova pericolosa forma di SARS,  certamente non facile da diagnosticare in aree geografiche come Siria e Libano.
I pericoli silenziosi della denutrizione. La Malnutrizione e la Denutrizione rappresentano un nuovo silenzioso e grave pericolo tra i rifugiati siriani in Libano. Principalmente sono dovute alla mancanza di servizi igienici nei campi, alla scarsità di acqua potabile, alla ridotta capacità delle difese immunitarie soprattutto dei bambini, alla diffusione di malattie infettive ed infiammatorie, ma soprattutto alla mancanza di cibo, di alimenti ricchi in proteine e carboidrati e vitamine, che sono sempre più scarsi tra i rifugiati siriani, oltre che per gran parte della popolazione libanese più povera.  
Dilagano le patologie mentali. La Salute Mentale ha ormai raggiunto livelli drammatici di patologie. In particolare vengono sempre più diagnosticati casi di Depressione, Ansia, Paranoia, e Letargia. Sono numerosissimi i casi di patologie mentali da stress post traumatico. Quest'ultima patologia colpisce rispettivamente tra il 36% e il 63% degli adulti e dei bambini.  Molti bambini rifugiati hanno un estremo bisogno di un supporto psicosociale, a causa dell'esperienza di violenza che hanno vissuto e di cui sono stati testimoni dall'inizio della guerra, ma anche queste figure professionali mancano nei Centri per rifugiati.
Le malattie più frequenti. Le Malattie Gastro-intestinali, il Diabete, l'Ipertensione arteriosa, le patologie Broncopneumologiche, Cardiovascolari ed i Tumori sono diagnosticate in numero sempre maggiore, ma senza ricevere l'adeguato trattamento. Secondo i dati del Ministero della Salute del Libano, nei primi 4 mesi del 2014, sono stati oltre 2.900 i casi di Scabbia diagnosticati tra i rifugiati e oltre 2.800 quelli affetti dalle diverse forme di Pediculosi (Capitis, Corporis e Pubis). Inoltre più di 11.400 sono state le donne in gravidanza che si sono rivolte agli ospedali per essere seguite durante la gravidanza e il parto.
Le patologie sessualmente trasmissibili. Altro grave problema, le cui dimensioni rimangono ancora sconosciute sono i casi di Malattie Sessualmente Trasmissibili, in particolare Sifilide e Gonorrea, in gran parte dovute alle violenza e promiscuità sessuale cui sono sottoposte molte donne rifugiate. Infine numerosi sono i casi di Tubercolosi polmonare che vengono diagnosticati tra i rifugiati. Nei primi 4 mesi del 2014 sono stati oltre 17.000 i casi patologie Tracheo-bronco-polmonari acute diagnosticati e oltre 1.700 quelli di Infezioni cutanee acute. Mentre tra le patologie croniche sono state oltre 1.200 i casi di Ipertensione arteriosa e 920 quelli di Diabete. Tutte le patologie acute colpiscono in gran parte le donne (il 68%).
Le due componenti cruciali. Il progetto che coordino dal punto di vista clinico-scientifico, è realizzato da Armadilla grazie ai fondi dell'Otto per Mille della Chiesa Valdese, intende promuovere il miglioramento delle condizioni socio-sanitarie della popolazione rifugiata e delle comunità libanesi ospitanti, entrambe considerate categorie vulnerabili nel contesto attuale. Il progetto include due componenti cruciali: la riduzione delle tensioni sociali e il rafforzamento della capacità di risposta degli interlocutori locali alla situazione di emergenza sanitaria.
Le priorità d'intervento. Tale attività ha condotto alla identificazione delle priorità di intervento, con la finalità di colmare il "gap" esistente tra i bisogni sanitari esistenti e le risposte date dal Governo Nazionale e dalla comunità internazionale. L'informazione e l'educazione sanitaria della popolazione, e la capacità di diagnosticare precocemente l'insorgere di malattie, rappresenta il metodo più efficace per la riduzione dei rischi sanitari in contesti di emergenza. Il progetto, pertanto, include sessioni informative per famiglie siriane e libanesi sulla promozione della salute materno-infantile, campagne di prevenzione e corsi di formazione per il rafforzamento delle capacità del personale medico e socio-sanitario locale.
Formati 30 operatori. Dal 1° al 8 giugno abbiamo formato più di 30 operatori socio-sanitari sulle tematiche della prevenzione e diagnosi precoce delle malattie trasmissibili. Una campagna di prevenzione della malattie trasmissibili della pelle, condotta insieme al personale socio-sanitario locale, che ha coinvolto più di 500 persone, tra bambini e adulti, tra popolazione rifugiata e comunità ospitante, e che si è svolta nella intera regione del Monte Libano, presso Centri Clinici a Beirut e in una Clinica Mobile per i villaggi più remoti. Il progetto contribuisce a rafforzare l'impegno dell'Italia per sostenere un paese, il Libano, che maggiormente risente dell'impatto della crisi siriana. E per ridurre il trend migratorio della popolazione rifugiata in Italia e in Europa, con conseguenti problematiche di natura sanitaria, sociale ed economica.
La maggioranza di siriani. Nel 2013 le domande d'asilo presentate in Europa sono aumentate del 32%. Il principale Paese d'origine dei richiedenti asilo nell'Unione Europea è la Siria. Le domande presentate in Italia sono state 27.830, con un aumento del 60% rispetto all'anno precedente. Di fronte ai quasi 40.000 sbarchi registrati nei primi 5 mesi dell'anno, e alla previsione che "il trend migratorio sia in crescita", anche a causa della maggior instabilità politica in Siria e nei paesi del Nord Africa, la risposta non può essere che una sola: investire in cooperazione socio-sanitaria ed educativa direttamente in questa area del Mediterraneo e del Medio Oriente, per creare le premesse per una pace giusta e duratura che rispetti l'integrità psico-fisica di ogni persona e la sua dignità. Gli occhi dei bambini continuano ad interrogarmi: ci sarà un giorno un po' più di pace, serenità, dignità e salute anche per loro? Ma il futuro dei nostri bambini, non dipenderà anche dal loro? Potremmo mai essere felici da soli nel Mediterraneo e oltre? Per il momento cerco di preparare la prossima missione a settembre.
* Aldo Morrone,  direttore della Struttura Complessa di Medicina Preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia Tropicale dell'Istituto San Gallicano (IRCCS) di Roma, appena rientrato da una missione di assistenza internazionale a Beirut. (testo raccolto da Vladimiro Polchi)
 
 
 
Istituti religiosi e comunità: porte aperte per salvare i minori
Avvenire, 04-07-14
Claudio Monici
Dioulde dribbla Bourahina e tira il calcio alla vecchia palla di cuoio giallo che finisce d’angolo sotto la panchina di cemento. Sono senegalesi, con quel sorriso puro che solo a 17 anni si può ancora conservare integro, anche se il loro è ammaccato dal vuoto non solo di qualche dente, ma anche dalla solitudine.
Il gioco si ferma e Dioulde che al polso sinistro porta un braccialetto bianco che lo identifica con la sigla scritta a pennarello nero "83F", racconta la storia di un viaggio cominciato in Senegal attraverso il Mali, il Burkina, il Niger, e durato un mese.
E poi quegli altri otto mesi trascorsi in Libia a riparare e lustrare scarpe, come lavoro. Questo racconta. È vago, però, quando gli domandiamo quanto ha dovuto pagare per attraversare il Canale di Sicilia: «Mio fratello (inteso come qualcuno che lo faceva lavorare e non come parentela, ndr), un giorno mi ha messo su un barcone e sono partito». E poi, sempre parlando in francese, aggiunge: "Travailler". Lavorare.
Piazza san Pietro, scalinata della chiesa madre Madonna del Rosario, è qui che incontriamo i due ragazzi, identificati burocraticamente come «minori non accompagnati». Sono ospiti, insieme ad un’altra settantina di ragazzi africani, di alcune strutture messe a disposizione da vicariato, istituti religiosi, suore salesiane e carmelitane di Pozzallo.
«Del resto qualcosa bisognava pur fare e subito per togliere i minori dal centro di accoglienza che ospita gli adulti», osserva il parroco don Vincenzo Rosana. Che ci tiene anche a sottolineare come «purtroppo, anche in questa occasione i mezzi di informazione non hanno aiutato, anzi si sono protesi a creare dell’inutile allarmismo come è accaduto con le storie sulla psicosi delle malattie infettive che potrebbero essere trasportate viaggiando e vivendo in quelle condizioni. E quando allora con un solo aereo che in poche ore trasporta centinaia di persone da un continente all’altro che cosa dovremmo dire?», sentenzia il parroco di Pozzallo.
Sono più di 63mila gli immigrati arrivati in Sicilia dall’inIzio del 2014. Più di tutti quelli arrivati nel solo 2011. E di tutti questi, circa 13mila migranti restano ospitati in 170 località sparse su tutta l’isola. Nelle canoniche, come a Pozzallo, ma anche in strutture alberghiere e agriturismi, oppure come nel campo di baseball americano che abbiamo visitato a Messina. E il totale dei minori non accompagnati raggiunge la "modica" quota di 3.000 ragazzi.
Le vite di Dioulde e dell’amico Bourahina scorrono dentro a questo mare di numeri così alti che ci si domanda: quanto tempo dovranno impiegare le due commissioni esistenti per tutta la Sicilia, a Trapani e a Siracusa, incaricate di vagliare le richieste di asilo politico o di rilascio di un permesso di soggiorno per ognuna di quelle vite? Un anno? Due anni? E se non possono essere regolarizzate queste vite di che cosa potranno vivere nella lunga "immobile" loro attesa, quali desideri si potranno concedere, oltre a quell’accoglienza che garantisce loro vitto e alloggio?
Nelle grandi città Siciliane, lo abbiamo visto a Messina, ma non solo, l’accattonaggio ai semafori è già più che evidente e insistente. Del resto questo viaggio nel Canale di Sicilia non termina con la sola salvezza personale che avviene con lo sbarco sull’isola protetto dalla missione "Mare nostrum". Perché la terra ferma, l’Italia che si congiunge con l’Europa, non è ancora stata raggiunta. E allora: senza un permesso di soggiorno non si può lavorare, quindi per gli uomini non resta che affidarsi al lavoro nero, mentre le donne finiscono sulla strada della prostituzione. Fenomeni già più che evidenti e che vengono sottolineati da più parti.
Il vice parroco di Pozzallo viene dalla Repubblica Democratica del Congo, è qui dal 2011. Si chiama don Bejamin Mujissa, 40 anni. A Pozzallo ci è venuto dritto dritto dalla sua città di Butembo Beni, foresta della regione dei Grandi Laghi.
«Questo è il risultato del problema Africa, ma non solo. Cominciamo a farci la domanda del perché queste persone vengono in Europa e non cosa ci vengono a fare. I problemi sono sempre gli stessi e non vengono sciolti: guerra, fame e mancanza di un lavoro sicuro. Tutto qui – osserva don Benjamin in un italiano da dieci e lode –. I nostri giovani scappano perché non trovano lavoro. Scappano perché cercano una speranza di vita. Quello che qui si sta facendo qualcosa di grande e unico, l’accoglienza. Farli uscire dal pericolo del mare e dare loro un posto per riposare è una grande cosa. Poi io mi auguro che le grandi autorità internazionali sappianmo anche allargare al bisogno garantendo a queste persone un futuro certo».
 
 
 
Asmara-Milano passando per la Libia "Dove è meglio non farsi vedere in giro, ché li ti sparano"
Le testimonianze di rifugiati eritrei a Milano che sognano di arrivare in Germania. Storie si ascoltano sotto gli alberi di piazza Oberdan, storico quartiere eritreo in pieno centro. Soprattutto adolescenti soli e uomini, ma anche donne e bambini; da una sera all'altra, non sono quasi mai gli stessi, perché il capoluogo lombardo è  terra di transito in attesa di ripartire andare verso il Nord Europa
la Repubblica.it, 03-07-14
STEFANO PASTA
MILANO - Filimon, 17 anni, trema di freddo anche se è giugno e indossa un giaccone caldo. È scappato dall'Eritrea tre anni fa per evitare il servizio militare. Dopo aver attraversato l'Etiopia, il Sudan, la Libia, poi la barca, Agrigento e ora Milano, sogna di arrivare in Germania per aiutare i suoi fratelli. Facendo il segno della pistola, indica una ferita al braccio che ha fatto infezione e spiega: "In Libia è pericoloso girare per le strade". Accanto a lui, un ragazzino di 14 anni, che viaggia solo, racconta che suo fratello Yesuss ha preso una barca, ma non risponde più via Facebook e non sa se sia rimasto in fondo al mare o in qualche parte d'Italia.
In fuga dalla dittatura. Anche un ex insegnante di biologia, che tutti chiamano "Teacher", mi mostra la foto di un nipote di cui non ha notizie. "Teacher", che è stato rapito per 5 mesi nel deserto del Sinai finché i parenti non hanno pagato il riscatto, fugge da una delle dittature più dure del mondo, quella di Afewerki. Mi spiega: "Tutti hanno paura, perché se parli male del governo in pubblico rischi di essere denunciato. Fare questo viaggio è pericoloso, ma almeno qui sono libero di parlare con te. Anche a scuola chiedono ai bambini di spiare i genitori in casa".
Nel quartiere eritreo di Milano. Queste storie si ascoltano sotto gli alberi - e a volte la pioggia - di piazza Oberdan, storico quartiere eritreo in pieno centro di Milano. Sono soprattutto adolescenti soli e uomini, ma anche alcune donne e bambini; da una sera all'altra, non sono quasi mai gli stessi, perché il capoluogo lombardo è uno snodo di quello che è diventato l'Italia: una terra di transito, in cui ci si ferma qualche giorno, in attesa di ripartire andare verso il Nord Europa.
Un luogo di transito. Da metà maggio ad oggi, una parte dei profughi eritrei (2.343 persone) ha trovato ospitalità nei dormitori del Comune, dove ogni sera sono ospitate 200 persone. È una nuova emergenza umanitaria che si unisce a quelle dei siriani che transitano da Milano (oltre 10.600 dalla fine di settembre). Da tempo il Comune chiede a Roma di assumere la regia: "Arrivano circa mille rifugiati al giorno  -  spiega Pisapia  -  siamo veramente al limite. La responsabilità è del Governo, che non dà disposizioni in modo da diluire l'accoglienza, e in particolare del ministero dell'Interno, che non è riuscito a distribuire su tutto il territorio in modo da diversificare le responsabilità e anche la capacità di accoglienza". Fino a due settimane fa, per gli eritrei la Prefettura negava un'accoglienza simile a quella organizzata per i siriani. Così, a inizio giugno, Tsega, 11 mesi, ha passato tre notti milanesi per strada; stessa sorte di Lucy, al quinto mese di gravidanza.
Una rotta alternativa. I profughi arrivano quasi tutti dalla rotta libica e dagli sbarchi del Sud Italia, anche se qualcuno, dopo il Sudan, ha puntato su una strada alternativa: Egitto, Siria, Turchia, Grecia, Macedonia, Albania, per poi attraversare l'ex Jugoslavia in camion fino la frontiera di Trieste. Come Mered, che ha perso due dita sulle montagne macedoni per il freddo.
Quando la solidarietà ha un prezzo. Alcune persone di origine eritrea ed etiope di Milano  -  giovani cresciuti qui, ma anche adulti emigrati anni fa  -  ogni giorno spiegano ai profughi come accedere ai dormitori. Per loro, quest'aiuto ha un prezzo: i loro nomi sono stati schedati da "spie" del consolato, rischiano di non avere i passaporti rinnovati perché "traditori" e la parte della comunità eritrea milanese vicina a Afewerki li critica aspramente. Con loro, la Comunità di Sant'Egidio da inizio maggio distribuisce cibo e acqua, ricevendo la gratitudine dei profughi: "God bless you" è la frase più ricorrente, pronunciata sia da cristiani che da musulmani. Altri milanesi si sono uniti a Sant'Egidio, dalla maestra che ogni sera distribuisce la frutta avanzata a scuola, ad alcune famiglie che hanno aperto le proprie case per ospitare donne e bambini.
Notizie da chi passa la frontiera. Appena arrivano i soldi dai parenti all'estero, ci si affida ai passeur per attraversare le frontiere europee. Via Facebook arrivano le notizie agli amici di Sant'Egidio: Teun è a Calais, in attesa di attraversare il tunnel della Manica, Morow ha dovuto scegliere la Svizzera perché andare più lontano costava troppo; Abdallah invece è riuscito a raggiungere la Germania, chiama via Skype e presenta i parenti. Moses scrive in inglese a un amico milanese: "Caro Fratello, grazie per quella notte che mi hai accompagnato al dormitorio: non vedevo un letto da settimane. Ora sono arrivato in Svezia, inizia il sogno di una nuova vita".
 
 
 
Gradisca d’Isonzo - Perché non riapra mai più
In queste ore si susseguono informazioni su una possibile riapertura nel 2015. i lavori sono quasi ultimati. La politica gioca ancora sulla pelle dei migranti e la vita dei territori
Melting Pot Europa, 03-07-14
Sul CIE di Gradisca regna grande confusione. Secondo i piani del Viminale, sembra, la struttura di via Udine, chiusa dopo le rivolte di novembre, potrebbe ritornare ad essere la prigione di centinaia di migranti rinchiusi fino a 18 mesi tra le pareti di quel lager d’acciaio e cemento già nei primi mesi del 2015. L’ultimo passaggio, che assomiglia ad una flebile speranza, avverrà in questi giorni quando la neo-eletta Linda Tomasinsig, Sindaco di Gradisca, cercherà di mantenere aperta un’ipotesi contraria all’apertura, portando le istanze delle istituzioni locali di fronte al Comitato parlamentare per l’applicazione dell’Accordo di Schengen.
La storia del CIE di Gradisca è una storia di violenze e corruzione, di distorsioni prodotte sulla pelle dei migranti e di un intero territorio. Ma quella del CIE è anche una vicenda segnata da decine di denunce e rapporti di associazioni, movimenti e organi istituzionali (non ultima la ASL che ravvisava una intrinseca inadeguatezza all’accoglienza delle persone), che in questi anni hanno portato alla luce la realtà di un luogo considerato inumano anche dalla stessa magistratura. Ma quella del centro è soprattutto una storia di rivolte, una lunga stagione di ribellione da parte di chi si è opposto senza mezzi termini allo scempio della dignità, alla violazione sistematica dei propri diritti, fino a rendere largamente inagibile la struttura a tal punto da costringerne la chiusura.
Solo qualche mese fa alcune dichiarazioni confuse del Ministro Alfano avevano aperto la speranza di una chiusura definitiva del capitolo Gradisca. Sul piatto il Ministro aveva aperto all’ipotesi di un allargamento del CARA (che occupa metà del centro di via Udine). Anche da questo punto di vista le istituzioni locali avevano puntualizzato che, un eventuale allargamento del Centro per Richiedenti Asilo, doveva comunque servire per mettere fine al suo sovraffollamento e non invece ad aumentare i posti di un luogo di attesa che non permette di costruire alcuna condizione di inserimento, come invece potrebbe fare la progettazione di una accoglienza diffusa e ragionata sul territorio.
Qualsiasi sia però l’ipotesi, gli scenari che si sono aperti in questi giorni gettano lunghe ombre sul destino del centro. Perché mentre nel Mediterraneo si continua a morire, i lavori di ristrutturazione della struttura si avviano alla conclusione, che avverrà probabilmente entro ottobre. Alfano parla di una “rimessa in opera” del centro, con un totale di 800 mila euro spesi. E questo non fa ben sperare. Perché i plexiglas protettivi, il rafforzamento delle recinzioni e dei sistemi di sicurezza, non possono che gettare l’allarme sulla volontà di riaprire il CIE o peggio, introdurci in un scenario in cui, un ipotetico allargamento della struttura per richiedenti asilo, li vedrebbe costretti a vivere una nuova forma di “accoglienza” fatta di sbarre e gabbie.
Da ogni punto di vista, insomma, salvo sorprese dell’ultima ora, il futuro del centro di Gradisca d’Isonzo dovrà ritornare con forza al centro della nostra attenzione. Perché la storia di quel CIE e delle battaglie per la sua chiusura è un patrimonio di memoria troppo prezioso per essere cancellato dall’ostinazione della politica europea sull’immigrazione, fatta di frontiere e mura di cemento armato nel tentativo di imbrigliare la libertà di movimento e la dignità degli esseri umani.
Frontiere e confini che però si passano facilmente a pagamento mentre le guardie guardano ma altrove. Mura di cemento che servono da istituzione totale di ammonimento e controllo e nemmeno al loro scopo statutario.
Eppure, di nuovo, forse già ad ottobre di quest’anno, il Cie di Gradisca sarà in grado di contenere 238 persone. Il prefetto Vittorio Zappalorto sostiene: “la mia esperienza nel settore mi suggerisce di considerare in un’ottantina il limite massimo di immigrati da ospitare. Andare oltre a questo numero in caso di rivolta comporterebbe conseguenze pesanti sotto il profilo dell’ordine pubblico.”
Ecco, è proprio questo il punto: non si tratta di comprendere quanti o quali migranti debbano essere trattenuti, ma di cancellare definitivamente l’esistenza di un luogo in cui sono necessari psicofarmci per non impazzire, lamette da barba e pile ingoiate per potersi allontanare dall’incubo e passare qualche giorno in infermeria, lacrimogeni per privare della libertà, mura per contenere il desiderio legittimo di vivere liberi.
Perché se di confini si muore nel Mediterrano, sappiamo che di confini si muore anche quando questi prendono la forma di galere etniche, come è successo a Majid, morto in aprile perché caduto dal tetto durante una rivolta, mentre la polizia sparava i lacrimogeni sui migranti all’interno del centro.
E allora, se pensate di cancellare la storia delle vostre brutalità non abbiate dubbi, non temete, ci rivedremo davanti a quelle mura, per ricordarvi il nostro No al CIE di Gradisca, perché rimangano vuote veramente, questa volta per sempre.
 
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