Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 febbraio 2014

Migranti, l'accoglienza è davvero possibile
Avvenire, 12-02-2014
Alessandra Turrisi
Tra quelle mura risuonano i primi vagiti di una nuova vita, si studiano i primi rudimenti dell’italiano, si danno calci a un pallone, sperando che un giorno, il più presto possibile, la propria esistenza possa svolgersi fuori da lì, magari in un altro Paese, con un lavoro, una famiglia, una casa.
È difficile restare sereni quando ci si è lasciati alle spalle anni di privazioni e violenze, si è tentato il tutto per tutto a bordo di un barcone che ha sfidato le onde del Mediterraneo e si affronta l’incognita di un futuro da rifugiati. I volontari delle strutture ecclesiali che hanno aperto le loro porte ai migranti provano in ogni modo ad alleviare l’attesa e riempirla di contenuti.
Casa famiglia Rosetta, forte dei suoi trent’anni di accoglienza di malati e disabili, è riuscita ad aprire l’istituto San Pio X di Partinico a circa 25 migranti somali e a una coppia nigeriana, giunti nel paese della diocesi di Monreale proprio la sera del 3 ottobre, mentre a qualche chilometro di distanza, nel mare di Lampedusa, si contavano i morti della terribile tragedia del mare.
«I volontari insegnano l’italiano a queste donne somale, che invece aiutano nella gestione della casa – spiega don Vincenzo Sorce, fondatore di Casa Rosetta in Sicilia –. Abbiamo anche allestito un laboratorio con macchine da cucire, per insegnare a queste donne un mestiere. Il centro è polifunzionale: ha la mensa per i poveri, accoglie i malati di Aids a Casa Puglisi e adesso anche i profughi. E poi questa nuova occasione ha svegliato belle risorse di volontariato in paese. Si sentono tutti coinvolti nell’offrire qualcosa a questi migranti». Soprattutto da quando, in questa grande famiglia, è scoppiata la scintilla della vita. Il 9 dicembre a rompere la routine dell’attesa è nato Destiny, il bimbo di una giovane coppia di nigeriani, Adesua ed Emma. Una gioia immensa che ha travolto tutti. A Natale il vescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, ha visitato il centro di accoglienza e sono stati donati culla e corredino al piccolo Destiny.
A giorni è prevista un’altra nascita, questa volta del figlio di una donna somala. E un nuovo fiocco rallegrerà la porta del San Pio X. Recuperato per i migranti anche uno spazio in una storica struttura d’accoglienza di Palermo, l’istituto casa lavoro e preghiera di Padre Messina, proprio sul mare. Dove nei primi del Novecento venivano accolti orfani e bambini di strada, da un paio di settimane sono arrivati 19 pachistani e un nigeriano, grazie alla disponibilità delle suore dell’istituto che ha messo a disposizione il punto incontro giovani e della Caritas palermitana, guidata da don Sergio Mattaliano.
«Utilizzare strutture in centro storico non era possibile per motivi di sicurezza, così siamo riusciti a trovare questo spazio che storicamente era destinato all’accoglienza» ricorda il vicedirettore della Caritas diocesana, Mario Sedia. Ma c’è anche chi ha le spalle larghe dell’accoglienza da anni, come il convento di Sant’Antonio dei frati minori francescani di Favara con la “Tenda di Abramo”, avviata a fine 2011. Con fra’ Giuseppe, fra’ Salvatore e fra’ Juan vivono sedici “fratelli” nigeriani, afghani, romeni, del Mali, ci sono cattolici, musulmani, ortodossi.
Tutti lavorano alla gestione della struttura, all’orto, agli animali, alla cucina, alla pulizia. Aspettano con ansia la valutazione del loro status di rifugiati, sognano un lavoro, magari lontano da qui. E un punto di riferimento è don Beniamino Sacco, a Vittoria, in provincia di Ragusa, che da anni ospita migranti provenienti da ogni parte dell’Africa e dell’Asia, nei locali della chiesa Spirito Santo. Chiunque bussi a questa porta, troverà un posto: qui possono dormire fino a 80 persone, ma ogni mese il centro arriva a distribuire alimenti a 950 famiglie.
Accoglienza, un letto per dormire, un piatto caldo, ma soprattutto socializzazione e inserimento. Lo racconta la stessa comunità dello Spirito Santo. All’inizio il centro di accoglienza era limitato a un saloncino adibito a dormitorio. Progressivamente sono stati realizzati i servizi igienici, le camere, la mensa con un ampia cucina, un cortile attrezzato di panchine e fontane per il relax e la socializzazione e un campo sportivo con relativa tribuna. L’obiettivo di don Beniamino è quello di trovare un’occupazione per coloro che chiedono aiuto, perché il bisogno e il disagio sociale rende schiavi.



Una Carta di Lampedusa per ridisegnare geografia e frontiere
Corriere.it, 12-02-2014
Andrea de Georgio
Arrivare a Lampedusa non è un’impresa facile. Per nessuno. Non lo è di certo per le migliaia di migranti che arrivano ogni anno, sfidando le onde del Mediterraneo. Ai loro occhi impiastrati di viaggio l’isolotto luccica come un approdo, l’agognata fine di anni di peregrinazioni, fra sabbia e compagni caduti, prigioni fisiche e mentali, violenze e dispendio economico. Migliaia ne ha inghiottiti il mare.
    Gli ultimi mille sono arrivati la settimana scorsa.
Anche per le circa trecento persone che hanno partecipato, dal 31 gennaio al 2 febbraio, all’incontro per la stesura della Carta di Lampedusa non è stato facile raggiungere l’isola. D’inverno, senza i turisti, i collegamenti sono rari. Spesso a causa delle avverse condizioni climatiche, aerei e traghetti dalla Sicilia non partono per giorni. Chi non ha trovato posto sui piccoli bimotore (ce ne sono 3 al giorno) ha dovuto prendere la nave notturna che da Porto Empedocle, Agrigento, lotta per nove ore contro uno scirocco da 17 nodi per raggiungere Lampedusa. Attivisti, giuristi, avvocati, operatori sociali, laici comboniani, cooperanti, giornalisti venuti dai quattro angoli del pianeta: Canada, Tunisia, Israele, Nigeria, Turchia, Belgio, Chad, Francia, Austria, Senegal, Germania, Australia, Italia. Tutti a Lampedusa per una tre giorni di dibattiti, scambi e produzione di un nuovo documento, condiviso e dal basso, delle migrazioni.
I ragazzi di Melting Pot, l’associazione che ha lanciato l’idea della Carta, non hanno dubbi:
    “Abbiamo deciso di ritrovarci qui nonostante – o forse proprio per – le difficoltà logistiche a raggiungere l’isola. Il mondo intero conosce Lampedusa solo per le stragi, come quelle del 3 e 11 ottobre scorso, per gli scandali e le rivolte al centro d’accoglienza. Ma quest’isola è molto di più. Lo si capisce solo venendoci, soprattutto d’inverno. Vorremmo che Lampedusa diventasse un modello, un faro da cui partire per rivedere le politiche europee e mondiali di regolamentazione dei flussi migratori”.
Il primo giorno hanno preso la parola i lampedusani, eterni dimenticati da associazioni e istituzioni. Dopo l’intervento della sindaca Giusi Nicolini, a parlare sono stati imprenditori, studenti, donne e pescatori. Da tutti la stessa richiesta:
    “Non dimenticate noi e le comunità locali “di frontiera”, in prima linea in tema d’accoglienza. Siamo l’altra faccia della stessa medaglia.”
Il secondo giorno di lavori, invece, è stato dedicato alla stesura vera e propria del documento. La bozza, scritta nei mesi che hanno preceduto l’evento attraverso DocuWiki (strumento open source di Wikipedia) e durante 3 assemblee in diretta streaming in decine di città italiane ed europee, è stata discussa, modificata e votata all’unanimità dall’assemblea plenaria. “Un successo inaspettato”, mormorano increduli gli organizzatori. I principi fondativi della Carta di Lampedusa (consultabile e sottoscrivibile qui) ricalcano in parte quelli precedentemente espressi dalla Carta Mondiale dei Migranti, redatta a Gorée, in Senegal, nel febbraio 2011.
    Punti cardine sono l’affermazione della necessità di chiudere subito i Cie, centri d’identificazione ed espulsione (quello di Lampedusa è stato chiuso, ufficialmente “per ristrutturazione”, dopo lo scandalo dei trattamenti anti-scabbia di oltre un mese fa), l’abolizione del reato di clandestinità e la revisione degli Accordi di Dublino che regolano i flussi migratori in sede europea.
Nel preambolo c’è tutta la portata visionaria e idealista di tale documento:
    “La Carta di Lampedusa non è una proposta di legge o una richiesta agli stati e ai governi. […] Si fonda sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata. Le differenze devono essere considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere.”
La terza giornata, infine, è stata la volta delle testimonianze dirette dei partecipanti all’incontro e delle prospettive future d’applicazione pratica e riaffermazione dei principi contenuti nella Carta. Fra le varie proposte, la creazione di gruppi di lavoro specifici per redigere delle appendici alla Carta (ad es. un nuovo glossario delle migrazioni e una parte prettamente giuridica) che verranno raccolte e discusse collettivamente su un blog ancora in costruzione. Prospettiva transnazionale e partecipazione dal basso sono gli ingredienti salienti di questa iniziativa.
    “Stiamo creando una nuova geografia politica, territoriale ed esistenziale”, questa l’ambizione dei partecipanti.
Si riparte da Lampedusa, dunque. L’isola che non c’è, più vicina alle coste del Nordafrica che a quelle dello stivale. La prova geografica della nostra presenza storica e culturale nel ventre del Mediterraneo, un mare che non può e non deve più essere considerato come solo nostrum.



Governo elvetico alle strette: «Seguire la volontà popolare» Ma si cerca una scappatoia
Corriere della sera, 12-02-2014  
Claudio Del Frate
Il si all'introduzione delle quote per gli immigrati ha messo il governo svizzero con le spalle al muro: pur avendo espresso parere contrario allo stop agli stranieri, l'esecutivo di Berna si trova adesso obbligato dalla Costituzione a elaborare una nuova legge che salvi la capra della volontà popolare e i cavoli degli impegni assunti con la Ue. «La situazione è oggettivamente difficile ma non è la fine del mondo» ha provato a stemperare il clima Didier Burkhalter, ministro degli esteri e attuale presidente della Confederazione al termine di un incontro con la commissione Esteri del Parlamento tenutasi ieri mattina.
Il governo ha davanti a sé un cammino obbligato: in ossequio all'esito del referendum deve preparare un disegno di legge da sottoporre alle Camere che tenga conto dei nuovi principi (numero chiuso per i permessi da concedere a immigrati e frontalieri, precedenza per gli elvetici nell'assegnazione dei posti di lavoro). Per fissare il tetto di nuovi ingressi verranno sentite anche le parti sociali. «Fino a oggi —ha però subito puntualizzato Alain Voiblet, vicepresidente dell'Udc, il partito che aveva promosso la consultazione — l'unico criterio applicato è stato quello delle necessità dell'economia. Ora sulla bilancia va messo anche l'impatto dell'immigrazione sugli alloggi, sulle infrastrutture e cosi via».
Nel frattempo Berna dovrà vedersela anche con Bruxelles che già ieri ha chiesto il rispetto degli accordi sulla libera circolazione firmati nel '99, minacciando in caso contrario sanzioni. Se scattasse la «clausola ghigliottina» e tutti i patti Svizzera- Ue dovessero saltare, le conseguenze sarebbero pesanti: il riconoscimento dei titoli di studio, la possibilita per gli studenti svizzeri di aderire al programma Erasmus, la cooperazione nel campo della ricerca scientifica, la libera circolazione di merci e capitali svizzeri nell'area comunitaria sono tutti vantaggi che potrebbero scom- parire.
«L'approvazione della nuova disciplina — fa notare Ignazio Cassis, deputato ticinese liberale — non andrà in porto prima del 2016 e nel frattempo rimarrà in vigore la legislazione attuale. Ma paradossalmente la nuova norma, una volta approvata potrebbe essere sottoposta a un ulteriore referendum. E a quel punto, visto anche come si è spaccata l'opinione pubblica pochi giorni fa, il freno all'immigrazione potrebbe essere bocciato riportando l'intera materia al punto di partenza».
La democrazia diretta, insomma, è bella ma anche complicata persino per una comunità relativamente piccola come la Svizzera. In più l'irritazione mostrata dall'Europa subito dopo l'esito del voto di domenica ha impresso all'intera questione un'accelerazione dei tempi. Didier Burkhalter ha già avviato un calendario di consultazioni con i principali partner continentali per provare a spiegare la situazione che si è venuta a creare. Prima trasferta in programma, già nei prossimo giorni, a Berlino per incontrare Angela Merkel.



Svizzera - Siamo tutti stranieri: il corto circuito del confine
L’Europa trema dopo il referendum svizzero.
Melting Pot Europa, 12-02-2014
Nicola Grigion
Eritrei, marocchini, tedeschi, italiani, perfino lombardi. Il 50,3% della Svizzera ha detto di non voler più nessuno. La cavalcata referendaria dell’UDC, il partito populista svizzero che contro tutti ha portato avanti la campagna contro l’"immigrazione di massa", fa tremare l’Europa, ma propone immediatamente un corto circuito inimmaginabile.
Il referendum porta con sé diverse questioni. La prima, la più evidente, è quella che attiene alle spinte nazionalistiche che, non solo in Svizzera, ma in tutta Europa si stanno facendo largo. Un pensiero anti-europeo che si intreccia ormai inscindibilmente con razzismo e xenofobia. D’altronde la crisi è anche questo. Ragion per cui il problema che tutti abbiamo di fronte va molto oltre la battaglia contro l’austerity, ma pone immediatamente una necessità costituente: l’affermazione di uno spazio di alternativa.
Eppure, anche sul terreno degli effetti della crisi, a ben guardare la situazione elvetica, di tutto si può parlare meno che di invasione e di disastro economico. I tassi di disoccupazione sono tra i più bassi d’ Europa, nelle zone più interessate dall’immigrazione, lì dove gli "stranieri" sono un bacino di forza lavoro essenziale per l’economia svizzera, i sostenitori del referendum non hanno avuto vita facile, mentre è proprio dove la presenza di immigrati è più bassa che il partito del SI ha fatto bottino pieno. Questo la dice lunga sulla dimensione simbolico/mistificatoria di questa battaglia referendaria e sulla posta in gioco ben più ampia che si gioca in questa vicenda. Come per la Francia e per l’Olanda, ed in parte anche per l’Italia, è intorno all’evocazione della protezione del mercato del lavoro e ad una presunta difesa dell’economia statuale che i nazionalismi trovano spazio. La retorica del confine si mischia quindi a quella della difesa nazionale rendendo qualsiasi discorso anti-europista che non ponga il problema dell’alternativa immediatamente escludente. La retorica protettiva, il richiamo continuo al linguaggio delle frontiere, dell’esclusione e dell’egoismo sono non solo un rischio ma una realtà..
Insomma, la guerra ai migranti ed il discorso sul lavoro che non c’è, non sono certo cosa nuova. In Svizzera però ne scopriamo senza mediazioni le reali implicazioni.
Di nuovo infatti c’è l’oggetto di questa diatriba. Con la sola eccezione del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, troppo impegnato a sfornare comunicati stampa e dichiarazioni roboanti, in molti, perfino Roberto Maroni, hanno notato una differenza non da poco nella battaglia referendaria elvetica.
Certamente lo hanno fatto i sessantamila frontalieri italiani che rischiano ora di trovarsi la frontiera, ed il futuro lavorativo, sbarrati dal meccanismo delle quote.
In barba agli obblighi internazionali in materia di asilo sottoscritti proprio a Ginevra nel 1951, il referendum svizzero impegna il governo a stabilire un tetto massimo di permessi rilasciati a chi fugge dalla guerra e richiede protezione. Allo stesso tempo, oltre ovviamente ai permessi per lavoro, verrebbero sottoposti al meccanismo delle quote anche le autorizzazioni rilasciate a chi vuole ricongiungersi con la propria famiglia. Una aberrazione. Ma tutto questo, pur gravissimo, sembra avere un carattere piuttosto residuale. Ciò che sembra più importante in questa faccenda è che tutto ciò non riguarda solo gli "invasori" nordafricani o i "disperati" subsahariani, ma per primi i cittadini dell’UE. Per la verità il dibattito era stato aperto già dal premier britannico Cameron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel quando solo un anno fa ponevano il problema di una crescente mobilità di cittadini UE verso Inghilterra e Germania, con forti preoccupazioni per le ricadute occupazionali dovute all’esercizio di una libera circolazione interna non selettiva.
L’Europa, che ha un bisogno vitale di mobilità interna, ha al tempo stesso da sempre la necessità di regolarne le spinte. Un vero e proprio corto circuito che la Svizzera racconta senza mediazioni.
Non è un caso che la libera circolazione sia solo l’innesco di una catena di conseguenze che investono invece la complessa sfera degli accordi bilaterali stipulati dall’Ue con la Svizzera. L’applicazione del testo del referendum potrebbe avere infatti impreviste ripercussioni su una serie di questioni strategiche che fanno guardare alla vicenda elvetica con preoccupazone. Il potenziale epicentro di un terremoto i cui effetti sono ancora tutti da scoprire, non solo per il mercato interno, ma soprattutto per lo spazio politico di negoziazione aperto proprio nel cuore di quell’Europa che sui confini e la loro funzione selettiva ha fondato gran parte della sua costruzione. Chi di confini fersice di confni perisce, verrebbe da dire.
Come l’Europa risolverà il suo rapporto con la Svizzera è un rompicapo non da poco. Ma la vera domanda è un’altra. Quale sarà infatti la risposta dell’Unione di fronte all’avanzata delle forze anti-europeiste nell’intero continente? Certo la Svizzera, rispetto ad altri paesi, per la natura eccezionale del suo "rapporto" con l’UE ha avuto ampi margini di manovra, impensabili per altri stati interconnessi ormai in maniera strutturata, anche dal punto di vista normativo e giuridico, con gli Istituti dell’Unione. Ma si tratta di un campo di tensione inedito, dagli sbocchi piuttosto incerti. Se l’Europa, a breve chiamata a rieleggere il suo parlamento, saprà fare un balzo in avanti nella costruzione di uno spazio europeo (e oltre lo spazio europeo) capace di invertire radicalmente le sue politiche di austerità e di confine, o se invece proprio per detonare la minaccia dell’avanzata nazionalistica gli Stati dell’Unione accompagneranno questi processi cercando di intensificare le politiche del confine (con la revisione degli accordi di libera circolazione interna, nuove norme ferree nei confronti dei cittadini di paesi terzi, etc, etc) è una questione più che mai aperta.
Se guardiamo alla vicenda svizzera andando oltre la retorica anti-immigrati, potremmo riuscire a capire quanto la gestione della circolazione, delle frontiere, della mobilità selettiva, sia un nodo cruciale per la ridefinizione dell’Europa, un terreno su cui siamo tutti coinvolti.
La Svizzera insomma ci fa riscoprire tutti migranti. E’ forse su questo punto che vale la pena di iniziare a ragionare per abbattere, insieme all’Europa dell’austerity, anche i suoi confini.
Carta di Lampedusa, Parte II, libertà di scelta II
La Carta di Lampedusa afferma la necessità di abrogare tutte le norme nazionali e internazionali, con particolare riferimento alla normativa europea che discende dal trattato di Schengen, che limitano la libertà di movimento, di restare e di scegliere dove vivere dei cittadini europei e di quelli provenienti dai cosiddetti paesi terzi, anche nella loro specificità di richiedenti protezione internazionale.



IL "NO" SVIZZERO ALL'IMMIGRAZIONE E' RIVOLTO ANCHE AGLI ITALIANI
il Giornale, 12-04-2014
Mario Cervi

In Svizzera ha vinto il referendum (vincolante da subito) che limiterà - senza bloccarla - l'immigrazione. Se ne possono trarre due considerazioni: 1. Gli svizzeri sono egoisti, cattivi, ignoranti, antistorici, razzisti, sciovinisti e quant'altro; 2. Gli svizzeri vogliono bene alla loro terra. Chissà se la signora Kashetu Kyenge accetterebbe, lei che appartiene a un partito democratico, l'indizione e l'esito dello stesso referendum in ltalia. In una struggente canzone del 1970 (La solitudine), Patty Pravo cantava: «vorrei cambiare - la tua vita con la mia...». Ogni volta che mi reco in Svizzera e mi guardo attorno, mi viene da cantarla.
Guido Guasconi
e-mail
Caro Guasconi, per aver votato una legge che limita l'immigrazione gli svizzeri non diventano né cattivi, né ignoranti, né egoisti, né sciovinisti. Dispongono - e lo usano frequentemente - d'un istituto, il referendum, che consente al popolo di prendere decisioni fondamentali. Una volta prese, le decisioni vengono rispettate, e questa - lo ha spiegato bene Marcello Foa-  democrazia. Un elettore su due si è pronunciato per il «si» alla legge, cosi sconfessando il«no» del governo e del Parlamento. A quanti avversa- no l'Unione Europea e i suoi lacci e lacciuoli l'esito della consultazione ha fatto sicuramente piacere.Tuttavia per gli italiani il voto svizzero ha un elemento d'inquietudine. Lo ha illustrato Paride Pelli in un ottimo servizio.
L'ago della bilancia si è spostato sul «si» soprattutto per l'apporto dei ticinesi, che hanno dato al referendum la più alta adesione fra tutti i cantoni. E il voto ticinese ha voluto colpire non tanto l'afllusso degli extraeuropei, quanto il gran numero di italiani - li si chiamino o no «frontalieri» - che fanno la spola per guadagnarsi il pane, tra la Confederazione e l'Italia. Secondo lo sfogo, da noi registrato, d' un contabile di Monza «contro i frontalieri qui c'è razzismo». L'accusa mi sembra, in quei termini, infondatissima. Resta il fatto che aldilà o al di sotto dei massimi problemi sui diritti umani, sull'identità nazionale, sull'assalto africano all'Europa stanno problemi in apparenza più umili ma importanti nelle scelte elettorali.



Immigrati. Istat: nel 2013 sono il 7,4% dei residenti in Italia. +8,3% in un anno
Al 1* gennaio 2013 sono regolarmente presenti in Italia oltre 3 milioni 700 mila cittadini non comunitari
stranieriinitalia.it, 12-02-2014
Roma, 12 febbraio 2014 - All'inizio del 2013 i cittadini stranieri iscritti nelle anagrafi dei comuni italiani sono quasi 4,4 milioni, pari al 7,4 per cento dei residenti (+8,3 per cento rispetto al 2012). Sul piano territoriale, la distribuzione degli stranieri residenti si conferma non uniforme, con la maggiore concentrazione nel Centro-Nord (quasi l'86 per cento degli stranieri).
Lo rileva il rapporto Istat ''Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo'', giunto alla sesta edizione.
Al 1* gennaio 2013 sono regolarmente presenti in Italia oltre 3 milioni 700 mila cittadini non comunitari, con un incremento di circa 127 mila unita' rispetto al 2012. Fra il 2011 e il 2012, si registra un nuovo calo, pari al 27 per cento, del flusso di cittadini non comunitari in ingresso in Italia.
La diminuzione dei nuovi arrivi ha interessato gli uomini (-33 per cento) piu' delle donne (-19,5 per cento), i permessi per lavoro (-43,1 per cento) piu' delle nuove concessioni per famiglia (-17 per cento).
 


New York, carte d'identità ai clandestini lo schiaffo di de Blasio ai repubblicani
la Repubblica, 12-02-2014
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK—«A tutti i miei concittadini che sono degli immigrati senza documenti: questa città è casa vostra». Bill de Blasio non delude, nel suo primo discorso programmatico il neo sindaco annuncia un'innovazione radicale. La città di New York rilascerà carte d'identità anche agli immigrati clandestini. Undocumented, senza documenti, è l'espressione che il sindaco preferisce perché non implica una criminalizzazione. Insieme con l'altra proposta sul salario mínimo vitale, l'offerta agli stranieri conferma che de Blasio non ha paura di suscitare controversie. L'idea dei documenti per i clandestini è uno schiaffo alla destra repubblicana, che in questo momento al Congresso sta bloccando una riforma proposta da Barack Obama. Anche il presidente vuole creare corsie più veloci verso il permesso di soggiorno e poi la cittadinanza, ma flnché la destra è maggioritaria alla Camera queste proposte hanno un percorso tutto in salita. De Blasio lo sa e commenta: «Noi non possiamo aspettare i tempi lunghi di Washington. Se c'è uno stal-
lo politico a livello federale, non è una scusa perché New York abdichi alle proprie responsabilità».
Le carte d'identità municipali sono state sperimentate finora a San Francisco, sull'altracosta. Offrono dei vantaggi molto concre- ti: con quei documenti lo straniero può finalmente aprire un conto in banca e incassare un assegno, farsi visitare all'ospedale, firmare un contratto di affitto. Più in generale è un modo per sentirsi meno a rischio, meno "invisibili" nella metropoli. E visto che a New York ci sono state polemiche sui controlli etnicamente discriminati della polizia, queste carte d'identità sono un piccolo passo perché gli stranieri non si sentano Cittadini, di serie B. «Nessun residente di New York — dice de Blasio — deve essere costretto a vivere nell'ombra». Anche se il sindaco non ha poteri sullo status d'immigrazione, i non può concedere la Green Card ' (permesso di residenza permanente) né la cittadinanza, de Blasio vuole fare quel che può per favorire «una partecipazione di tutti gli stranieri alla vita civica».
Il rilascio di queste carte d'identità potrebbe essere la prima delle riforme di de Blasio a diventare realtà. Su altri temi, infatti, il sindaco deve mediare e manovrare. Il salario minimo vitale, che lui conferma di voler alzare. va approvato in un consiglio municipale dove si fanno sentire le lobby più contrarie: anzitutto i padroncini della ristorazione, degli alberghi, del commercio. Nei ristoranti gran parte dei camerieri vengono pagati addirittura sotto il minimo federale di 7,25 dollari l'ora, per via di una speciale deroga: è previsto che i camerieri ricevano la mancia, quindi arrotondano con quelle. Ma anche i giganti dei fast-food come McDonald's, dove le mance sono pressoché inesistenti, fanno una dura opposizione all'aumento dei minimi. Un'altra promessa elettorale di de Blasio è l'aumento delle tasse sui ricchi per finanziare la costruzione di nuovi alloggi popolari, e soprattutto l'estensione degli asili nido pubblici. Qui Titer è ancora piü difficile. Per aumentare le tasse cittadine il sindaco deve ottenere un via libera anche dallo Stato di New York, dove il governatore Andrew Cuomo è un suo compagno di partito (demo-cratico) ma su posizioni molto più moderate. Già s'intravedono tutte le condizioni per un rapporto teso e conflittuale tra de Blasio e Cuomo. Inoltre all'assemblea legislativa dello Stato di New York i repubblicani daranno guerra a oltranza contro ogni aumento delle tasse. De Blasio dovrà indicare rapidamente con quali strategie intende aggirare questi ostacoli politici. Il suo messaggio resta chiara: One New York, è lo slogan stampato sullo striscione che il sindaco ha voluto nel college pubblico di Queens dove ha tenuto il discorso. Una sola New York, quindi, invece delle "due città" sempre più distanti e diseguali tra loro, che de Blasio ha denunciato in campagna elettorale.

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