Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 settembre 2011

 

Ecco l’ultima: rimesse tassate per l’immigrato non iscritto all’Inps
l'Untà, 10-09-2011
Italia-razzismo
I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali…». Così, nel 1912 l’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso Americano parlava degli immigrati italiani, ovvero di Noi. E si riferiva a quando Noi eravamo Loro. Quando, nei primi decenni del secolo, quasi 20 milioni di italiani emigrarono contribuendo allo sviluppo della società americana e, contemporaneamente, alla nostra ricchezza attraverso le rimesse di denaro verso l’Italia. Passaggi cruciali della storia del nostro paese che non andrebbero dimenticati quando si devono prendere delle decisioni in momenti considerati critici. Il contrario, parrebbe, di quanto accaduto in Commissione Bilancio del Senato con l’approvazione dell’emendamento presentato dalla Lega, teso a tassare le rimesse delle persone immigrate non iscritte all’INPS. Se l’intenzione era quella di assestare un colpo al lavoro irregolare, sembra però che gli unici a subirlo, quel colpo, saranno i lavoratori e non i datori di lavoro, che proprio di questa irregolarità, invece, beneficiano. Dal mercato delle rimesse erano state escluse, nel 2009, le persone prive del permesso di soggiorno con l’approvazione delle norme sulla sicurezza. E già in quell’occasione si temeva l’aumento del costo delle commissioni e l’aumento del numero di quanti, per inviare denaro, si affidano a canali informali. Un rischio che si ripropone anche in questa occasione. In altre parole, la penalizzazione del lavoratore irregolare si traduce ancora una volta in vantaggio per l’irregolare datore di lavoro.
 
 
 
SABATO ERANO APPRODATI SULL'ISOLA ALTRI 577 STRANIERI
Lampedusa, nuovo sbarco: arrivati 98 tunisini
Nel centro di accoglienza circa 1.200 migranti attendono di essere trasferiti
Corriere della sera, 12-09-2011
MILANO - Nuovo sbarco di immigrati a Lampedusa. Novantotto tunisini, tra i quali una donna, hanno raggiunto nella notte tra domenica e lunedì il molo Favaloro. Sabato erano approdati in 577 su nove carrette del mare, tra loro donne e bambini; altri stranieri sono giunti a Linosa. Sono circa 1.200 gli immigrati ospitati nel centro di accoglienza per i quali si sta predisponendo la macchina dei trasferimenti.
 
 
 
Lampedusa, Gheddafi dietro gli sbarchi la procura antimafia apre un'inchiesta
Il pubblico ministero Teresi: "I migranti costretti a partire dall'esercito del raìs". Il procuratore aggiunto in visita alla base Loran dell'isola: "Andrebbe chiusa"
la Repubblica, 11-09-2011
ROMINA MARCECA
Ammassati in migliaia sui barconi. I loro corpi incastrati come tessere di un puzzle. Assetati, piangenti, senza più identità e costretti a forza da un'organizzazione di militari libici fedeli a Gheddafi ad una spedizione per invadere le coste siciliane camuffata da "viaggio della speranza". I più riottosi, i rivoltosi, vengono buttati in mare. Non si guarda in faccia a nessuno. In acqua finiscono anche mamme e bambini. Legati mani e piedi. I loro corpi si disperdono tra le onde. Di loro non si sa più nulla. Per chi riesce ad arrivare vivo a Lampedusa, comincia un'altra trafila infernale. Quella legata alla permanenza all'interno dei centri di accoglienza e ad altri viaggi, organizzati da altri trafficanti per lasciare l'Italia.
Su questi viaggi infernali la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha aperto un'inchiesta. In dieci sono già sotto inchiesta. Sono libici. Tra loro ci sono anche degli scafisti. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ha voluto vedere con i suoi occhi cosa accade a Lampedusa, dipinta come la terra dell'approdo per chi fugge dalla guerra. Da anni il magistrato si occupa di reati legati al fenomeno dell'immigrazione. "L'inferno inizia lì, ma il dramma  -  spiega il magistrato  -  ha origine molto prima dell'imbarco. Gli immigrati scappano dalla Libia, dalle zone subsahariane, dove c'è la guerra, e finiscono nelle mani dei trafficanti. Non vengono informati su ciò che li aspetta. Consegnano i loro documenti, spogliandosi dell'identità. Hanno un'unica assicurazione: l'arrivo a Lampedusa".
L'inchiesta della Procura si concentra su tre sbarchi drammatici tra il primo e il sei agosto. I clandestini erano provenienti tutti dalla Libia. In uno dei tre sbarchi in 25 sono arrivati cadavere sulle coste di Lampedusa. I soccorritori hanno trovato i corpi dentro una stiva, accanto alla sala motori. L'ipotesi che la Procura adesso sta vagliando è che quegli uomini siano stati costretti ad entrare in quel locale. "Il sospetto è che i viaggi della speranza  -  spiega il procuratore aggiunto Teresi  -  siano in realtà l'espressione della politica di Gheddafi di invadere le nostre coste, in risposta all'intervento militare in Libia. Alcuni migranti hanno raccontato che non volevano partire  -  continua Teresi  -  e che sono stati minacciati da un'organizzazione che opera nei porti libici. I viaggi sono gratis e hanno lo scopo di riunire un'enorme quantità di persone. La navigazione avviene in condizioni disumane. Sui barconi salgono anche in 500".
Le indagini sono iniziate da pochissimi giorni. Ai primi di settembre il procuratore aggiunto Teresi è arrivato a Lampedusa. Ha visitato la base Loran, che ospita i minori. È andato al Cie. Ha raccolto voci, racconti pieni di dolore. "Non potevamo rimanere fermi davanti a tanta sofferenza. C'è terrore nei loro occhi  -  racconta il magistrato  -  perché non sapevano di finire in uno scoglio in mezzo al mare. Loro hanno paura dell'acqua. I ragazzini, poi, hanno le braccia piene di punture di insetti. In un paese civile la base Loran dovrebbe essere chiusa".
A Lampedusa l'emergenza non si ferma. Ieri, sono arrivati altri sei barconi, con circa 400 migranti a bordo. Il centro di accoglienza, che già ospitava 568 persone, è nuovamente in difficoltà.
 
 
 
Scuola: ha fatto l'Italia, può renderla multiculturale
l'Unità, 12-09-2011
Tullio De Mauro 
Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni. 
La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani. 
Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato. 
Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi – di scendere. E da allora le generazioni successive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati. 
Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole. 
Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Sergio Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi. 
Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia farebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio». 
Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’OCSE accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali OCSE dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini. 
Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.
 
 
 
I 30 mila immigrati nei nostri vigneti
Corriere della sera, 11-09-2011
Fumagalli Marisa
MILANO - La vendemmia italiana parla straniero. Sono, infatti, i lavoratori di vari Paesi del mondo, assunti per lo più come stagionali dai nostri produttori, a garantire la raccolta dell' uva, che si sta svolgendo in questi giorni. Circa 30.000, di 53 differenti nazionalità, sparsi nei vigneti di tutta Italia. La Coldiretti, confermando la buona qualità dell' annata 2011 (40/45 milioni di ettolitri di vino, secondo le previsioni), ha stilato la mappa dei vendemmiatori, nelle varie regioni italiane: i polacchi nell' area veneto-friulana del Prosecco, i macedoni in Piemonte, tra i filari del Barolo e del Barbaresco; romeni e polacchi in Lombardia, per la Bonarda dell' Oltrepò pavese e in Franciacorta; in Toscana, patria del Brunello di Montalcino, si distinguono i tunisini. Nelle colline del Frascati (Lazio), ai numerosi studenti italiani assoldati per la vendemmia, si mischiano gli immigrati dell' Est europeo. Il risultato è che il 15 per cento dei 210.000 lavoratori impegnati nella raccolta delle uve è straniero. «Il coinvolgimento degli stagionali forestieri - spiega in una nota la Coldiretti - è la premessa al successo del vino a livello nazionale e nel mondo. Il vino ha conquistato il ruolo di simbolo dell' intero made in Italy ». Nel 2011 - secondo le stime dell' Associazione - potrebbe raggiungere il record di 4 miliardi di euro di export per un fatturato totale di quasi 8 miliardi. Le esportazioni di vino italiano, nonostante la crisi, sono aumentate nei primi cinque mesi dell' anno (dati Istat) del 15 per cento. «L' incremento - sottolinea Coldiretti - è il risultato di una crescita del 12 per cento nei Paesi dell' Unione Europea e del 21 negli Stati Uniti». 
 
 
 
Immigrazione, 14 milioni per 103 progetti
Pubblica Amministrazione.net , 12-09-2011
Stefano Pierini
Sono i progetti sull'immigrazione selezionati dal ministero dell'Interno fra i mille presentati e finanziati con il Fondo europeo per l'integrazione.
Formazione linguistica e giovani: sono questi i due temi privilegiati dal ministero dell'Interno nella selezione dei progetti territoriali sull'immigrazione finanziabili con il Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi terzi. A questi progetti, arrivati da tutta Italia, sono destinati circa 14 milioni di euro, nell’ambito del programma generale "Solidarietà e gestione dei flussi migratori".
Si tratta di un piano europeo, che copre il periodo 2007-2013, che ha preso il via nel 2007 attraverso la decisione del Consiglio dell’Unione Europea n. 2007/435/CE con cui è stato istituito il Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi terzi.
Le problematiche sociali, e in particolare l'immigrazione, sono pesantemente al centro delle politiche per il fronteggiamento dell’attuale crisi finanziaria mondiale e potrebbero modificare sensibilmente la qualità della vita europea che il cittadino in più di 60 anni di democrazia si è lentamente conquistato.
Un recente esempio di cronaca: nelle scorse settimane è stato inaugurato a Pessina Cremonese il più grande tempio Sikh d'Europa. E proprio agli immigrati indiani dal Punjab, per lo più Sikh, che lavorano nell'industria casearia del cremonese (quella del Grana Padano) l'Herald Tribune ha dedicato un lungo reportage.
L’immigrazione che ormai è parte del tessuto produttivo nazionale ha bisogno di relazionarsi e sviluppare figure professionali con competenze certe e capaci di creare sviluppo al nostro paese e migliori condizioni di vita per il migrante.
Lo stanziamento complessivo per il Fondo Europeo per l’Integrazione per gli anni dal 2007 al 2013 è pari a 825 milioni di euro, di cui 768 milioni distribuiti fra gli Stati membri sulla base di criteri che tengano conto del numero di cittadini di Paesi terzi con regolare permesso di soggiorno e 57 milioni per le azioni comunitarie. In base a tale disposizione le risorse finanziarie stanziate per l’Italia ammontano complessivamente a circa 103 milioni di euro, per stanziamenti Regionali e a valenza territoriale.
Nel dicembre del 2010 il Ministero dell’Interno, Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione ha emanato i vari bandi per la progettazione territoriale sulle seguenti azioni che costituiscono il Programma:
-Formazione linguistica, orientamento civico, orientamento al lavoro e formazione professionale
-Progetti giovanili
-Azioni di sensibilizzazione, di informazione, e comunicazione
-Iniziative di mediazione sociale e promozione del dialogo interculturale
-Programmi innovativi per l’integrazione
-Capacity building: costituzioni di strutture e reti di intervento 103 milioni di euro, per stanziamenti Regionali e a valenza territoriale.
I 103 progetti dichiarati ammissibili e finanziabili per più di 14 milioni sono stati selezionati fra oltre 1000 progetti presentati per tutte le azioni. E per la maggior parte i progetti sono, anche in funzione delle specifiche risorse assegnate, collegati a due temi: la formazione linguistica, complementare e non sostitutiva di quella messa in atto dalle Regioni, e i giovani, sui quali è necessario primariamente investire per sviluppare durature iniziative di inclusione sociale.
Anche per i progetti regionali il Ministero ha provveduto a stilare una graduatoria e su 17 Regioni partecipanti (non hanno presentato nulla la Basilicata, la Sardegna e la Val D’Aosta) la valutazione ha dato il via libera ai programmi di 16 Regioni mentre ha escluso quello presentato dal Molise.
 
 
 
Immigrati su una torre di piazza Selinunte a Milano
Cronaca Live, 11-09-2011
MILANO / Due immigrati stanno protestando su una torre a Milano. I due si sono barricati sulla sommità di una torre in piazza Selinunte.
Sotto ci sono una trentina di sostenitori che li assistono ai piedi della struttura. La torre è utilizzata per una grande centrale termica di un complesso di case popolari.
I due, secondo quanto spiegato dai comitati per gli stranieri presenti sul posto, protestano contro l’ultimo programma di emersione dal lavoro nero per alcune categorie di lavoratori, definendola “la sanatoria truffa”. La protesta continua senza sosta da sabato sera.
 
 
 
Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma
L'intento è di sfidare la paura dell'altro come tema per conquistare il consenso e l'audience televisiva. Ma il divario tra l'agenda mediatica e le preoccupazioni dei cittadini resta elevatissimo
la Repubblica, 12-09-2011
ILVO DIAMANTI
Al Festival di Venezia, quest'anno, il Cinema italiano, dopo tanti anni, è stato protagonista. Il Premio della Giuria, assegnato a "Terraferma" di Emanuele Crialese. Migliore Opera prima: "Là-bas", di Guido Lombardi. I due film hanno un soggetto comune: gli immigrati. Il film di Crialese: l'esodo dei disperati in fuga dal Nord Africa, visto con gli occhi dei pescatori siciliani.
Il film di Lombardi: le drammatiche storie degli immigrati in rivolta a Castelvolturno, nel 2008. Ma le opere presentate a Venezia da registi italiani, sull'argomento, sono molto numerose. In tutte le sezioni. Oltre una decina. Ne citiamo solo alcune. "Cose dell'altro mondo" di Francesco Patierno, che ipotizza la (disastrosa) scomparsa degli immigrati in una zona del Nordest. E ancora: "Storie di schiavitù" di Barbara Cupisti, "Io sono Li", di Andrea Segre (fra gli interpreti: Marco Paolini), "Villaggio di Cartone", scritto e diretto da un maestro: Ermanno Olmi. Fino a "L'ultimo terrestre", di Gipi, che narra dell'arrivo degli alieni fra noi. Dove gli alieni sono "gli altri, che evidenziano la nostra vulnerabilità. Il nostro sentimento di perifericità".
Gli inviati di Le Monde (Jacques Mandelbaun e Philippe Ridet), al proposito, hanno osservato che l'immigrazione, per il Cinema italiano, è divenuto "un genere in sé". E hanno realizzato, al proposito, un commento molto ampio, dal titolo, assolutamente esplicito: "L'immigrato, vedette americana della Mostra di Venezia". D'altronde, è difficile, impossibile, trovare, in Europa - e altrove  -  un'attenzione tanto acuta  -  quasi ossessiva  -  come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano. Per quanto animato da sentimenti "civili" e solidali, non riesce a dissimulare il disagio diffuso, in un Paese di emigranti dove l'immigrazione è giunta all'improvviso. Ed è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%. Oggi si aggira, infatti, intorno al 7% (in valori assoluti: circa 5 milioni, secondo Caritas-Migrantes), ma tocca anche il 20% nelle zone più industrializzate del Centro e del Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Nordest). Eppure le "misure" reali del fenomeno non bastano a spiegare tanta sensibilità da parte dei registi e degli autori del cinema. Intellettuali e specialisti  -  talora artisti - della comunicazione. La cui attenzione è dettata, sicuramente, dal "materiale" offerto dal problema. Le biografie e le "storie" degli immigrati, l'incontro con le comunità locali, con gli "italiani".
Ma conta, altrettanto e forse di più, l'intento di "sfidare" il Pensiero Unico veicolato dai media e propagandato dal populismo di destra - influente nella maggioranza di governo. La Paura dell'Altro come tema per conquistare il consenso  -  e l'audience. Basta scorrere i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis). Nei telegiornali pubblici di prima serata di alcuni importanti Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), nel corso dei primi quattro mesi del 2011, le notizie relative all'immigrazione hanno occupato il 3% del totale. Più in particolare: su France 2 hanno rappresentato l'1,6%, su ARD (rete pubblica tedesca) lo 0,6%, sulle altre perfino di meno. Nel Tg1, invece, il 13,9%. (La stessa percentuale si ottiene, peraltro, considerando anche gli altri principali tg italiani, pubblici e privati). Naturalmente, l'Italia è il Paese dove le "rivoluzioni" nordafricane e, soprattutto, l'intervento in Libia hanno avuto maggiore impatto. Con la differenza che altrove, in Europa, questi avvenimenti sono stati trattati come fatti ed episodi di guerra. Mentre in Italia sono stati affrontati, in modo specifico, dal punto di vista dell'immigrazione. O meglio (forse: peggio), dell'invasione. Il primo e principale argomento utilizzato dalla Lega a sostegno della propria opposizione all'intervento in Libia. 
Tuttavia, nonostante gli sbarchi e le guerre sull'altra sponda mediterranea, il divario fra l'agenda mediatica e le preoccupazione dei cittadini, infatti, resta elevatissimo. Basta consultare, di nuovo, i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, concentrandoci, in questo caso, sulla percezione sociale. L'immigrazione, infatti, è indicata come la preoccupazione principale dal 6% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nel giugno 2011). Le cui angosce sono, invece, attratte, in larghissima misura, dai temi legati all'economia, l'occupazione, il costo della vita (55%). Lo sguardo mediale sugli immigrati appare, dunque, asimmetrico rispetto a quello della popolazione. Lo stesso avviene riguardo alla criminalità, che resta al centro dell'informazione televisiva (55% delle informazioni di prima serata), mentre preoccupa una quota molto più ridotta della popolazione (10%). Si tratta di una conferma della "costruzione" politica e mediale dell'insicurezza, che induce a enfatizzare la "paura degli altri" e a ridimensionare l'incertezza per motivi economici e (dis)occupazionali. (D'altronde, il pessimismo economico è comunista e anti-italiano, ha ripetuto il Presidente del Consiglio, anche di recente).
Ma in questa fase mi pare che "gli altri" non si risolvano negli immigrati che giungono in Italia, spinti dalla necessità o dall'emergenza. In condizioni difficili, talora drammatiche. Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell'accerchiamento più estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall'esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma anche dall'Europa e, soprattutto, dalla Germania. Che non credono nella nostra economia, ma soprattutto, nel nostro sistema politico. E minacciano di non coprire il nostro debito pubblico, di non acquistare i nostri titoli di Stato. Ci sentiamo minacciati dalle Borse e dai Mercati, dallo Spread e da S&P. Noi, che abbiamo coltivato, a lungo, un'identità nazionale fondata sull'arte di arrangiarsi, sulla capacità di adattarsi e di reagire. Noi che ci siamo considerati una società "vitale" - nonostante il governo, nonostante lo Stato. Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest'anno, a Venezia. 
In realtà, parlano di noi. Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma.
 
 
A Venezia il buonismo finale: premi vanno agli  immigrati
Libero, 12-09-2011
Francesco Borgonovo
A metà della cerimonia non si capiva più se stesse andando in scena la premiazione della 68 esima Mostra del cinema di Venezia oppure un gala della Croce rossa a scopi umanitari. C’erano coppe e coppette di consolazione per tutti: i deboli, i disagiati, quelli colpiti da catastrofi naturali. Una lunga serie di pacche sulle spalle. La Grecia è in crisi economica? Ecco il premio per la sceneggiatura ad Alpis di Yorgos Lanthimos. Il Giappone è disastrato dopo la devastazione di Fukushima? Niente paura, vincono il Mastroianni per l’attore emergente Shòta Sometani e Fumi Nikaido visti in  Himizu di Sion Sono, pellicola distribuita da Procacci dedicata appunto al dopo-tsunami, senz’altre qualità che il racconto di come un popolo reagisce a una tragedia. Per il resto, troppa noia sullo schermo. Tra i tanti attribuiti dalla giuria guidata dal pazzoide Darren Aronosfky, gli unici riconoscimenti sensati sono il Leone d’oro e la Coppa Volpi per il miglior attore. Il primo è andato allo straordinario Faust del maestro russo Aleksandr Sokurov, che già la sera prima era stato visto brindare in allegria. 
Un film difficoltoso, a tratti, ma splendido a livello estetico, con buone interpretazioni e scene che sembrano dipinti. Un film letterario, non solo per il capolavoro a cui si ispira, ma per l’ambizione con cui è stato realizzato, per la profondità narrativa. Certo, si è trattata di una scelta di comodo, per cavarsi dalle polemiche: far vincere Carnage di Roman Polanski sarebbe stato interpretato come uno schiaffo politico a chi critica il regista in fuga dagli Usa per i noti problemi giudiziari (leggi stupro). Shame di Steve McQueen era forse eccessivamente torbido: tanto sesso, qualche crudeltà, pubblico diviso… Sokurov è un buon compromesso, seppure un po’ scontato. Shame, dopo tutto, è stato celebrato tramite Coppa Volpi a Michael Fassbender, il bel tedescone che piace molto alle ragazze del Lido.  Recitava da protagonista (Carl Jung) anche nel film di David Cronenberg A dangerous method, sarebbe stato un peccato farlo andare a casa a mani vuote, ma in fondo il ragazzo ha del talento che è opportuno valorizzare, anche per rispetto verso Cronenberg.
FILM LACRIMOSI
Tutto il contorno di premi e premietti, però, fa gridare allo scandalo e nella sala stampa della Mostra sono volati parecchi fischi. I vincitori morali dell’edizione sono stati gli immigrati. Dopo che A Chjàna (storia strappalacrime sulle rivolte di Rosarno) di Jonas Carpignano ha vinto la sezione Controcampo italiano, e visto che Ermanno Olmi era fuori concorso con Il villaggio di cartone (altro drammone in tema stranieri), i votanti hanno scelto due scontatissimi italiani. Ecco dunque Emanuele Crialese premio speciale della giuria per Terraferma tra le risate e i fischi della sala stampa. Il regista è rientrato apposta da Lampedusa, dove propagandava i suoi buoni sentimenti e spiegava quanto fossero ingiusti i respingimenti dei barconi provenienti dal Nord Africa. Si è presentato sul palco e ha ringraziato madrine e padrine, tra cui anche il produttore di Cattleya Riccardo Tozzi, marito di Cristina Comencini. Visto che non c’è stato verso di dare un premio a Quando la notte di sua moglie per risarcirla dagli sghignazzi raccolti in sala, almeno che qualcuno ringraziasse lui. Altra buona azione da Croce rossa, proponiamo che Crialese e i suoi “migranti” ricevano il Gommone d’oro della critica. 
Il Leone del futuro per l’opera prima l’ha strappato Là-bas di Guido Lombardi. Argomento? La dura vita degli immigrati a Castel Volturno, sai che novità. Tra le tante che seguivano l’onda, questa probabilmente era la pellicola migliore, ma ancora una volta il cinema italiano si fa notare solo quando si occupa di temi sociali e trascura piccoli gioielli come L’ultimo terrestre di Gipi, storia che non sembra per nulla italica e come esordio era senz’altro più interessante, con meno retorica e più inventiva. Semplicemente assurdi, invece, gli altri onori concessi dalla giuria. Il Leone d’argento per la miglior regia l’ha vinto Shangjun Cai per People Mountain People Sea, pesantissimo polpettone orientale (è girato a Hong Kong). Appena più giustificata la Coppa Volpi per la migliore attrice a Deanie Yip vista in A simple life di Ann Hui, pure questo di Hong Kong. Forse i signori giurati hanno voluto fare un regalo d’addio per l’ultimo anno al Lido di  Marco Muller, notoriamente esperto di cinema orientale, per la sua futura carriera da produttore.
I MIGLIORI
Insomma, il finale è un vero peccato. La vittoria la meritava Killer Joe di William Friedkin, un capolavoro nel suo genere, divertente e ruvido, con bravi attori, una splendida sceneggiatura e una grande regia. Ma è stato ignorato totalmente, chissà perché. Peccato per il grande Gary Oldman protagonista delLa Talpa, forse penalizzato da un film un po’ difficile. L’unico a offrirgli la meritata gloria è stato Fassbender, che ritirando la Coppa Volpi lo ha salutato come il suo idolo. In effetti, Oldman meritava il trofeo. Ma pure Ryan Gosling in Le idi di marzo di George Clooney – che sarà forse il più visto nelle sale tra quelli qui presenti – era degno di nota, così come lo strepitoso Cristoph Waltz in Carnage. Idem per le attrici: la coppia Kate Winslet & Jodie Foster nella commedia di Polanski era strepitosa. E perché ignorare la sensualissima Juno Temple di Killer Joe? Lei sì che è uno tsunami di fascino. Lo sapevamo: questa volta, a Venezia, piacevano i piagnistei e i barconi. Così han deciso di affondare in una Laguna di lacrime. 
 
 
 
Nella moschea dell'odio  "Le vere vittime siamo noi"
A Brooklyn opera ancora il centro musulmano accusato dall'Fbi di legami con Al Qaeda
La Stampa, 12-09-02011
PAOLO MASTROLILLI  INVIATO A NEW YORK
Alle 8 e 46 minuti di domenica mattina, mentre i presidenti Obama e Bush chinano la testa davanti al Memoriale delle vittime dell’11 settembre, all’ingresso della moschea al Farooq di Atlantic Avenue, nel cuore di Brooklyn, si presentano due bambine col capo velato. 
Le accompagna il padre Bilal, immigrato dal Bangladesh 11 anni fa, che spiega: «Sono venute per la lezione di arabo alla al Aqusa Islamic School». Ma lei non lo sa che questa moschea è il centro storico dell’estremismo musulmano in America? Non lo sa che qui veniva a predicare lo sceicco cieco Rahman, condannato all’ergastolo come ispiratore del primo attentato contro le Torri Gemelle? «Ma no, guardi, lei si sbaglia. Noi col terrorismo non c’entriamo nulla. L’islam vuole solo la pace, in tutto il mondo». Questo è il primo e ultimo momento di serenità, vera o presunta, nella giornata della memoria, trascorsa qui al confine tra odio malcelato, commozione e follia. 
I sospetti legami tra la moschea al Farooq e Al Qaeda risalgono ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan, quando qui si raccoglievano soldi per bin Laden, col probabile placet della Cia. Anche il successore di Osama, al-Zawahiri, era passato da queste parti nel 1989, per reclutare attraverso l’al-Kifah Refugee Center. Qui pregava El Sayyid Nosair, il killer che nel 1990 aveva ammazzato a Brooklyn il rabbino ortodosso Meir Kahane. Dopo l’11 settembre, un affidavit di 41 pagine dell’Fbi aveva chiesto in sostanza la chiusura della moschea, accusandola di aver inviato 20 milioni di dollari ad Al Qaeda tramite lo sceicco yemenita Muhammad Ali Hasan al-Moayad. L’ultimo anello scoperto, però, è il più pericoloso: il padre di Adnan Shukrijumah, l’uomo che dopo l’arresto di Khalid Sheik Mohammed aveva preso il suo posto come capo operativo di Al Qaeda, era stato un imam di al Farooq. Adnan era cresciuto tra Brooklyn e la Florida, insieme a troppi estremisti col passaporto americano, che ora potrebbero diventare le armi più letali di Al Qaeda. Difficili da trovare e fermare, come i due ricercati per l’allarme autobombe, lanciato alla vigilia delle cerimonie per l’anniversario.
Eppure al Farooq è ancora aperta, con i suoi cinque piani di uffici, scuole e stanze per la preghiera. A destra della facciata, con le colonne marroni e i davanzali verdi, ci sono un negozio per spedire posta e soldi in tutto il mondo, e l’agenzia Mubarez Travel, che offre viaggi alla Mecca. All’angolo tra Dean Street e la 4th Avenue, in mezzo al quartiere residenziale di Boerum Hill celebrato nei romanzi di Jonathan Lethem, c’è persino un ristorante cinese che promette carne rigorosamente halal e niente maiale. Entriamo nella libreria Dar Us Salam per chiedere un commento sull’anniversario. Un ragazzo che dice di chiamarsi Abdullah, ma è bianco e parla inglese perfetto, alza subito la voce: «E perché a noi? Vai a Williamsburg, dagli ebrei: sono stati loro gli istigatori degli attentati. Vai al consolato israeliano: lì sanno tutto dell’11 settembre. Noi musulmani siamo solo le vittime». Il proprietario del negozio si avvicina e indica la porta: «Basta disturbare i clienti: non abbiamo storie da raccontare qui».
Sull’altro marciapiede c’è l’Ocean View Diner, dove la cameriera Jenny si commuove, mentre serve i Belgian Waffle con lo sciroppo d’acero e guarda la diretta della cerimonia a Ground Zero. Perché piange? «Conoscevo la vittima che hanno appena nominato. Era una cara amica di mia nonna, morta anche lei l’anno dopo». E come si sente, a lavorare davanti a questa moschea? Jenny alza il mento e fa una smorfia di disprezzo: «Che volete farci? Abbiamo la libertà di religione, in questo Paese». Arleen, una madre nera che sta portando i suoi tre figli al playground, si intromette: «L’altro giorno hanno chiuso la strada per una funzione, ma urlavano: a me fanno paura».
Alle 11 e 46 minuti, una quarto d’ora prima della preghiera, un’auto della polizia parcheggia davanti. L’agente John, un nero col giubbetto antiproiettile in bella vista sotto la camicia, ammette candido: «Siamo qui perché oggi è una giornata speciale. In genere non ci fermiamo, ma stavolta temiamo guai». Neanche cinque minuti dopo, si sente un suono di cornamuse in fondo alla Avenue. Sono i pompieri della compagnia vigili del fuoco Engine 219 Ladder 105, che sta dietro l’angolo. L’11 settembre persero 7 colleghi e oggi fanno una processione a piedi da Ground Zero alla chiesa cattolica di St. Augustine, per una messa. Sfilano davanti al Farooq, e mentre passano l’auto della polizia suona la sua sirena. Il vigile Frank Abruzese, che guida il camion, non nasconde il senso di sfida: «Se è vero quello che dicono su questa moschea, ci penserà Dio a fare i conti. Non mi piace passarci davanti, ma è bene che sappiano che noi siamo ancora qua».
Arriva l’imam, Abdul Zidiani, e non è contento di vederci: «Siamo cittadini americani come gli altri, vogliamo solo pregare in pace». E l’11 settembre? «Abbiamo sentito la storia di chi vuole condannarci, non la verità». Davanti a lui, ai lati dell’ingresso, ci sono due grandi contenitori per le offerte con su scritto: «La ricchezza non diminuisce mai con la carità». Bello. Ma non è che poi i soldi finiscono ad Al Qaeda? «Noi facciamo carità, dovere di ogni musulmano. Poi non posso sapere dove va ogni centesimo, una volta donato». Un portiere parlotta in arabo con l’imam e si avvicina per interrompere la conversazione. Neanche il buonsenso ipocrita di fingere la tolleranza: «Basta così. Vada dai poliziotti là fuori: qui dentro nessuno vuole parlare con voi».
 
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