Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 maggio 2010

L'unica speranza è l'immigrazione
l'Unità, 03-05-2010
Bianca di Giovanna

Le tante «Rosarno» d'Italia, con i loro paradossi demografici, tra i pochi e vecchi italiani rimasti e i giovanissimi immigrati. Una fotografia delle zone periferiche, dove la politica non arriva, in un ciclo di conferenze di Banca Etica.

In un paesone della bassa reggiana un'intera classe della scuola materna è composta di figli di immigrati; in un paesino sperduto del Molise sale il lamento contro stranieri danarosi che si comprano tutte le abitazioni. In un paese quasi fantasma dell'Appennino alessandrino il sindaco esasperato mette in vendita le case ad un euro: riceve 400 domande. Anni fa alcuni sindaci della montagna davano un contributo in denaro per i neonati in valle. Con questa sfilza di «paradossi demografici» si è aperto l'ultimo convegno di Banca Etica sulle aree fragili. «Si tratta di territori che possono andare in frantumi da un momento all'altro - spiega il sociologo Giorgio Osti, curatore del convegno - Spesso si tratta di aree montane, ex rurali, che hanno subito esodi massicci nei decenni scorsi e che oggi vengono investiti da nuovi e inaspettati flussi migratori».

Sono le tante «Rosarno» d'Italia che si confrontano oggi con una modernità fatta di legami fragili, sempre sottoposti al rischio di rotture traumatiche. Anche se il caso della Calabria, in particolare quello di Rosarno, non è così facilmente collegabile con le zone dimenticate dalla storia lungo la dorsale appenninica o nelle valli alpine. «In Calabria la fragilità è molto legata alla stagionalità della produzione», spiega ancora Osti. È Alessandra Corrado, dell'Università della Calabria, a raccontare come i «nemici comodi» arrivati da oltre Mediterraneo per raccogliere olive, arance e clementine, si sono trasformati in «rivoltosi ingrati». «Nella piana di Gioia Tauro i migranti sostano prevalentemente nei mesi invernali - spiega Corrado - si spostano sui diversi raccolti seguendo il ritmo della "transumanza", secondo una dinamica circolatoria esistente almeno dal 1992, che non risponde solo ai sistemi organizzativi del lavoro agricolo, ma anche alle reti di relazioni e pratiche sociali sorrette dai migranti». Un circuito fatto di disperazione, ma costellato anche di solidarietà. Si chiama dorsale dell'ospitalità, infatti, quella rete di servizi che va da badolato e Riace, da Caulonia a Stignano, fino a Cassano allo Ionio, dove si sperimentano nuove forme di integrazione positiva.
Il dramma di Rosarno è finito sotto i riflettori: ma il resto di queste sterminate «periferie» deboli resta spesso nell'ombra. Poco si sa delle zone montane del bellunese, ancora meno del lavoro straniero nelle campagne lungo il Po. Già da domani (il 2016) 1.500 Comuni rischiano la «desertificazione»: pochi residenti, pochi servizi e solo il ricordo lontano di comunità stanziali. Solo gente di passaggio. Si tratta di un quinto dei Comuni italiani, mentre il disagio abitativo generale riguarda oltre 3.500 centri urbani. I vuoti lasciati da economie in declino vengono riempiti dagli stranieri, con effetti dirompenti sulla tenuta delle relazioni sociali. In Provincia di Belluno, ad esempio, la quota di popolazione straniera su quella autoctona è pari al 5,95%. Ma in alcuni comuni il dato si moltiplica per tre o quattro volte. Ad Alano di Piave arriva al 20,01%, a Quero al 17,27%, a Ospitale di Cadore è intorno al 16%. Nelle grandi città queste situazioni non sono meno gravi ma vengono attutite dalla grande mobilità della popolazione autoctona e straniera; lì è più facile dislocare la scuola del figlio. «Nelle piccole comunità il calo delle nascite fra i locali e l'aumento di quello fra gli stranieri produce una visibilità immediata, un calcolo che risulta traumatico, una previsione che fa paura - conclude Osti - Si crea una fragilità demografica con contorni nuovi: timori di restare soli, timori di essere sommersi da una diversità incomprensibile». ?










Così l'immigrazione è diventata un dramma
Quei «mostri» figli del buonismo di sinistra

il Giornale, 03-05-2010
Giancarlo Perna

Il colossale fenomeno migratorio, platealmente trascurato per lustri, ha cambiato alla radice la geografia politica. Gli italiani chiedono più sicurezza e ora tocca a questo governo rimediare agli errori del passato
Tra gli esempi recenti di «accoglienza» all'italiana non c'è che l'imbarazzo della scelta. Si va dall'emigrato bastonato (pare) dai carabinieri a Parma, al rom perito nell' incendio di in una catapecchia a Roma, al ragazzino ucciso a Genova dalle esalazioni di una stufetta di fortuna dopo che al padre moroso era stato tagliato il gas.
Ma a rivelare meglio l'ambiguità del prevalente concetto di accoglienza è il caso dei due polacchi morti nel crollo a Napoli di un edificio occupato da clandestini. La tragedia è avvenuta in pieno centro. Che l'abitazione fosse pericolante era notorio. Lo stesso proprietario aveva chiesto l'intervento dei vigili per sgomberarla. Sul perché la denuncia non abbia avuto seguito possiamo solo congetturare. Immaginiamo allora che la cosa sia venuta alle orecchie del sindaco, la pia signora Rosa Russo Jervolino, o dei suoi fiduciari parimenti timorosi di Dio e colmi di amore per il prossimo. Si saranno perciò detti: «Possiamo noi togliere un tetto a 'sti mature e imporre la legge a scapito dell'umanità? Già non hanno nulla, se gli sottraiamo anche questo va a farsi friggere il proverbiale cuore napoletano. Allora che restino, nel nome del Signore e della giunta di centrosinistra». Così, sono morti i due polacchi. Questa, e non altra, è da un ventennio la più diffusa filosofia italiana sull'immigrazione. Un evento caotico che supera numericamente le invasioni cosiddette barbariche di 1.500 anni fa e che dovrebbe essere affrontato senza tabù. Specie dall'Italia, la più vulnerabile delle nazioni Ue per la posizione di molo allungato nel Mediterraneo.
Non tutti i profughi si fermano da noi ma tanti trovano qui il primo approdo dal mare o per terra, via Trieste e Gorizia. Bisognerebbe preordinare gli ingressi, programmare la distribuzione sul territorio dei nuovi arrivati, creare canali per chi è di passaggio, avere un progetto per coloro che pensano di restare. Tutti, invece, sono lasciati allo sbando. Una quota si integra, la più cospicua è sfruttata, il resto delinque. Scenario opposto a quello della Germania, la nazione Ue con più stranieri, dove si evita la retorica, si applica il cervello e l'integrazione è un fatto. Da noi, all'opposto, abbondano gli struzzi che non agiscono nel timore di essere accusati di perfidia.
A impedire la razionalizzazione del problema sono soprattutto sinistre e cattolici. Con imbelle fatalismo consi-derano i flussi ineluttabili come fenomeni naturali. Dirigisti in tutto, sono in questo per uno sbrigliato laissezfaire all' insegna del buonismo. La conseguenza è che campagne e metropoli hanno ripreso la fisionomia dell'immediato dopoguerra. Accattoni, nuovi poveri, legioni di sottopagati, integrazione zero. Se la destra - più consapevole dei risvolti negativi dell'abulia - propone soluzioni, dai pulpiti delle chiese e dal quartiere generale delle sinistre si urla al razzismo. Proibito respingere; riaccompagnare ai confini; accelerare l'apprendimento dell'italiano in classi apposite; sorvegliare moschee fanatiche; imporre comportamenti da normali cittadini a rom o a poligami islamici; controllare le attività di China Town; irrompere quotidianamente nei ghetti della droga per rendere impossibile la vita degli spacciatori, ecc. Se ti azzardi, c'è sempre il Paolino Ferrero di turno che si indigna dicendo
che, invece di combattere mafia, 'ndrangheta e camorra, lo Stato se la prende con i deboli, i poveri cristi, gli ultimi. Così gli stranieri vivono nell'illegalità e gli italiani nella paura. L'immigrazione sregolata ha diffuso i pericoli un tempo confinati alle zone malavitose d'Italia. Auna peste nazionale se n'è aggiunta una di importazione. Il fatto poi che tanti stranieri trovino il loro posto e abbiano successo, non compensa l'alta percentuale degli esclusi. L'integrazione, quando avviene, è frutto del caso non di un disegno. Impotenti nei fatti, sinistre e cattolici eccellono invece nel ripetere come robot le due argomentazioni tra cui oscillano. Quella utilitarista: abbiamo bisogno degli stranieri perché si accollano i mestieri che gli italiani rifiutano. Tacciono però le condizioni subumane - tipo Rosarno -che sono costretti ad accettare. E questo è cinismo. Oppure la litania buonista: accogliere è un dovere, il mondo è di tutti. E questo è scaricare sui cittadini l'inettitudine dei politici a elaborare soluzioni logiche. La principale: ridurre i flussi. Se un giorno ne usciremo lo dovremo a gente come il ministro leghista dell'Interno che - infischiandosene delle accuse di crudeltà e altre baggianate - è riuscito quest'anno a dare una stretta che, interrompendo il tumulto degli arrivi, permetterà di integrare gli sbandati che già pullulano tra noi. Tanto più meritevole, Maroni, in quanto va contro gli interessi di bottega della Lega che sull'accoglienza fasulla teorizzata dal cattosinistrismo ha finora costruito molte delle sue fortune elettorali.
E arriviamo al punto. Il colossale fenomeno migratorio, così platealmente trascurato per lustri, ha cambiato alla radice la geografia politica italiana. La sinistra sorda è stata emarginata e l'asse si è spostato a destra nella speranza - finora parzialmente soddisfatta - di maggiore concretezza. L'elettorato si è stufato dei vuoti predicozzi delle Rosy Bindi e delle Livia Turco, poi scimmiottate da Gianfranco Fini che si è unito al coro e dato la zappa sugli alluci. Costoro, incapaci di affrontare con franchezza il dibattito e cercare soluzioni autentiche, hanno alzato la posta. Gli italiani chiedevano ordine e sicurezza, gli immigrati lavoro e strutture. Loro, invece - come un giocatore di carte che, invitato a cuori, risponde a picche - hanno parlato d'altro: di estendere agli immigrati il voto amministrativo, poi quello politico, di naturalizzare in fretta gli adulti, all'istante i neonati, ecc. Hanno riversato su individui che mancano dell'essenziale e su cui cadono in testa le bicocche napoletane, una cornu-copia di diritti astratti e al mo¬mento superflui. È come se a degli studenti fuori sede che chiedono affitti a poco prezzo, accesso all'università o borse di studio, il sindaco, in mancanza, conferisse la cittadinanza onoraria. Una presa per i fondelli.
Che i responsabili del capo-lavoro siano ora puniti alle urne, è davvero il minimo che gli potesse capitare










Il risparmio degli immigrati. Studio della Fondazione Moressa sui trasferimenti ufficiali nel 2009: record pro-capite alla provincia di Prato con quasi 17mila €
Nelle rimesse un «tesoro» da 6,7 miliardi

il Sole, 03-05-2010
Leonard Berberi

Quasi mezzo punto percentuale di Pil italiano che se ne va via dal Paese. Verso l'Asia, soprattutto. In numeri, sei miliardi 752 milioni e rotti di euro. Soltanto nel 2009. A tanto ammontano le rimesse, cioè le quantità di denaro che gli stranieri che vivono nel nostro territorio inviano alle famiglie nei paesi d'origine. Il calcolo, su dati della Banca d'Italia, è contenuto nell'ultimo studio della Fondazione Leone Moressa di Mestre. Un valore, pre¬cisa la curatrice Valeria Benvenuti, che tiene conto soltanto dei canali ufficiali come le banche, le agenzie e le poste, e lascia fuori le vie informali: familiari, conoscenti e corrieri. «Se calcolassimo anche questi ultimi, il dato sarebbe superiore del 50%», aggiunge Carlo Devillanova, professore associato di Economia politica all'università Bocconi di Milano.
In valore assoluto, le rimesse sono cresciute del 5,8% rispetto al 2008 e rappresentano lo 0,44% del prodotto interno lordo nazionale. «Ma questo non vuol dire che gli stranieri stiano resistendo meglio alla crisi», avverte la Benvenuti. Perché, fatto il calcolo pro-capite, cioè sulla base dei quasi quattro milioni di stranieri residenti in Italia al 1°gennaio 2009 (dati Istat), ogni immigrato ha inviato verso il proprio paese 1.735 euro. Rispetto all'anno precedente, il 6,7% in meno. Che si aggiunge al calo del 9,6% registrato nel 2008 sul 2007.
A livello territoriale, il Lazio continua a costituire il nocciolo duro delle rimesse. Nell'ultimo anno sono andati via quasi due miliardi di euro, pari al 27,7% del totale nazionale. Seguono, a distanza, la Lombardia (1 miliardo e 330 milioni di euro) e la Toscana (934 milioni). E se in Campania e in Puglia l'aumento rispetto al 2008 è stato quasi del 20%, Emilia Romagna e Umbria sono le uniche due aree che hanno visto una contrazione, rispettivamente, del 4,3 e del 2 per cento. In generale, «il Mezzogiorno registra performance migliori rispetto al Nord Italia», sintetizza la Benvenuti. Il perché lo spiega il professor Devillanova: «Gli stranieri che vivono nel Centro-Sud vengono soprattutto dall'Africa e la maggior parte vuole tornare nel paese d'origine dopo pochi anni. Questo li porta a mandare più denaro possibile. Nel Nord, invece, gli immigrati non solo arrivano da più lontano, ma hanno anche intenzione di rimanere da noi per molto tempo». Per là prima volta, però, c'è un nuovo fenomeno. «Storicamente, l'aumento della popolazione straniera in Italia ha provocato anche un aumento delle rimesse - dice la Benvenuti -. Ma è soltanto nell'ultimo anno che si osserva una minore crescita dell'afflusso di denaro rispetto al trend dei residenti immigrati nel nostro territorio».
Le ragioni sarebbero due. «La prima è che la crisi ha costretto gli stranieri a ridurre quella parte di risparmio che negli anni precedenti inviavano nel paese d'origine. I soldi trattenuti oggi servono come garanzia per la sopravviven-za» . La seconda spiegazione risiede in quello che la curatrice del dossier chiama "progetto d'integrazione". «Il tentativo di stabilizzarsi in modo perma¬nente in Italia - sottolinea - è dimostrato dal forte incremento dei permessi di soggiorno per motivi familiari. Questo spin¬ge gli immigrati non solo atene¬re qui, ma anche a investire nel nostro Paese proprio quelle risorse che in situazioni diverse sarebbero andate all'estero».
A livello territoriale un dato balza all'occhio. È quello relativo alla sola provincia di Prato. Nel 2009, in media, ogni immigrato residente nell'area ha mandato a casa qualcosa come 16.760 euro. Dieci volte più della media nazionale. «La presenza della comunità cinese influenza in modo decisivo il dato locale - continua la Benvenuti -. Di fatto loro riescono a mandare a casa quasi tutto quello che guadagnano». Ed è cinese anche il primato nazionale: quasi un terzo del totale delle rimesse arriva proprio nella Repubblica Popolare. Su scala globale, la metà dei soldi inviati all'estero ha come destinazione l'Asia. Poi l'Europa (25%), l'America (13%) e l'Africa (12,4%). E se un asiatico riesce a mandare, in media, 5.428 euro, un immigra to europeo spedisce poco più di 800 euro. «Se la crisi continua, le rimesse potrebbero subire una seria battuta d'arresto», analizza la ricercatrice della Fondazione Moressa. Che poi fa una proposta: «Dato il valore economico dei soldi inviati all'estero, bisogna porsi il problema di come tenerseli qui. E questo si può fare solo con politiche pubbliche che incentivino gli stranieri a investire quel denaro nel nostro Paese». Insomma, la ripresa economica potrebbe passare per quel mezzo punto di Pil che ogni anno se ne va. «Non dimentichiamo però che le rimesse sono più vitali per i paesi poveri - avverte il professor Devillanova -. Non solo sono stabili nel tempo, ma spesso costituiscono l'unica forma di microcredito».










Rientro in Senegal per far decollare villaggi (e scuole)

il Sole, 03-05-2010
di Carlo Giorgi

L'idea di dedicarmi  al turismo mi è venuta in volo». Mamadou Samb, senegalese, 46 anni di cui venti a Torino, ha inaugurato a gennaio un campement turistico nel villaggio di pescatori da cui proviene, Lompoul sur mer, 143 chilometri a nord di Dakar. «Anni fa, sull'aereo di ritorno da Dakar, ascoltavo la signora seduta accanto a me mentre parlava inorridita di alcune pratiche di guarigione viste in Senegal - racconta Mamadou -. Come si permette? Pensavo. Ma, subito dopo, ho capito che per fare crollare i pregiudizi non serviva arrabbiarsi; occorreva invece promuovere un turismo più rispettoso della cultura visitata». Detto, fatto. A Torino Mamadou, che lavora per il Comune come mediatore culturale, elabora un progetto; trova l'appoggio del Cisv, ong torinese attiva in Senegal, e di Viaggi solidali, agenzia di turismo responsabile della città sabauda. Realizza il suo sogno di imprenditore del turismo grazie al sostegno economico di Oim, Organizzazione mondiale delle migrazioni, provincia e comune di Torino e Fondazioni 4Africa, alleanza di quattro diverse fondazioni (Compagnia di San Paolo, Fondazioni Cariparma, Cariplo e Monte dei Paschi) per progetti di sviluppo in Africa. «Il campement sorge all'interno del villaggio ed è composto da cinque stanze doppie, realizzate secondo standard internazionali, a poche centinaia di metri dall'oceano - racconta Mamadou -. Per adesso dà lavoro a cinque locali e sono già diverse decine i turisti europei che lo hanno visitato. Speriamo che possa offrire un po' di benessere, in una terra dove ancora oggi la disperazione porta a lasciare tutto, rischiando la vita, per venire in Europa». Nel campo delle attività turistiche realizzate in patria, gli immigrati senegalesi sono tra i più attivi. «In dieci anni ho portato almeno 500 italiani a visitare il mio paese». Anche Alex Sarr, senegalese di Dakar, è orgoglioso del ponte tra Italia e Africa che ha costruito attraverso il turismo, scommettendo su un'idea nata quasi per caso: «Sono arrivato in Italia nel 1990. In Senegal avevo alcuni amici che lavoravano sulle navi e mi raccontavano dell'Italia con ammirazione; così ho deciso di venire a Roma. Qui ho avuto la fortuna di fare il mediatore per "Chiama l'Africa", un'iniziativa culturale creata per promuovere l'immagine del continente nero». Per quattro anni Alex viaggia su una carovana di camion, visitando circa 60 città italiane, e raccontando a milioni di persone tradizioni e cultura della sua terra. «Molti mi chiedevano: Alex, com'è il Senegal? E io; scherzando, rispondevo: ti ci porto. Un po' alla volta ho capito che poteva non essere uno scherzo». Quando nel 2000 la carovana si ferma, Alex si trasferisce a Imola e fonda "Chiama il Senegal", che aderisce subito ad Aitr, Associazione italiana turismo responsabile. «Gli italiani che vengono in Senegal con me non visitano solo le bellezze del paese - spiega Alex -. Propongo ai viaggiatori di aiutare, con un piccolo contributo,unprogetto di sviluppo: dal 2003 i nostri turisti "adottano", ad esempio, le bambine in età scolare di Pitóne, un quartiere di Dakar. Questo ha permesso un risultato eccezionale: oggi, ben 63 bambine del quartiere sono iscritte alla scuola media. Non era mai successo prima, essendo di solito le bimbe costrette a lavorare, appena terminate le scuole elementari».
In Italia è un attore affermato e mediatore culturale. In Africa, operatore turistico e imprenditore dello sviluppo. Modou Gueye, senegalese, sbarca a Milano vent'anni fa come il più anonimo degli immigrati. Per vivere fa quello che capita: il vu' cumprà, il gommista e, per ben sei anni, il panettiere. Poi decide di dedicarsi al teatro: «Ho avuto occasione di recitare con Paolo Rossi e con quelli di Zelig, mentre oggi lavoro nel laboratorio teatrale Maschere nere». Se Modou risiede gran parte del suo tempo a Milano, il cuore e la testa sono invece orientati al Senegal, per il cui sviluppo ha fondato, assieme a molti immigrati in Italia, l'associazione "Sunugal". A Beud Dieng il suo villaggio a Nord di Dakar, Modou ha aperto "Ker Toubab", (nella locale lingua wolof «la casa dei bianchi»), una struttura ricettiva con sei grandi stanze che può ospitare fino a 40 persone. «È l'ideale per turisti non convenzionali - precisa Modou -. Si tratta di un'accoglienza dove, rispettando gli standard occidentali di base, è possibile ancora incontrare il Senegal rurale». Beud Dieng è un villaggio in gran parte "femminile", poiché gli uomini sono quasi tutti emigrati in Europa. «Da poco siamo riusciti a convincere venti donne del villaggio ad aprire le loro case - prosegue Modou -. E da quest'estate, ai viaggiatori italiani, proponiamo una novità: l'ospitalità in famiglia. Da una parte, è il modo più autentico per conoscere il paese; dall'altra, è una forma di guadagno diretta per le famiglie che ospitano». Quest'anno l'associazione Sunugal ha vinto anche un bando di 140mila euro, della Fondazione Cariplo, per realizzare progetti di sviluppo in ambito agricolo.









I cinesi guidano la multinazionale delle rimesse

il Sole, 03-05-2010
di Francesca Padula

Huang è titolare di un piccolo negozio a Prato, Larissa badante in una frazione alle porte di Biella. In comune hanno un permesso di soggiorno regolare e una famiglia che aspetta un bonifico. Il commerciante cinese, spavaldo, va in banca tutti i mesi e spedisce ogni volta più di mille euro; Larissa riesce ad andarci due tre volte l'anno e manda in Ucraina importi davvero esigui.

Grazie a Huang e ai suoi connazionali, Prato guida la graduatoria delle rimesse degli immigrati: da qui l'anno scorso ogni straniero (regolare residente) ha mandato a casa ben 16.760 euro, mentre Biella è proprio in fondo alla graduatoria con meno di 429 euro pro-capite. Il “bastimento” più carico di risparmi è quello che parte alla volta della Cina, dove è destinato quasi un terzo delle rimesse spedite dall'Italia, poco meno di 2 miliardi. Al secondo e terzo posto quelli per la Romania e le Filippine, rispettivamente 823 e 800 milioni, poi con somme molte più basse arrivano gli invii destinati a Marocco, Senegal, Bangladesh e Perù.

Gli immigrati che lavorano in Italia hanno costruito in dieci anni un grattacielo di risparmi. Mattonella dopo mattonella, quella che era una palazzina a tre piani è diventata un colosso di oltre trenta piani: le rimesse che valevano meno di 600 milioni di euro nel 2000 sono diventate una "multinazionale" che supera 6,7 miliardi. Una cifra che eguaglia il fatturato del settore biotech, cioè è pari al valore della produzione di quella fetta di giovani aziende italiane innovative che danno lavoro a 50mila persone.

Tutto in dieci anni. Sembra così lontano, eppure solo a cavallo del 1997-1998 è avvenuto il "sorpasso" e per la prima volta i soldi mandati dagli immigrati alle famiglie lontane hanno superato quelli in entrata, cioè quelli rimandati a casa dagli emigrati italiani. Non è stata una rivoluzione, ma la lentissima processione prima verso i phone center e poi pian piano verso le poste o le banche, a cui hanno partecipato negli anni tutti gli stranieri che lavorano, risparmiano e spediscono soldi a casa. Che cosa c'è dietro questo fiume di denaro, oltre alla necessità di aiutare i parenti rimasti in patria? A spiare in queste cifre ci ha pensato la veneta Fondazione Leone Moressa, che ha suddiviso i dati ufficiali rilevati da Bankitalia a livello regionale e provinciale.

Quanto vale un "mattone" del grattacielo? Ben 1.735 euro (la media 2009) è la cifra che ogni immigrato (solo regolari residenti) manda a casa. Un po' meno di quanto riusciva a inviare prima della crisi: nel 2007 erano poco più di 2mila euro.









Clandestini lasciati sulla spiaggia di Lampione, nelle Pelagie


(ANSA) - AGRIGENTO,  Nella notte un peschereccio e' fuggito dopo aver sbarcato tre immigrati clandestini sull'arenile dell'isolotto di Lampione. Lampione e' la piu' piccola delle isole Pelagie. Motovedette della guardia di finanza e dei carabinieri hanno tentato l'inseguimento, fino al confine delle acque nazionali, ma l'imbarcazione e' riuscita a far perdere le proprie tracce.
1 maggio 2010







Se non c'e  il reato di caporalato

l'Unità, 30-04-2010
Alessandro Leogrande

Il quadro ritratto nell'ordinanza di custodia cautelare degli sfruttatori di Rosarno è dei più foschi, e ricorda la sentenza del processo di Bari in cui una ventina di caporali del Tavoliere sono stati condannati. Anche in questa ordinanza si parla di braccianti ridotti «in condizioni di assoluta subordinazione» e di caporali che «si presentano come dei veri e propri “padroni senza legge”» . In un passaggio addirittura si legge: «Spesso, a seguito di minacce di morte, i caporali negano la stessa paga delle giornate lavorate, approfittando del fatto che molti lavoratori sono sprovvisti di documenti e non hanno il coraggio di denunciare i fatti alle competenti autorità. La giornata lavorativa inizia alle prime luci dell’alba e termina al tramonto.»
Il quadro ritratto va ben oltre il lavoro nero. La parola “sfruttamento” rischia di apparire un eufemismo dal momento che il controllo dell'uomo sull'uomo pare essere stato costante. Una regola inscalfibile. Ma a fronte di questo quadro, di cosa sono accusati gli sfruttatori? Solo di impiego di “lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno”. Si tratta dell'articolo 22 comma 12 del Testo unico sull'immigrazione: riformulato con il pacchetto-sicurezza, prevede una pena dai sei mesi ai tre anni di carcere per gli sfruttatori. Al netto degli attenuanti, rischiano di rimanere le briciole.
Non si tratta di essere giustizialisti. La sproporzione tra il quadro denunciato e il reato cui appellarsi è evidente. Detto in altri termini, la legge italiana non colpisce il grave sfruttamento in sé, ma il lavoratore “clandestino” (cioè lo sfruttato) e solo marginalmente, con pene blande, chi lo impiega. Per assurdo, se un simile sfruttamento avesse riguardato bulgari o rumeni, i caporali sarebbero ancora a spasso.
Il vuoto normativo è presto spiegato: in Italia non esiste ancora (benché un disegno di legge giaccia in Commissione lavoro) il reato di caporalato, una norma che aggredisca questo crimine del mondo del lavoro per quello che è, indipendentemente dallo status del lavoratore sfruttato.
Ciononostante, seguendo l'esempio della Dda di Bari, i magistrati di Palmi avrebbero potuto ricorrere al reato di riduzione in schiavitù, che prevede dagli 8 ai 20 anni di carcere. Provarla è molto difficile, e forse per questo a Palmi si è deciso di non procedere in tal senso. Tuttavia, dovendo scegliere tra le due ipotesi, il quadro descritto dall'ordinanza appare più vicino alla riduzione in schiavitù che non al semplice impiego di manodopera clandestina. Il regime di terrore instaurato con costanti minacce di morte non è forse indice di quella «soggezione continuativa» di cui parla già il nostro codice penale quando introduce la riduzione in schiavitù?
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