Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

10 maggio 2011

Petizione per chiudere i lager di Campania Basilicata e Sicilia
Osservatorio Italia-razzismo 10 maggio 2011
Dall’inizio delle rivolte in Nord Africa e, in particolare, dall’inizio dell’arrivo di numerosi nordafricani nel nostro paese, una serie di acronimi compaiono sempre più spesso nelle cronache quotidiane. Si tratta di Cie (centro di identificazione ed espulsione), Cara (centro di accoglienza per richiedenti asilo), Cda (centro di accoglienza) e Cai (centro di accoglienza e identificazione). Sono luoghi a cui si ricorre per gestire quello che il Governo ha definito come “stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale”. Un’ordinanza, la numero 3935 del 21 aprile, ha autorizzato la creazione di tre nuovi centri indicati con una sigla diversa da quelle prima citate: i Ciet (Centri di identificazione ed espulsione temporanei) ubicati a Santa Maria Capua Vetere in Campania, a Palazzo San Gervasio in Basilicata e a Kinisia in Sicilia.
Lo scorso 2 maggio i senatori Annamaria Carloni (Pd) e Marco Perduca (Radicali), hanno visitato il centro campano. Le condizioni igienico-sanitarie dei 102 “ospiti” tunisini sono risultate molto gravi. Maurizio Braucci, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande e Roberto Saviano, in base al resoconto di quella visita, hanno deciso di promuovere una petizione rivolta al Ministero dell’Interno affinché la struttura venga chiusa. Secondo i promotori questa iniziativa è necessaria “al fine di riservare un trattamento democratico delle persone lì senza motivo detenute e cessare l’umiliante situazione che, lungi dall’affrontare l’emergenza attuale, sta soltanto creando un assurdo meccanismo di uomini trasformati in bestie e in aguzzini”.
Ci sembra una buona iniziativa.
Per aderire: http://www.firmiamo.it/liberimigranti



Samir: "La mia prigionia nelle tende blu del Cie"
Ferruccio Sansa
il Fatto quotidiano 10 maggio 2011
Chiuso in un Campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci perso¬ne. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia.
Per fare questa fine Samir ha ciato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. "Sarai ospitato in un centro di accoglienza", gli hanno detto portandolo a Santa Maria CapuaVetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione.
Difficile accertare come siano trattati gli "ospiti" del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all'ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall'altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende. Lo chiamano Cie, ma ricorda un po' le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: "Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C'erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo", racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: "Ci hanno portato qui il 18 aprile. Da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fos¬simo avvertiti. Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero ", raccontano gli immigrati nei verbali. Già, il primo punto è questo: "Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati noi raccontano di aver firmato per ottenere i ve¬stiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro", sostiene Mimma D'Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono - e vengono uccisi - come bestie.
I ragazzi dell'Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: "Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l'assistenza in detenzione". Ma in mezzo all'ondata di decine di migliaia di immigrati i 102 ospiti di Santa Maria Capua Vetere sono stati dimenticati. È Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: "Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno due volte al giorno... dobbiamo fare i nostri bi-sogni nelle bottiglie.   E   non possiamo nemmeno andare in infermeria... siamo    trattati come animali. Di   notte   c'è freddo, ci hanno   dato   solo una     coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non
c'è la luce". Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: "Sarebbe una tragedia. Ben Ali se n'è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso". Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici.
Il racconto di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: "Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone ad-dirittura per sei mesi. Non si può stare cosi... nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti... ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici". Non basta: "Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore... gente che vive ignorando che cosa li aspetta".
Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: "Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C'è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro". Gli immigrati di-cono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli... "Hanno firmato di loro spontanea volontà". Gli agenti del campo, però, sussurrano: "Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall'altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo". La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: "Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così. Chissà... parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?". Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l'o-rizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: "Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così".



Costruiamo un`Europa integrata
Emma Bonino
il Sole 24Ore 10 maggio 2011
Dalla Scandinavia alMedii errano, l`Europa è attraversata da cambiamenti sociali e politici di così vasta portata da mettere in discussione i suoi principi fondamentali.
Anche la diversità, da sempre una costante europea che ha arricchito la nostra storia, viene vissuta oggi come una minaccia. • I segnali sono davanti ai nostri occhi: intolleranza e fanatismi che dilagano; crescente sostegno a partiti populisti e xenofobi; presenza sempre più massiccia di migranti senza status e senza diritti; comunità "parallele" che non interagiscono con il resto della società;
libertà individuali compresse;
democrazia, e democrazie, in crisi.
È di fronte a questo preoccupante scenario che ho accolto, nel luglio scorso, l`invito del Segretario Generale del Consiglio d`Europa, Thorbjern Jagland, a far parte di un gruppo ristretto di "personalità" europee, presieduto dall`ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, con il mandato di preparare un rapporto su come combinare libertà e diversità - due concetti al cuore dell`identità europea nell`Europa del XXI Secolo. Il frutto del nostro lavoro, che saràreso pubblico 1`n maggio, propone un`alternativa a questa ondata di populismo e tenta d`indicare la strada per un`Europa più forte e più sicura di sé, e che integri le diversità anziché rifuggirle o respingerle, inutilmente.
Se è possibile essere afro- americano o italo-americano, cì siamo chiesti, è così impossibile immaginare un europeo con trattino, tipo un anglo-asiatico o un italo-africano o un euro-mediterraneo? Noi riteniamo che un`Europa simile possa esistere apatto che tutti gli abitanti che vi risiedono stabilmente siano accettati come cittadini, a prescindere dalla loro fede, cultura o etnia. Come tutti gli altri cittadini in una democrazia, essi devono poter concorrere alla formazione delle leggi, ben consapevoli però che né una religione né una eccezione culturale possono diventare una scusa per violarle.
Nel rapporto proponiamo una sorta di manuale della diversità, contenente 17,principi guida, a uso e consumo. di governanti, legislatori e attivisti in generale. Alla base, ci deve essere una condivisione di fondo sul fatto che la legalità vale per tutti, mettendo però ciascuno ìn condizione di capire cosa dicono le leggi e come possono essere cambiate. Misure particolari sono necessarie per assicurare uguali opportunità a membri di comunità marginalizzate o svantaggiate. La libertà di espressione va sempre difesa, mai limitata per rabbonire atteggiamentiviolenti o intimidatori;
allo stesso tempo, dichiarazioni pubbliche che alimentano il pregiudizio contro minoranze o gruppi d`immigrati non vanno mai ignorate né sottovalutate.
Per attuare questi principi noi invitiamo gli Stati membri del Consiglio d`Europa a concedere i diritti e doveri derivanti dalla cittadinanza, inclu- so il diritto di voto, al maggior numero di abitanti possibile e, come passo intermedio, a concedere a tutti i residenti stranieri il diritto di voto alle amministrative.
Li invitiamo anche a correggere l`immagine stereotipata degli immigrati.e di fornire all`opinione pubblica un quadro più realistico dei bisogni in termini di forza lavoro, rispetto anche a proiezioni demografiche impietose nell`indicare che, senza immigrati, saremo sempre dì meno e sempre più vecchi. La Commissione europea calcola che, nei prossimi 5o anni, nell`Europa a 27, la popolazione attiva diminuirà di circa ioo milioni, pur in presenza di un aumento costante di popolazione. Non è il controllo sui flussi ad essere messo in discussione ma il fatto di garantire ai richiedenti asilo e ai migranti un trattamento equo e umano.
Lo scandalo più grande - lo segnaliamo con forza nel rapporto - è il trattamento subito dalla minoranza più ampia in Europa, quella delle comunità rom, stimata tra i io e i 12 milioni di persone. Una minoranza vista con fastidio qui da noi, seppure marginale come presenza, ma che, dalla visuale dei Paesi dell`Est non ancora investiti dall`immigrazione musulmana, rappresenta invece una questione centrale. Diversamente da altre minoranze, in Europa i rom non sono dei nuovi arrivati, né hanno una madrepatria verso la quale esercitare la loro autodeterminazione. La vasta maggioranza sono cittadini di Paesi europei. Si distinguono dal resto della popola- zione soprattutto a causa della loro esclusione sociale. In tutti i Paesi il loro reddito medio e il loro livello d`istruzione e di impiego li collocano in fondo alla scala sociale. Nessun altro gruppo è oggetto di tale discriminazione e pregiudizio e nessunPaese europeo può dirsi orgoglioso del trattamento che a loro riservano. La loro condizione si traduce in una delle violazioni più persistenti commesse da noi europei di quelli che amiamo chiamare "i nostri valori". In Italia il Governo è giunto al punto di rammaricarsi, come ha fatto il ministro Maroni, di non poterli rimpatriare (dove?) perché «da noi molti hanno anche la cittadinanza italiana:
hanno diritto a restare, non si può fare nulla».
Ma l`Italia non è sola nel promuovere politiche di non integrazione quando non di stampo decisamente razzista o xenofoba:
stesse politiche proliferano in ogni angolo d`Europa.
Una tendenza pericolosa che bisogna invertire finché siamo in tempo. Per questo chiediamo al Consiglio d`Europa e alla Ue di lavorare insieme a una politica comune per l`immigrazione.
E allo stesso tempo di tendere la mano ai nostri vicini mediorientali e nord-africani, offrendo una seria possibilità di partecipare, con adeguato status, alle istituzioni e alle convenzioni europee. Se questa strada sarà seguita, noi pensiamo che l`Europa potrà diventare un posto migliore di quanto lo sia oggi.
Vice Presidente del Senato e membro del Group of Eminent Persons incaricato dal Consiglio d`Europa In un`epoca di profondi cambiamenti e ricca di diversità servono princìpi guida per una società equa e coesa



"Decine di migranti lasciati morire". La Nato indaga ma respinge le accuse
Virginia Piccolillo
Corriere della Sera 10 maggio 2011
Ore 16.23 del 27 marzo scorso. La centrale operativa della Guardia Costiera riceve una telefonata: c’è un barcone con una sessantina di immigrati allo stremo incluse donne e due bambini molto piccoli. Un pugno di minuti e attraverso due chiamate al satellitare viene esattamente stabilita la posizione del barcone, a 60 miglia da Tripoli, e la rotta: si dirige verso le acque di competenza maltese. Alle 16.40 viene informata Malta. Subito dopo e, a cadenza regolare, la richiesta di soccorso viene inoltrata a tutte le navi e tutti gli aerei presenti in quel momento nel canale di Sicilia. È appeso a questi ultimi appelli, di cui è rimasta traccia negli archivi della Guardia Costiera, cui nessuno risponderà ufficialmente, l’interrogativo agghiacciante: chi ha lasciato morire di sete e fame due neonati e decine di profughi che erano stati illusi da primi soccorsi giunti da un elicottero poi scomparso? A sollevarlo il The Guardian, che punta il dito contro la Nato e solleva dubbi sulla portaerei francese Charles De Gaulle. Ma entrambe smentiscono, come tutte le forze navali impegnate a largo della Libia, da cui prosegue l’esodo dei profughi ad un ritmo che allarma il Viminale: il ministro dell’Interno, Roberto Maroni ieri ha auspicato una soluzione diplomatica rapida: «Sono già oltre 10mila i profughi» «se non si ferma la guerra in Libia arriveremo presto ai previsti 50mila e dovremo tenerli tutti» . O, almeno, i sopravvissuti. Ieri, a distanza di un giorno dal salvataggio drammatico dei 500 profughi naufragati sugli scogli di Lampedusa, sono stati trovati i corpi di tre migranti sotto lo scafo. Sembra invece che dei 67 del barcone scomparso a fine marzo sarà difficile ritrovare tracce e responsabilità. Ma come è andata davvero? Don Mussie Zerai, un sacerdote in prima linea nell’aiuto ai profughi eritrei, che ha ricevuto la richiesta di allarme e l’ha girata alla Guardia Costiera, è inferocito: «La Nato deve spiegare. I sopravvissuti sono stati dissetati, nutriti e fotografati da personale a bordo di un elicottero che non aveva bandiere, ma loro ricordano di aver visto la scritta Army e tre giorni dopo una portaerei che sembrava della Nato. Se non lo era dicano chi ha varcato la no-fly zone e acque in cui c’è il blocco navale. Quei morti devono avere giustizia. Si faccia un’inchiesta» . «L’inchiesta è stata già fatta. La nostra non era l’unica flotta militare in quelle acque — spiegano dal comando Nato — l’unica portaerei nostra, ma a 110-170 miglia, era la Garibaldi. Nessun elicottero, né nave ha ricevuto alcuna richiesta di aiuto» . Il comandante Nicola Tommasetti, dalla plancia della Garibaldi, assicura: «Abbiamo svolto molte operazioni umanitarie. Non avremmo certo negato soccorso a un barcone in difficoltà» . Allora chi? La Charles De Gaulle? Il colonnello Thierry Burkhard, portavoce dello Stato maggiore francese, raggiunto dal Corriere, si scalda: «Smentisco formalmente tutto ciò che è stato scritto. Nessun elicottero, nessuna nave francese, ha ricevuto alcuna segnalazione su un barcone di immigrati in difficoltà. Tantomeno la Charles De Gaulle che era a 200 chilometri da Tripoli» . Sicuro che qualcuno non ha lasciato ad altri il compito di salvare quelle vite? «Voi italiani quando avete ricevuto appelli avete sempre risposto. Le pare che i francesi non facciano la stessa cosa?» . E perché anche da Malta viene smentito l’arrivo di alcuna richiesta di soccorso per il barcone alla deriva? Nei tracciati quel drammatico SOS risulta. Così come risulta quello lanciato due giorni prima, sempre a seguito di una segnalazione di don Zerai per un barcone con 300 migranti, tutti sbarcati due giorni dopo a Lampedusa sani e salvi.



Morire di sete vicino a una portaerei
Luchetta Andrea
il Riformista 10 maggio 2011
«Le unità della Nato hanno lasciato morire di sete e di fame 61 migranti africani» denuncia un'inchiesta del Guardian. Un barcone con a bordo 72 persone, partito da Tripoli verso la fine di marzo, sarebbe rimasto alla deriva per 16 giorni, malgrado le autorità della coalizione fossero state allertate dell'emergenza. In due casi, secondo le testimonianze dei sopravvissuti, la barca sarebbe entrata in contatto con unità militari. Senza però che i marinai muovessero un dito per soccorrere i migranti, falciati uno dopo l'altro dal sole, dalla fame e dalla sete. Sul banco degli imputati l'Italia, primo Paese a venire informato dell'emergenza, e la Francia, a cui apparterrebbe una delle navi incriminate. «I nostri piloti decollano ogni giorno verso la Libia per proteggere la popolazione civile, assumendo dei rischi considerevoli. Figurarsi se non saremmo intervenuti in soccorso di un'imbarcazione alla deriva» dice al Riformista un portavoce della marina francese. Il punto della questione sta tutto qui. Perché un crimine intollerabile come quello denunciato dal Guiardian acquisterebbe in questo caso un valore politico evidente, levando qualsiasi velo d'ipocrisia ai raid della Nato in Libia. Come sarebbe possibile sostenere di essere intervenuti in difesa dei civili, di fronte a un simile cinismo? Se l'ennesima tragedia del Mediterraneo è venuta alla luce, è grazie a padre Mussie Zerai, un prete eritreo che gestisce l'ong Habeshia a Roma. Poco dopo la partenza del barcone, rimasto senza carburante, padre Zerai è stato raggiunto da una telefonata dei passeggeri. Il prete ha informato immediatamente la Guardia Costiera che, sostiene, ha diramato l'allarme a tutte le autorità competenti. Un elicottero militare ancora non identificato - su cui però compariva la scritta «army» - avrebbe quindi sorvolato l'imbarcazione, permettendo all'equipaggio di lanciare ai migranti un po' d'acqua e dei biscotti. l militari avrebbero fatto chiaramente segno di restare sul posto, in attesa di nuovi soccorsi. Che, però, non sono mai arrivati. Trasportata dalla corrente, l'imbarcazione sarebbe quindi giunta a poche centinaia di metri da una portaerei, dalla quale sarebbero partiti due jet. Gli occupanti del barcone, stremati, avrebbero sollevato i due bambini a bordo, per chiedere aiuto immediato ai piloti. Ma la richiesta, ancora una volta, è caduta nel vuoto. «Ogni mattina, al risveglio, trovavamo dei nuovi corpi, che lasciavamo a bordo per 24 ore prima di abbandonarli in mare» racconta uno dei superstiti. «Avevamo conservato una bottiglia d'acqua lanciata dall'elicottero per i due bambini. Ma dopo due giorni sono morti anche loro» dice un ragazzo che è sopravvissuto bevendo la sua urina e mangiando dentifricio. In 59 sono morti di stenti al largo del nord Africa. Il sessantesimo è deceduto non appena raggiunta la costa. Il sessantunesimo, invece, è morto fra le mani dei secondini di Gheddafi, che hanno imprigionato i pochi superstiti quando hanno toccato il suolo libico. I nove sopravvissuti adesso sono stati rilasciati e sono pronti a tentare nuovamente la traversata per raggiungere l'Europa. Le questioni aperte dalla tragedia, evidentemente, sono molte e gravi. La Guardia Costiera italiana ha fatto davvero il possibile? A chi appartiene il misterioso elicottero? La portaerei citata dai superstiti è la Charles De Gaulle, come sostiene il Guardian? E soprattutto: è possibile credere che un'imbarcazione alla deriva in uno degli specchi di mare più vigilati del mondo passi inosservata per ben sedici giorni, a dispetto della presenza di una missione internazionale incaricata proprio di vigilare sulle navi in transito? Gabriele Del Grande è un giornalista che segue da anni le rotte dei migranti. La sua esperienza, più di qualsiasi valutazione a freddo, può fornire una prima risposta. «Verso la fine di marzo mi sono imbarcato su un peschereccio libico che trasportava aiuti umanitari a Misurata» dice al Riformista. «Nel corso del viaggio d'andata, una nave da guerra ci ha intercettati da una distanza di cinque miglia, chiedendo di identificarci e dove fossimo diretti. Ci ha seguiti per un po', probabilmente mentre verificava le informazioni. Al ritorno, invece, per due volte abbiamo visto le navi della coalizione a occhio nudo. Ci hanno ricontattati e identificati in entrambi i casi. Col radar di un peschereccio si vede praticamente tutto fino a venti miglia di distanza. Figuriamoci con le attrezzature di cui dispone la Nato». L'Alleanza, però, nega ogni addebito. Contattato dal Riformista, il portavoce David Taylor dice che, nel periodo in esame, le navi della coalizione hanno soccorso due barconi e che entrambi sono giunti a destinazione senza incidenti. «So che ci sono stati degli allarmi, ma al momento preferisco non commentare, stiamo verificando se possono riguardare il caso in esame. Di certo la portaerei di cui si parla non era della Nato, così come non era nostro l'elicottero che ha gettato i viveri». Ancora più netto il portavoce della marina francese. «Ma le pare possibile che una qualsiasi imbarcazione possa giungere a 300 metri da una portaerei senza venire intercettata in precedenza? E quale comandante farebbe decollare due velivoli per verificare qualcosa per cui sarebbe bastato un cannocchiale?». Padre Giovanni Lamanna è il presidente del Centro Astalli. Si sofferma sull'origine delle vittime di questa tragedia, tutte provenienti dall'Africa sub-sahariana. «In Libia ci sono ancora almeno mille persone che potrebbero godere dello status di rifugiati e sono costrette a nascondersi. La comunità internazionale deve organizzare un ponte per evacuarli in sicurezza. Per quanto ancora resteremo a guardare? È intollerabile. Abbiamo resoconti di donne sistematicamente stuprate dai poliziotti libici, costrette a fare la doccia a due o a tre per proteggersi». «In questo caso» dice il professor Vassallo Paleontologo «è possibile ravvisare gli estremi dell'omissione di soccorso e persino dell'omicidio colposo. Stiamo assistendo a un rovesciamento della legge del mare, che impone di soccorrere chiunque si trovi in pericolo di vita. L'Italia, purtroppo, ha fatto scuola». Inevitabile pensare al capitano della Cap Anmur, un marinaio tedesco incriminato nel 2004 per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina poiché reo di aver fatto sbarcare in Italia - sotto il controllo della autorità - i migranti che aveva tratto in salvo da un barcone in difficoltà.


Deriva europea
Guido Viale
il Manifesto 10 maggio 2011
Volevano liberare il territorio patrio, e quello delle nazioni conquistate - il loro Lebensraum - dalla presenza degli ebrei; per impedire che gli contaminassero razza e costumi; ma non pensavano ancora allo sterminio. Prima avevano cercato di chiuderli nei ghetti: ma «loro» erano troppi e ancora troppo visibili. E si erano resi conto che con i pogrom - famoso è quello della notte dei cristalli - non avrebbero mai risolto il «loro» problema. Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli sull'orlo delle fosse comu¬ni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema «asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È la storia della Shoah.
Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri tenitori dall'invasione di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima abbiamo usato una legislazione ad hòc e le questure, equiparando la loro esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in vere e proprie galere, fìngendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da qualche altra parte. Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in massa. C
osì ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito fino al giorno prima. Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo, in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi (ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossi¬mo passo di questa deriva?
La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita «Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita. Ma sulle menzogne della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro, parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto sesso con Berlusconi. Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato «Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte -film e libri come Stiss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano un'ispirazione diversa?
Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica (la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale: esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di cultura tede-sca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta della nuova Europa razzista.
Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una tirannia mascherata da democrazia: niente di molto di¬verso dai regimi di Ben Ali, Mubarak o Assad.
Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare, un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o sovra-nazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di arricchire tutti: chi è qui e chi resta là. Una società dove a tutti venga offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione. Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più urgenti). E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande «capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile», che nessun programma di coopera-zione ministeriale potrà mai realizzare.
Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze, di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande comunità.



Intervista a Don Virginio Colmegna
«Ma ora nessuno li vuole vicino»
il Manifesto 10 maggio 2011
Don Virginio Colmegna, presidente della fondazione della Casa della Carità. Il 30 aprile 2011 il Triboniano ha chiuso definitivamente I cancelli. La storia del campo rom più grande del nord d'Italia è un capitolo chiuso?
La storia del Triboniano non termina con la sua chiusura. Le persone che hanno vissuto in quella che era una vera e propria favela stanno affrontando progetti di inserimento sul territorio e incontrano ora le prime difficoltà. Pochi giorni fa sono stati esposti, nei palazzi dove sono andate ad abitare alcune famiglie, cartelli contro la decisione di dare case ai rom da comitati che potremmo definire "progressisti". Un comportamento preoccupante, sintomo di una discriminazione diffusa. I rom che abitavano il Triboniano sognavano da tempo una casa e ora che stanno diventando a tutti gli effetti dei cittadini e stanno prendendo coscienza dei loro diritti dobbiamo continuare a camminare con loro. Affittano case, accendono mutui, lavorano, mandano i loro bambini a scuola.
L'amministrazione Moratti ha festeggiato la chiusura del campo come una vittoria perché nessuna famiglia è rimasta fuori. Pochi mesi fa avete dovuto fare causa alla stessa amministrazione perché non voleva consegnare case, già assegnate, al rom. Sono due facce della stessa campagna elettorale?
Hanno sostenuto che è stata la magistratura a obbligarli a fare un passo indietro, ma con quel comportamento hanno bloccato il lavoro di chiusu¬ra del Triboniano per tre mesi. Qualche mese fa tutte le autorità sostenevano che non è accettabile dare case ai rom ma ora circa quaranta appar¬tamenti sono stati consegnati alle famiglie uscite dal Triboniano. Questa per noi è una vittoria culturale: il campo è più un concetto mentale che un fatto fisico. L'amministrazione ha chiuso il Triboniano fisicamente ma non lo ha fatto con la testa. Bisogna superare la logica discriminante del ghetto. Ma questo purtroppo è difficile non solo a destra ma anche per il centrosinistra.
De Corate ha festeggiato i cinquecento sgomberi di insediamenti abusivi in pochi anni. Come sta Milano dal punto di vista delle politiche sociali?
Per quanto riguarda i rom c'è una vera e propria abdicazione del sociale che rende la città molto più insicura. Ragioniamo di più di sociale con la prefettura e con la questura che con le istituzioni. Bisogna intraprendere la strada della cultura della cittadinanza e della responsabilità sociale, che non vuol dire liberismo senza doveri. Penso agli anziani, un'alta percentuale dei quali è sola a casa e non ci sono strutture adeguate ad aiutarli. Penso ai malati psichici e alle sofferenze delle loro famiglie. Il sociale andrebbe valorizzato come elemento di cambiamento. Nel 2005 per la prima volta la Casa della Carità ha intrapreso con alcuni rom sgomberati un percorso che li ha portati alla "vita in casa". Cosa è rimasto di quell'esperienza?
È stata certamente un'esperienza forte. Durante il lavoro di "accompagnamento" verso una vita in casa abbiamo sempre cercato di entrare nel merito delle questioni, anche "conflittualizzando" là dov'era necessario il rapporto con chi stavamo aiutando, senza buonismo ma costruendo un legame di fiducia recìproca. Penso alle molte donne che hanno trovato lavoro e a quanto questo le ha fatto prendere coscienza comportando anche qualche cambiamento all'interno dei clan dove a volte erano sfruttate o maltrattate. Insomma, sono molti i motivi che ci portano a sostenere che vincere la sfida dell'integrazione è possibile,



Via da Cuba senza remi, il sogno si avvera
Rocco Cotroneo
Corriere della Sera 10 maggio 2011
È appena una frase di due righe, annegata in un documento di decine di pagine. «Studieremo le disposizioni che permettano ai cubani di viaggiare all’estero come turisti» , annuncia il governo dell’Avana. È una novità storica: per la prima volta in mezzo secolo, dagli albori della Revolución castrista ad oggi, prendere un aereo e lasciare l’isola non sarà più privilegio per pochi cubani, o una rara concessione del regime dopo una immane trafila burocratica. Della svolta si mormorava da tempo, ma non si era ancora vista una frase scritta o una parola ufficiale su una delle restrizioni alla libertà personale che affligge i cubani, ancor più forse dei diritti politici di associazione. È ancora presto per sapere se la disposizione numero 265, apparsa ieri sulla stampa ufficiale insieme agli atti del recente congresso del Partito comunista, sarà dirompente come quella frase del 9 novembre 1989 a Berlino Est, che fece svanire il muro in una notte. Come nei regimi comunisti del passato, anche a Cuba la voglia di fuga all’estero è forte, soprattutto tra i giovani, ma non è detto che la storia si ripeta. «Non sappiamo ancora nulla sulla tarjeta blanca, se resterà in vigore o verrà abolita» , avvisano dall’Avana. Si tratta del permesso di uscita, che il ministero degli Esteri può concedere, a propria discrezione, una volta che un cittadino ha già in tasca un visto per entrare in un altro Paese. Ed è proprio questo aspetto che rende improbabile una fuga di massa: quasi tutti i Paesi del mondo esigono il visto turistico o di lavoro dai cubani. Non è sufficiente, insomma, ottenere il permesso di lasciare l’isola. Ulteriore, e non secondaria limitazione, è quella economica. Da Cuba si possono prendere soltanto voli di linea a tariffa piena, il cui costo equivale a decenni di stipendi ufficiali. Sarà interessante sapere come reagiranno alla misura gli Stati Uniti. Al momento con Cuba vige un trattato di emigrazione controllata (si concedono un numero limitato di visti all’anno) e la famigerata legge «piede secco, piede bagnato» che garantisce la residenza americana ai fuggitivi via mare che riescono a raggiungere le spiagge della Florida, ma non agli sfortunati che vengono intercettati dalla guardia costiera in mezzo al mare. «Sono ottimista: credere che il muro cadrà è un modo per aiutarlo a crollare» , ha scritto ieri Yoani Sánchez nel suo blog. La ragazza dissidente è un esempio tipico. Invitata da vari Paesi stranieri a tenere conferenze o ritirare premi, non è mai riuscita ad ottenere in molti anni il permesso di viaggiare. Le è sempre stato negato senza spiegazioni. Migliaia di giovani sono passati invece attraverso le complesse procedure di invito dall’estero, diventate una fonte di valuta pregiata per il governo, visti i costi. E poi c’è naturalmente l’industria dei matrimoni con ricongiungimento, che vede gli italiani ai primi posti (e non sempre si tratta di uomini). L’annuncio sui viaggi è contenuto in un fascicolo di 48 pagine, intitolato «Lineamenti sulla politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione» , approvato lo scorso 18 aprile dal Congresso del Pcc. Si conferma l’apertura al lavoro in proprio e l’eliminazione di migliaia di posti statali, oltre al rilancio degli investimenti stranieri. Si tenterà di creare un sistema bancario e finanziario, necessario per il credito ai privati e alle nuove cooperative. Ufficiale anche la possibilità di vendere e acquistare automobili e case, superando l’attuale sistema della permuta. Nessuna apertura politica, invece, il giorno dopo la tragica morte del dissidente Juan Wilfredo Soto, ammazzato a botte dalla polizia.

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