Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 luglio 2012

Cittadinanza, questione morale
l'Unità, 05-07-2012
Luigi Manconi
Esistono ancora idee e valori capaci di distinguere nitidamente tra conservazione e progresso, tra posizioni reazionarie e posizioni riformiste e in buona sostanza tra destra e sinistra?
Il mondo è cambiato dalle fondamenta, le ideologie si sono sgretolate e le appartenenze via via deperiscono e, soprattutto, le fratture sociali seguono percorsi nuovi e imprevedibili. Eppure. Eppure resistono contraddizioni e conflitti che, tuttora, consentono di aggregare movimenti e di mobilitare energie e passioni intorno alla tutela dei diritti fondamentali della persona e della sua dignità. Contraddizioni vecchie e nuove e conflitti antichi e moderni. Quando questo è il terreno di confronto, scegliere diventa più agevole e, talvolta, ineludibile. Consideriamo le due frasi seguenti: «Cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia? È senza senso e poi: «Senza il reato di immigrazione clandestina, l’Italia diventerà la cloaca d’Europa. La prima di queste citazioni è di Beppe Grillo e nessuno se ne stupirà. La seconda è, in apparenza, di più difficile attribuzione: ma se ci pensate un attimo, la prosa preziosa, la selezione sofisticata dei termini, l’inesorabile sequenza logica denunciano che l’autore non può essere altri che Antonio Di Pietro.
Si tratta di due affermazioni che vale la pena memorizzare in queste ore: intanto perché ieri, davanti a Montecitorio, il Forum immigrazione ha tenuto una manifestazione in vista del dibattito parlamentare sulla riforma della cittadinanza; e poi perché questo obiettivo (una nuova normativa sulla cittadinanza) è stato indicato dal segretario del Pd come il primo punto del programma di governo del centrosinistra per la prossima legislatura. E c’è una terza ragione. Qualche giorno fa, il Corriere della Sera, riprendendo le parole di Massimo D’Alema, chiede a Nichi Vendola, «quali valori di sinistra veda in Di Pietro. Il leader di Sel risponde ribaltando la critica su chi lo contesta, accusato di votare «insieme al Pdl lo sfregio dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e altre simili nequizie.
La replica è abile e, tuttavia, Vendola sorvola su quali siano «i valori di sinistra di Di Pietro. (Di Beppe Grillo, ovviamente è meglio tacere). Non si tratta di una polemica futile. Tutt’altro. E qui soccorre il tema della cittadinanza. Quest’ultimo e, in generale, la questione relativa a migranti e profughi, così come altri temi incandescenti e controversi (dal mercato del lavoro alle garanzie del sistema penale, dall’autodeterminazione del paziente ai diritti delle minoranze sessuali) costituiscono un test cruciale. Non solo per agitare «le belle bandiere, ma anche per disegnare i tratti concreti di una organizzazione sociale più equa e più libera. Si tratta di problematiche fortemente politiche, destinate a tradursi in norme e misure conseguenti, a contribuire a produrre mutamenti sociali e cambi di mentalità, a influire sulla qualità della vita di tutti. E sono, allo stesso tempo, opzioni morali, in quanto hanno strettamente a che fare con la nostra idea di bene collettivo e di società giusta. Per questo il tema della cittadinanza ha già oggi, ed è destinato ad assumere sempre più, il valore di una grande questione pubblica ad alta intensità etica. Perché dà a un termine fin troppo abusato, quale inclusione, il senso così concreto di processi sociali che riguardano uomini e donne e bambini e il loro stesso destino. Perché allude a cosa siano i diritti fondamentali della persona in un contesto geo-politico che non è più quello angusto e discriminatorio degli antichi stati nazionali. Perché, infine, rimanda a una possibile idea, faticosa e ancora tutta da costruire di «cittadinanza umana capace di accogliere e di elaborare, in senso profondamente innovativo, il meglio di quanto è stato prodotto dalle culture più fertili della storia europea: il cattolicesimo sociale, il riformismo del movimento operaio, la tradizione radicale, liberale e libertaria, il pensiero ecologista.
A fronte di questo c’è quella frase di Antonio Di Pietro prima ricordata: «Senza il reato di immigrazione clandestina, l’Italia diventerà la cloaca d’Europa. Come sempre, la scelta del vocabolario è fattore qualificante e dirimente: quella «cloaca d’Europa è, inequivocabilmente, linguaggio fascistoide; o, se preferite, immorale.
Un impasto di corruzione intellettuale e di quel disturbo del comportamento, non esclusivo delle fasce adolescenziali, che è la coprolalia.



Cittadinanza. Il Pd scende in piazza
Manifestazione davanti a Montecitorio per chiedere una legge che stabilisca lo ius soli: chi nasce in Italia è italiano
Bersani: «Sarà il nostro primo atto quando andremo al governo
l'Unità, 05-07-2012
Giuseppe Vittori
«Quando tocca a noi, la prima norma che il nuovo governo farà, sarà sulla cittadinanza. Chi nasce qui è italiano. Stiamo parlando di ragazzi nati qui, che lavorano e pagano le tasse e non sono nè italiani nè immigrati. Ed invece sono italiani e non è lui fuori dal mondo nuovo ma noi. Così Pier Luigi Bersani ha rilanciato, intervenendo al sit-in, promosso ieri dal Pd davanti a Montecitorio, la battaglia per il riconoscimento del diritto di cittadinanza sulla base dello ius soli ai figli di immigrati. «Un grande paese ha aggiunto deve capire che questa è una battaglia di civile, morale e etica se vuole offrire un grande futuro ai propri figli. Un milione di Balotelli che ci sono in Italia devono veder riconosciuti i propri diritti. Bersani ha poi ricordato che «l’articolo 3 della Costituzione . parla chiaro e deve essere la nostra bandiera. Lo facciamo per i diritti negati di questi ragazzi. Ci siamo impegnati in questo percorso per rendere esplicite agli italiani le nostre intenzioni ha continuato dobbiamo tirar via questo tema dal ’non detto’, dove è stato relegato da anni di ideologia di destra, che ha fatto danni al paese non solo economici ma anche di natura civile e sociale.
Presenti in prima fila i protagonisti della seconda generazione di figli di immigrati, centiniaia di giovani provenienti da diverse città italiane, assieme a parlamentari ed esponenti del Partito Democratico.
Sono quasi un milione di giovani e bambini figli di immigrati con il permesso di soggiorno nel Paese dove sono nati o cresciuti. Cambiare la legge attuale è stato ribadito è una questione di civiltà democratica. E adesso finalmente, dopo anni di battaglie e centinaia di migliaia di firme raccolte, su iniziativa del Pd, approda in Parlamento la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza, che il centrodestra in questi mesi ha continuato a bloccare, basata sul principio secondo cui chi nasce e cresce in Italia è italiano.
Sul palco Livia Turco, responsabile immigrazione del Pd, ha ribadito il no a leggi al ribasso: «La nostra posizione è chiara e dice che chi nasce in Italia ed è figlio di immigrati regolari da almeno 5 anni possa fare domanda di cittadinanza. Mentre chi viene da adolescente può farla al completamento del primo ciclo scolastico.
Kalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd ha lanciato un appello a tutti i parlamentari: «Guardateci negli occhi e diteci come intenderete votare in occasione della discussione della legge in Parlamento. Come nuovi italiani impegnati nel Partito Democratico non ci rassegneremo perché siamo certi che questa battaglia la vinceremo tutti insieme, innanzitutto per il bene dell’Italia. E Marco Pacciotti, coordinatore nazionale del Forum Immigrazione: «Siamo determinati a continuare il nostro impegno perchè l’Italia finalmente si doti di una legge che rispetti il cambiamento avvenuto nella società e che ridia finalmente un po’ di giustizia e di civiltà in un Paese che ne ha un bisogno assoluto.



Il futuro. Seconde generazioni
Italiani, ma senza poterlo essere
Vivono, amano e lavorano nel Belpaese. Tifano per gli Azzurri, ma non sono cittadini come Balotelli
l'Unità, 05-07-20112
Francesca Paci
ROMA Si sentono chiamati in causa quando la disoccupazione under 24 sfiora il 37%, quando il presidente Napolitano esorta i giovani a scendere in campo, quando Montolivo sbaglia il rigore contro l’Inghilterra e soprattutto quando l’icona Balotelli castiga due volte la Germania (e pazienza per la coppa d’Europa mancata). Si sentono italiani dentro ma fuori così così. Sono le seconde generazioni d’immigrati, il Paese del futuro, oltre un milione di ragazzi e ragazze che in virtù dello ius sanguinis faticano a ottenere la cittadinanza pur essendo nati o cresciuti a Roma, Bologna, Vercelli, Lecce (in Italia, come in Grecia e parzialmente in Germania, la cittadinanza dipende dal fatto che almeno uno dei genitori ce l’abbia e non dall’essere nato sul territorio dello Stato come in Francia e negli Stati Uniti)
«Rispetto ai nostri padri abbiamo la consapevolezza di non essere più portatori di bisogni ma di diritti e doveri» spiega il responsabile dei nuovi italiani del Pd Khalid Chaouki al termine del sit-in organizzato ieri davanti a Montecitorio per chiedere la modifica della legge sulla cittadinanza. Il segretario Pierluigi Bersani ha appena garantito alle decine di manifestanti avvolti nel tricolore che, una volta al governo, sostituirebbe lo ius sanguinis con lo ius soli perché «chi nasce e cresce qui è italiano». E pazienza se nel frattempo il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri definisce quella promessa una «regolarizzazione facile e in controtendenza con l’Europa»: chi s’identifica nel siculo-ghanese-bresciano in maglia azzurra SuperMario Balotelli non ha mai avuto veri dubbi circa la propria identità.
«Parlo meglio l’italiano del dialetto marocchino, il mio film preferito è “La ricerca della felicità” di Muccino, fino a poco tempo fa avevo una fidanzata italiana, eppure a settembre, quando compirò 18 anni, sarò tecnicamente un clandestino» lamenta Adil el Youssoufi, emigrato da Marrakesh nel 1999 e cresciuto con i genitori e i fratelli a Imola, dove frequenta l’istituto tecnico e soprattutto le briose discoteche della riviera. Il connazionale venticinquenne Abderrahmane Amajou, «cittadino» ma solo grazie alla moglie italiana, ammette che, per esempio, non potrebbe affrontare un libro in arabo: «Sono arrivato nel Cuneese a 7 anni, ho studiato scienze politiche a Torino, ascolto Jovanotti e Vasco Rossi e leggo molto, ho appena terminato “Il mio migliore amico”, la mia lingua è l’italiano».
Quasi tutti quelli in sit-in a Montecitorio sono originari del Maghreb o dell’Albania. C’è qualche sudamericano come la commessa di McDonald’s Vanessa Cuvas, padre peruviano e madre colombiana ma entrambi senza cittadinanza italiana, o il grafico capoverdiano trentunenne Ireneo Spencer che vede e rivede su internet i film di Totò e, dice, non cambierebbe Roma con nessuna città del mondo. Ci sono un paio di pakistani, qualche nigeriano. Mancano i cinesi, una delle comunità straniere più numerose, ma il loro è un caso a parte perché Pechino non riconosce il doppio passaporto e diventare italiani significherebbe un aut aut. Tutti diversi e tutti simili. Per capire a che nazionalità sentono d’appartenere basta chiudere gli occhi e ascoltarli mentre si prendono in giro in romagnolo, romano o pugliese.



La sfida dei nuovi italiani
l'Unità, 05-07-2012
Khalid Chaouki, Responsabile Nuovi Italiani PD
L’Italia a Kiev purtroppo ha perso, i nuovi italiani invece hanno vinto. Può sembrare un paradosso, ma è la verità emersa in queste ultime giornate di campionato europeo di calcio. Milioni di italiani hanno scoperto grazie alla doppietta di Mario Balotelli che esistono anche i “neri italiani”, un popolo di un milione di ragazzi e ragazze che sono italiani di fatto, ma ancora stranieri per una legge ingiusta e ingiustificata. Balotelli è diventato cittadino italiano solo a diciotto anni e fino a quell’età aveva in tasta un permesso di soggiorno nel comune dov’è nato.
A Mario Balotelli va quindi il merito di aver posto al centro dell’attenzione popolare non tanto la rivendicazione del diritto alla cittadinanza italiana, quanto la semplice esposizione di una realtà che mai prima d’ora era stata così al centro dell’attenzione. In tutti i bar delle piazze d’Italia, anche nei paesini più remoti della provincia, terre padane comprese, il nome di Mario Balotelli, la sua storia, il suo abbraccio alla madre e le sue lacrime dopo una finale durissima sono state oggetto di commenti e discussioni. La questione dei “nuovi italiani” è diventata finalmente una questione largamente popolare. Finalmente ci siamo almeno per metà del lungo viaggio che dovrà condurci verso una riforma giusta e civile della legge sulla cittadinanza in Italia basata sullo Ius Soli: è italiano chi nasce o cresce in Italia da genitori immigrati.
Da oggi in poi raccontare le storie e la discriminazione a cui sono sottoposti i “nuovi italiani” sarà sicuramente più semplice anche di fronte alle platee più scettiche o meno informate. Ma al contempo si dovrà riflettere in modo serio su quanti altri Balotelli e a quante altre “doppiette” stiamo volutamente rinunciando danneggiando il complesso della nostra società e alimentando pesanti frustrazioni in chi quest’Italia la ama veramente, nonostante tutto.
Quanti bravi avvocati, giornalisti, medici, poliziotti, magistrati, sindaci, diplomatici, funzionari pubblici e tante altre figure professionali a cui oggi rinunciamo per una legge stupida e arretrata. Giovani che con il trenta e lode all’università continuano a vivere con la minaccia della perdita del permesso di soggiorno nel Paese dove sono nati o cresciuti.
A questo punto della lunga battaglia e in vista della discussione della legge sulla cittadinanza in Parlamento su richiesta del Partito Democratico, dobbiamo essere in grado di rilanciare il tema della cittadinanza sotto il profilo non solo dei diritti legittimi dei “nuovi italiani”, ma anche per il diritto dell’Italia di non vedersi sciupata una straordinaria opportunità. Senza Mario Balotelli non saremmo arrivati in finale, senza i “nuovi italiani” l’Italia perde una marcia in più. D’altronde come immaginare la scuola italiana oggi senza decine di bambini portatori di culture lontane ma straordinariamente radicati nei quartieri e negli oratori vicino alle proprie case? Come immaginare la propria città senza il negozio di alimentari gestito dall’ormai amico di famiglia di origine pakistana, la propria nonna senza la sua assistente di origine moldava o la propria pizzeria senza il bravissimo cuoco egiziano? L’Italia è diventata tutto questo. Un nuovo paese multiculturale, trasformato rapidamente nell’arco di vent’anni, ma senza particolari incidenti di percorso grazie alla giusta dose di convivenza all’italiana.



Sono almeno 400 mila i braccianti arruolati dal caporalato che ogni estate dalla Puglia al Trentino lavorano nelle campagne
I sindacati denunciano lo sfruttamento ma serve una ribellione della società civile
E una legge che punisca i “mandanti”
Così il pomodoro “giusto” salva gli schiavi invisibili
la Repubblica, 05-07-2012
Carlo Pietrini
Tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300 kg sotto il sole a 40 gradi. Due euro e mezzo se si è clandestini. È questa la paga che un immigrato riceve nelle campagne pugliesi, dove fa anche 14 ore al giorno. Lavora a cottimo. I più robusti riescono a portare a casa 20/25 euro al giorno (il 40% in meno di un italiano con le stesse mansioni), al netto di un taglieggiamento su trasporto, cibo, acqua e altre necessità elementari controllate dai caporali che li assumono e distribuiscono il lavoro. Mentre gli italiani iniziano ad andare in vacanza, non lontano dalle spiagge più belle si raccolgono pomodori, meloni e angurie, impiegando migliaia d’immigrati africani extra-comunitari o dei neo-comunitari provenienti dall’Est Europa.
Vogliamo aspettare un’altra drammatica protesta come a Rosarno nell’inverno 2010? O un altro sciopero come quello di Nardò, della scorsa estate, per renderci conto che ciò che mangiamo rischia di essere passato per le mani di uomini ridotti in semi-schiavitù? Non abbiamo garanzie: i pomodori che ci portiamo a casa, o le passate di pomodoro, l’anguria che divoriamo assaliti dalla calura è probabile che siano il frutto di condizioni di lavoro e di vita (in abitazioni di fortuna, senza servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria, sotto costante minaccia) inaccettabili, tanto più per un Paese che si definisce civile.
È una tragedia umana, un incubo per tante persone che si consuma ogni anno, in tutte le stagioni, sotto un pesante velo di omertà e su cui campa buona parte della nostra agricoltura e del nostro decantato made in Italy. Flai-Cgil stima che in Italia ci siano 400mila lavoratori che vivono sotto i caporali. Hanno la loro stagionalità come cel’hal’ortofrutta:aluglioeagosto si concentrano in Puglia, soprattutto nella Capitanata in provincia di Foggia o in Salento; subito dopo passano in Basilicata, nella zona di Palazzo San Gervasio dove i pomodori si raccolgono un po’ dopo; ci sono in Campania, nelle province di Salerno (Piana del Sele) e Caserta (Villa Literno e Castel Volturno). In autunno/inverno tocca agli agrumi: la Calabria con la Piana di Gioia Tauro dove si trova Rosarno, la Sicilia dove ci sono fenomeni di caporalato fino a primavera, con la successiva raccolta delle patate e di altri prodotti orticoli.
Ma non è esente il Nord: si segnalano fenomeni in Emilia-Romagna (frutta a Modena e Cesena), in Veneto (Padova), in Lombardia (Mantova e i meloni) e perfino nel civilissimo Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele. Fenomeni settentrionali che sono ancora marginali, ma che vista la crisi sono in forte ascesa. Crisi che colpisce i lavoratori stagionali, gli immigrati che accettano loro malgrado di sottoporsi a condizioni sempre peggiori, ma crisi che colpisce anche l’agricoltura e i suoi imprenditori, i quali devono ridurre al minimo il costo del lavoro, per non fallire o lasciar marcire il cibo nei campi.
È una crisi che accentua l’assurdità del nostro sistema del cibo industriale, in cui diventa facile puntare il dito contro i caporali, ma in cui è ora che anche altri soggetti si assumano delle responsabilità. I caporali sono terribili, e rappresentano un fenomeno che riguarda anche altri settori lavorativi, soprattutto l’edilizia. Oggi non sono più soltanto italiani, spesso sono africani come gli sfruttati, scatenando una guerra tra poveri che non è esente da fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Gli imprenditori affidano ai caporali il potere di gestire le vite dei braccianti lontano dei centri abitati come lontani sono i campi: se l’occhio non vede nessuno s’indigna, tantomeno chiede regolarità e legalità. Tutto in nero: si calcola che per l’agricoltura il sommerso incida per il 90% al Sud, per il 50% al Centro e per il 30% al Nord.Altro che far rispettare i contratti, questi lavoratori neanche esistono.
Per fortuna, dopo lo sciopero di Nardò dell’estate 2011, è stato accelerato l’iter per una legge che preveda il reato di caporalato, che tuttavia è stata approvata solo in parte: per esempio non vi è traccia di sanzioni per le imprese e non ci sono meccanismi di tutela per i lavoratori che denunciano i loro caporali. Sono tanti le associazioni e i sindacati che si stanno impegnando su questo fronte, ma non possiamo andare avanti con la loro limitata capacità strutturale di sopperire alle mancanze dei sistemi istituzionale e agricolo che sembrano non volerci sentire. Bisogna colpire duramente gli imprenditori agricoli coinvolti: che lo facciano le leggi, le forze dell’ordine, le associazioni di categoria. Un primo risultato si è ottenuto proprio a Nardò a maggio, dove insieme ai caporali, dopo una lunga indagine, sono stati arrestati anche gli stessi imprenditori, i “mandanti”. Gente che tra l’altro esporta la quasi totalità del proprio prodotto, e che dunque farebbe l’orgoglio di chi si lamenta che la nostra agricoltura «è poco competitiva».
Intanto però bisogna che si sollevi la società civile. Si può fare in diversi modi: lo fanno le associazioni o i sindacati come Flai/Cgil, che parte in questi giorni con “Gli invisibili delle campagne di raccolta” eun “camper dei diritti” su cui viaggiano medici, insegnanti di lingua, avvocati, sindacalisti, volontari e Yvan Sagnet, il leader dello sciopero di Nardò. Toccheranno la Puglia, poi la Calabria e infine il Trentino. Vogliono risvegliare le coscienze dei lavoratori, spesso inconsapevoli dei loro diritti e del potere che hanno quando incrociano le braccia: la frutta e la verdura non si raccolgono da sole, e vanno raccolte al momento giusto.
Però possono mobilitarsi le persone che vivono in quei luoghi, darsi da fare di più per l’accoglienza, trovare coraggio e protestare, sposare le battaglie dei braccianti, non accettare che nel loro territorio accadano tali nefandezze. Infine tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi, e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare, e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie. Perché è pur vero che bisogna aiutare i bravi agricoltori.
È ora che il sistema Italia rigetti con forza il caporalato in tutte le sue forme. È urgente, perché intanto queste povere persone sono lì nei campi, a soffrire, in alcuni casi a morire. Sono necessari un intervento del governo (in fondo anche queste sono tasse che vanno recuperate) e della politica locale, un coordinamento nazionale delle forze dell’ordine, l’auto-certifcazione delle aziende virtuose, la nostra scelta quotidiana di un cibo che non sia soltanto buono e sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche giusto: giusto per chi lavora, giusto per chi non vuole diventare complice di questa vergogna italiana.



Dal 18 luglio la durata dei permessi di soggiorno per attesa occupazione passa da sei mesi ad un anno.
Pubblicata martedì scorso in GU la legge 92/2012 sulla riforma del lavoro.
Immigrazioneoggi, 05-07-2012
(Maria Rita Porceddu)
È stata pubblicata nella GU del 3 luglio 2012 la legge 92/2012 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” che prevede il riordino del mercato del lavoro.
La legge, fortemente voluta dal ministro Fornero, introduce importanti novità anche anche per i lavoratori stranieri.
All’art. 4, comma 30, si prevede infatti la modifica del Testo unico sull’immigrazione e l’allungamento da 6 mesi ad oltre un anno della durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione.
Attraverso tale modifica, il cittadino straniero potrà prolungare la sua permanenza in Italia fino ad un anno, attraverso la concessione del permesso di soggiorno per attesa occupazione (che fino ad ora durava 6 mesi) ) o anche oltre un anno, per tutta la durata di eventuali ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione.
Scaduto questo periodo, è prevista inoltre la possibilità per lo straniero di rimanere in Italia se dimostra di possedere un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore agli importi di cui all’articolo 29, comma 3, lettera b), del Testo unico sull’immigrazione. La legge entrerà in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione nella GU, quindi il 18 luglio.



Voci dalle carceri libiche "Qui è l'inferno, aiutateci"
Storie raccontate clandestinamente al telefono, poi trascritte dalla Fondazione IntegrA/Azione 1, dai detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove si trovano persone fuggite dai paesi dell'Africa sud sahariana e del Corno d'Africa per raggiungere l'Europa via mare. Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria  
la Repubblica, 05-07-2012
ROMA - Queste che leggete di seguito sono le storie e le testimonianze raccontate clandestinamente al telefono, e poi trascritte, di detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove vengono rinchiuse le persone che fuggono dai paesi dell'Africa sud sahariana e del Corno d'Africa. Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria, ma dove in qualche modo riescono a tenere accesi alcuni cellulari, con i quali appena possono chiamano per denunciare quanto sta loro accadendo. Queste che seguono sono i racconti raccolti dalla Fondazione IntegrA/Azione 2.
Una speranza che sta svanendo
Debesay, eritreo
"Mi hanno arrestato mentre camminavo in città a Benghazi - racconta Debesay, detenuto da più di due mesi nel carcere di Ganfuda - cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di raggiungere l'Italia dove già è rifugiata mia madre. Qui in carcere siamo disperati, frustrati, abbiamo provato ad uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie". Debesay è riuscito a far arrivare a un trafficante 400 dollari per corrompere i militari libici per la sua liberazione. Un pagamento anticipato senza alcuna garanzia, "un tentativo fallito: sono ancora qui. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce". Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei libici. "Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoie sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte al giorno, il più delle volte pane secco e acqua. Per il resto, un'attesa infinita. Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l'abbandono e la morte. Non so veramente che dirti - conclude Debesay - non so cosa faccio, non so che pensare, la speranza sta svanendo..."
A 17 anni nell'inferno di Ganfuda
Mogos, eritreo
Mogos viveva ad Asmara in Eritrea, è scappato dal campo di addestramento dell'esercito eritreo di Saua per non trovarsi costretto ad andare al fronte a soli 15 anni. Una fuga lunga, durissima. Passato il confine è stato quasi due anni in Sudan, per trovare il giusto trafficante di esseri umani e reperire il denaro per riprendere il viaggio sino alle coste libiche, per tentare di raggiungere l'Italia. Come per tutti passare il deserto è stato un'odissea. Un lungo viaggio senza ritorno andato "male, molto male. Come ti spiego - dice Mogos al nostro mediatore culturale - tu lo sai bene, hai già passato questo deserto, abbiamo viaggiato per 12 giorni, eravamo 50 persone ammassate su un camion". Ad un passo dal mare, quando sembrava finito l'incubo, "mi hanno beccato con i ragazzi che viaggiavano con me. Camminavo verso Tripoli, per trovare il modo per attraversare il mare, sicuro di avercela fatta, quando i militari libici mi hanno preso e arrestato nel corso di una retata. Per due giorni mi hanno tenuto nel centro di Ijdabiyah, poi mi hanno trasferito qui a Ganfuda. Sono da quattro cinque giorni qui a Gandufa, si sopravvive tirando avanti giorno per giorno. La cosa più dura è non vedere un futuro, un'uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare". Alcuni prigionieri vengono scelti per lavorare da ricchi libici, che comprano i detenuti per poi usarli come forza lavoro a costo zero nelle proprie aziende o fattorie nel deserto. Questa uscita dal carcere, per trasformarsi da detenuti a schiavi è possibile solo per le persone con il passaporto, che viene sequestrato in modo da scongiurare la fuga del lavoratore comprato. "Tutti quelli che hanno il passaporto possono uscire, ma anche per questo ci vuole molta fortuna - spiega Magos - noi eritrei siamo tutti senza passaporto, per noi non c'è soluzione, non c'è futuro. A 17 anni sono bloccato qui, all'inferno".
Io scomparso dal mondo
Samuel, eritreo
Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. "Sono fuggito perché non volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia famiglia". Da cinque giorni è anche lui nel carcere libico di Ganfuda: "Ci hanno preso durante il lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i bambini che erano con noi - ci spiega Samuel - sono stati presi e trasferiti al centro della Croce Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla". Le comunicazioni con l'esterno sono difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri. "In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l'unico contatto con la famiglia, i connazionali, i trafficanti: l'unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro. Qui la vita è dura e faticosa - racconta Samuel - siamo sempre chiusi in cella,
possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma non c'è alcuna possibilità d'uscita, non c'è nessuna speranza".
Siamo tanti, tantissimi e altri ne arrivano
Aroon, eritreo
Aroon ha 24 anni e viene anche lui dalla periferia di Asmara, ha condiviso il viaggio di fuga dall'Eritrea con Samuel, compreso l'epilogo di prigionia. "Qui siamo divisi per nazionalità - spiega Samuel - somali, sudanesi ed eritrei, ognuno nella propria cella. Viviamo in ansia continua. Stiamo resistendo, siamo costretti, per forza. Prima il viaggio nel deserto, ora la prigione, trattati come delinquenti, non ce la facciamo più". La speranza nel futuro tende ad allontanarsi velocemente. "Non riusciamo a corrompere le guardie per uscire, quando paghiamo qualcuno ruba i soldi e non ci fa uscire, Evadere è difficile, in pochi ci riescono e se ti prendono ti torturano. La croce rossa non può fare nulla per noi perché questo paese non ha un governo, tutto è caotico". "Siamo tantissimi detenuti qui - conclude Aroon - e altre persone stanno arrivando attraverso il Sudan verso la Libia, molti miei amici sono partiti. Come faranno a tenerci tutti qui"?
Dalla prigione al mare
Anwar, etiope
Nascosto in una stanza con diversi altri connazionali, Anwar è un giovane etiope dell'etnia Oromo, perseguitata nella propria terra e soggetta a vessazioni di ogni genere. "Sono uscito dalla prigione di Ganfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Così poi pagando sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare. Ora sto raccogliendo gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli e imbarcarmi per l'Italia". Nascosto in una casa sulla strada per Tripoli è in balìa del trafficante che dovrebbe condurlo alla costa e che irrompe più volte durante la telefonata con il mediatore della Fondazione IntegrA/Azione 3. "Sono stato prigioniero in tante carceri qui in Libia. Prima sono stato a Kufrah poi a Ganfuda - ci spiega Anwar - La prigionia era terribile, bruttissima: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo il cibo, non c'erano medicine né dottori. Ho passato tutte queste sofferenze e adesso sono diretto finalmente verso il vostro paese. In Libia non ci sono diritti, non c'è un governo. Per loro se tu mangi o non mangi, ti ammali o stai bene non cambia nulla. Voi siete in un paese dove c'è un governo".
Ai lavori forzati
Meron, eritreo
A gennaio Meron era rinchiuso nel carcere di Kufrah, sotto la supervisione dell'UNHCR 4. "A marzo la prigione è tornata sotto il controllo dei militari del nuovo governo libico e noi siamo tornati ad essere prigionieri - spiega Meron - ci costringevano ai lavori forzati pulendo carri armati ed armi". Poprio da questi lavori forzati ha avuto inizio uno sciopero della fame e una manifestazione repressa duramente dai militari. "Da Kufrah ci hanno portato in aereo a Ganfuda, dove sono rimasto quasi due mesi. Ora con un po' di fortuna e molta fatica sono riuscito ad uscire; lavoro in una fattoria di un padrone libico, nell'attesa di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungere mio fratello in Italia".
Aspettando di salpare verso la speranza.
Salua, somala
"Sono stata in carcere a Ganfuda per due mesi - racconta la giovane Salua - la vita era molto difficile. Finalmente sono uscita, ora mi trovo a Tripoli nascosta in una casa". L'appartamento è di un trafficante che sta organizzando la traversate del Mare Nostrum. "Uscire dall'appartamento non è possibile, ci portano ogni giorno beni di prima necessità". Così si passa il tempo nell'attesa delle giuste condizioni meteo per la partenza. "Vengo in Italia la prossima settimana, mi sto preparando". Mentre scriviamo Salua dovrebbe essere in procinto di partire verso l'Italia, non ci resta che augurarle ancora una volta buona fortuna.
Un ringraziamento particolare. Le interviste sono state realizzate con l'insostituibile aiuto di un mediatore culturale di origine eritrea e collaboratore della Fondazione IntegrA/Azione, Mahamed Aman, cui va il
ringraziamento più grande, per aver permesso un'indagine altrimenti impossibile, fornendo chiavi di lettura, informazioni fondamentali nella comprensione del contesto e decodifiche dei messaggi veicolati dai ragazzi intervistati. Una collaborazione che nasce dalla volontà, da parte di Mahamed, di restituire speranza ai giovani
nelle carceri e cercare di far conoscere le loro storie nel nostro Paese, che di quelle vicende è spesso complice. Mahamed ha un fratello che sta ancora in Libia, nell'attesa dopo mesi di carcere di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungerlo in Italia.



"Ci hanno visti in mare e ci hanno respinto di nuovo in Libia"
Le testimonianze raccolte dall'Agenzia Habeshia da un gruppo di 76 profughi, quasi tutti eritrei, che sarebbero stati intercettati da due unità della marina italiana e libica - a quanto pare in missione congiunta - che avrebbero costretto l'imbarcazione con i richiedenti asilo a tornare in Libia
la Repubblica, 04-07-2012
ROMA - "Un gruppo di 76 persone - riferisce l'Agenzia Habeshia, diretta da padre Moses Zerai -  sono state intercettate da mezzi navali battenti bandiera Italiana e Libica. Una delle imbarcazione porta il nome di Napoleone. I profughi, quasi tutti Eritrei, sono certi di essere stati intercettati da un pattugliamento congiunto italia e libia. Una volta prese le persone - prosegue il resoconto - sono state riaccompagnate nelle acque libiche, presso una piatta forma petrolifera e consegnati ai militari libici, che hanno riportato il gruppo in Libia, nel porto di Tripoli, e quindi trasferiti in un nuovo centro di detenzione, ancora in fase di costruzione, minacciati dai militari che saranno deportati verso il paese di origine".
I respingimenti in alto mare. "Queste 76 persone - si legge ancora nel comunicato dell'agenzia - sono tutti richiedenti asilo. Nel gruppo ci sono donne e bambini, il più piccolo ha due anni. Chiedono aiuto per scongiurare la deportazione verso il paese di origine. Con la testimonianza di queste persone che chiedono aiuto - prosegue il dispaccio - si comprende come siano in atto dei respingimenti di massa in alto mare, senza che nessuno verifichi le reali situazioni e condizioni di chi avrebbe il diritto di asilo".
L'appello alle autorità italiane. "Facciamo appello alle autorità italiane - conclude Zerai - in virtù dei loro accordi bilaterali con le autorità libiche, chiedano alle autorità libiche di fermare ogni intenzione di deportazione dei profughi eritrei, per non mettere in pericolo la vita di queste persone, questi richiedenti asilo che vengano consegnate immediatamente nelle mani dell'UNHCR 1 di Tripoli.
 


Immigrati/ Amnesty: Roma revochi gli accordi siglati con Tripoli
A fronte dei continui abusi su rifugiati e richiedenti asilo
Roma, 5 lug. (TMNews) - I rifugiati e i richiedenti asilo sono ancora vittime di gravi abusi in Libia, per questo l'Italia dovrebbe "immediatamente revocare ogni accordo per il controllo dei flussi migratori" siglato con Tripoli. E' quanto ha dichiarato il direttore dell'Ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee, Nicolas Beger, nel nuovo rapporto diffuso oggi, dal titolo 'Libia: primato della legge o primato delle milizie?'.
Nel rapporto si sottolinea come, a quasi un anno dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi, in Libia continuino ad essere registrate diffuse violazioni dei diritti umani, in particolare nei confronti degli africani sub-sahariani privi di regolari documenti, che rimangono vittime di arresti arbitrari, detenzione a tempo indefinito, percosse che possono essere considerate torture e sfruttamento da parte delle milizie armate.
"E' inaccettabile per qualsiasi Paese europeo continuare a ricercare la cooperazione libica per il controllo dei flussi migratori, quando è ben noto cosa succede ai migranti e ai richiedenti asilo in Libia - ha ammonito Beger - l'Italia deve immediatamente revocare tutti gli accordi con la Libia per il controllo dell'immigrazione e deve fare piena luce su tutti i progetti di cooperazione, passati e presenti, con la Libia, inclusi quelle finanziati dall'Ue".
L'organizzazione per la difesa dei diritti umani ha quindi sottolineato come arresti e detenzioni arbitrarie, tortura, in alcuni casi con esiti fatali, omicidi illegali e sfollamenti forzati di popolazioni eseguiti con impunita'stiano gettando un'ombra negativa sulle prime elezioni nazionali dalla caduta del regime di Gheddafi, in programma sabato prossimo.



Comune, sgomberati gli insediamenti rom al cavalcavia Bacula e in via Colico
Al momento dell'intervento gli agenti della Polizia locale hanno trovato poche persone
Corriere della sera, 05-07-2012
MILANO - La Polizia locale ha sgomberato l’area del cavalcavia Bacula e di via Colico occupati da insediamenti rom con tende e baracche. Nell’area del cavalcavia Bacula, di proprietà demaniale, gli agenti hanno trovato sette persone che, di fronte alla contestazione dell’occupazione abusiva, si sono allontanati spontaneamente. Amsa ha ripulito l’area dalle masserizie e il Nucleo di Intervento rapido ha chiuso il varco nella recinzione del cavalcavia utilizzato dagli abusivi per accedere all’area.
I TERRENI - «Nei prossimi giorni l’area verrà presidiata costantemente dalla Polizia locale – afferma l’assessore alla Sicurezza Marco Granelli – ma, per evitare nuove intrusioni, stiamo lavorando con il Consiglio di Zona 8 affinché questo terreno venga preso in carico dalle associazioni. Un progetto che l’Amministrazione sta promuovendo proprio per sottrarre spazi abbandonati al degrado e alle occupazioni e rimetterli così all’uso della città».
VIA COLICO - L’altro intervento si è svolto in via Colico, dove sono state allontanate otto persone. Esselunga, proprietaria dell’area, sta ripulendo la zona dalle baracche e dalle masserizie e provvedendo alla messa in sicurezza con recinzioni.
LE AREE - «Il coinvolgimento dei proprietari di aree non demaniali è determinante – aggiunge Granelli – e, per questo, stiamo chiedendo a enti e privati di operare per la messa in sicurezza degli spazi a rischio. Proprio tra via Colico, il cavalcavia Bacula e piazzale Lugano, è in corso dallo scorso dicembre 2011 una positiva collaborazione con Ferrovie dello Stato, Ferrovie Nord e Poste Italiane, per rendere il più possibile inaccessibili le aree di propria competenza, innalzando le recinzioni e chiudendo possibili varchi. Molte opere sono già state realizzate e verificate, altre sono in via di ultimazione».


 

Sgombero del campo in via del Baiardo I rom: "Noi non ci muoveremo da qui"
Alle 7.30 le ruspe sono giunte nella zona di Tor di Quinto per abbattere l'insediamento. Alemanno: "Un centinaio di persone saranno trasferite alla Barbuta, le altre rimpatriate". Una donna: "Resteremo nelle nostre baracche mentre le abbattono"
la Repubblica, 05-07-2012
Sono iniziate questa mattina presto le operazioni di sgombero del campo nomadi 'tollerato' di via del Baiardo, nella zona di Tor di Quinto. Nell'area occupata dalle baracche dei rom mattina sono arrivate le ruspe, che hanno iniziato ad abbattere le prime baracche. Quando il campo verrà rimosso, l'idea è di creare un circolo sportivo del ministero dell'Economia e della Finanza, proprietario del terreno.
"Dopo 20 anni questo campo viene finalmente sgomberato - ha detto il sindaco Alemanno - qui vivevano centinaia di persone in condizioni disagiate, senza servizi e senza sicurezza. Dopo l'apertura del campo de La Barbutta e la ripresa del piano siamo in grado di chiudere questo di via Baiardo".
Nel campo abitano circa 300 rom  in 70 baracche, l'80% dei quali romeni e il 20% macedoni. "Circa 100 persone che hanno diritto - ha chiarito il sindaco - andranno alla Barbuta, altri 150 senza diritto andranno in un centro assistenza in attesa di essere rimpatriati". "Il nostro obiettivo - ha concluso - è chiudere entro l'estate tutti i campi 'tollerati'".
Ma gli abitanti del campo non hanno alcuna intenzione di andarsene. "Alle 7.30 di questa mattina ruspe e camper erano già al campo - ha raccontato ai microfoni di Radio popolare Silvana, che vive nel campo - presumibilmente sono arrivati all'alba e sono arrivati senza un preavviso reale: si esige che lasciamo le nostre baracche e addirittura lo facciano anche persone agli arresti domiciliari,
senza neppure il decreto di un giudice che autorizzi l'allontanamento dal domicilio stabilito. Comunque né i rom né i romeni hanno intenzione di andare via".
"Non ci hanno detto nulla - ha continuato la donna - stanno facendo tutto da soli. Io so che tutto ciò, compreso il piano del sindaco Alemanno, è illegale. Noi comunque non ci spostiamo - ha concluso Silvana dal campo di via del Baiardo - se le ruspe vogliono buttar giù le baracche con le persone dentro lo facciano pure, noi non ci sposteremo".


Migrazioni, aumentano gli asiatici E i cinesi hanno il primato assoluto
In Europa all'inizio del 2010 erano oltre 4 milioni, concentrati in Germania, Gran Bretagna e Italia. Da noi, all'inizio del 2011, risultano 767mila asiatici residenti (tra di essi 130mila i cattolici), pari al 16,8% del totale degli stranieri. Alcune nazionalità hanno realizzato nella Penisola l'insediamento più consistente  (Cina, Sri Lanka, Filippine, Bangladesh). Sono aumentati di 6 volte nel nostro Paese
la Repubblica, 05-07-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Sono i padroni delle rimesse, aumentano più degli altri immigrati, partecipano in massa alle regolarizzazioni. Sono gli "asiatici d'Italia": un esercito di 767mila persone, cresciuto dell'11,5% nell'ultimo anno. A tracciarne l'identikit è il volume "Asia-Italia. Scenari migratori 1", realizzato da Caritas 2 e Migrantes 3.
Triplicati in dieci anni. In Europa all'inizio del 2010 sono oltre 4 milioni i residenti provenienti da un Paese dell'Asia, concentrati per lo più in Germania, Gran Bretagna e Italia. Da noi, all'inizio del 2011, risultano 767mila asiatici residenti (tra di essi 130mila i cattolici), pari al 16,8% del totale degli stranieri. Non solo. Alcune nazionalità hanno realizzato nella Penisola l'insediamento più consistente a livello comunitario (Cina, Sri Lanka, Filippine, Bangladesh). La presenza d'immigrati asiatici in Italia è aumentata di oltre 6 volte rispetto al 1991 (120mila) e quasi triplicata rispetto al 2000 (265mila).
Primi i cinesi. Negli ultimi anni si evidenziano ritmi di crescita più alti rispetto alle altre collettività straniere e massiccia è stata la partecipazione degli asiatici alla regolarizzazione del 2009, con un terzo di tutte le domande presentate (quasi 100mila). Nella graduatoria dei primi 20 Paesi per numero di cittadini residenti in Italia all'inizio del 2011, 6 sono asiatici: la Cina (210mila, quarta nella graduatoria generale), le Filippine (134mila), l'India (121mila), il Bangladesh (82mila), lo Sri Lanka (81mila) e il Pakistan (76mila).
Tra crisi e nuove imprese. In questa fase di crisi, il mercato continua a offrire agli immigrati asiatici discrete possibilità d'inserimento, soprattutto in agricoltura e nel settore domestico, ma provoca anche l'espulsione di quote consistenti di occupati, per i quali la perdita del lavoro può condurre a quella del permesso di soggiorno. Una diffusa strategia di resistenza alla crisi è l'iniziativa imprenditoriale. Si distinguono gli indiani (1.792 titolari di impresa), i pakistani (5.072), i bangladesi (9.838 titolari) e soprattutto i cinesi, attivi tanto nella manifattura che nel commercio (33.593).
Un fiume di denaro. L'Asia è anche l'area di destinazione della maggior parte delle rimesse mondiali, il cui flusso nel 2010 è tornato a crescere. Anche le rimesse in partenza dall'Italia (oltre 6,5 miliardi di euro) si dirigono per quasi la metà verso un Paese dell'Asia (3,2 miliardi di euro, per lo più verso la Cina e le Filippine, con invii pari, rispettivamente, a 1,8 miliardi e 743 milioni di euro).
 


Parco Cassinis, una sbarra chiusa per fermare le feste dei peruviani
Il Comune promette anche maggiore presenza di pattuglie per il controllo della zona
I residenti: "Non vogliamo impedirgli di divertirsi, ma quei concerti sono un vero caos"
la Repubblica, 05-07-2012
FRANCO VANNI
Una sbarra chiusa, per impedire l’accesso sul prato ad auto e furgoni che arrivano da via Fabio Massimo. Pattuglie dei vigili a entrambi gli ingressi, sequestri degli strumenti musicali a chi improvvisa concerti senza averne l’autorizzazione, controlli per accertarsi che nessuno venda abusivamente birra e altri alcolici. Dopo anni di proteste dei residenti del quartiere Porto di Mare, il Comune ha deciso di dare una regola alle feste domenicali della comunità peruviana al parco Cassinis, periferia Sud. I raduni, a base di birra e musica reggaeton, arrivano a contare anche mille persone fra famiglie e giovani. «Sono anni che i cittadini si trovano a dovere convivere con un rumore insopportabile tutti i weekend - dice Loredana Bigatti, presidente del consiglio di Zona 4 - Per questo, in collaborazione con la polizia locale e l’assessorato alla Sicurezza, abbiamo deciso di dare una risposta. La comunità peruviana ha il diritto di festeggiare e incontrarsi, ma nel rispetto del vicinato».
La sbarra sarà chiusa sabato e domenica dalle 17 alle 7 del mattino successivo. La macchina dei controlli, che sarà attiva tutti i weekend fino all’autunno, è stata testata la scorsa settimana. «I vigili hanno sequestrato casse di birra, amplificatori e strumenti musicali  riferisce Bigatti, che ha partecipato al sopralluogo al parco  Nessuno vuole vietare che si suoni la chitarra seduti sul prato, ma al Cassinis si fanno veri e propri concerti, con camion usati come palco». I filmati delle fiestas
vengono poi caricati in Internet, su YouTube, e raccontano di un divertimento sano che con il passare delle ore va degenerando: dai bambini che al pomeriggio mangiano la salamella con la nonna, fino alle sbornie collettive all’alba, con i prati trasformati in discarica e il frastuono della musica martellante.
Il grande successo delle feste latine attrae decine di spacciatori di droga. Domenica alle nove di sera in viale Cassinis, proprio all’ingresso del parco, tre marocchini fra i 19 e i 24 anni sono stati arrestati dalla polizia dopo un inseguimento in auto. Nella Audi su cui viaggiavano, gli agenti hanno trovato hashish e cocaina, pronte per essere spacciate. L’obiettivo del Comune è rendere stabile anche la presenza di polizia e carabinieri a parco Cassinis, al fianco dei vigili urbani.
I residenti, che da anni chiedono interventi a Palazzo Marino per limitare il caos al parco Cassinis, ringraziano e stanno a guardare. «Nel consiglio di Zona abbiamo trovato finalmente un interlocutore sensibile - dice una delle storiche portavoce dei cittadini della zona - Dopo quasi un decennio di promesse non mantenute da parte del Comune, non ci illudiamo che la situazione si risolva da una settimana all’altra, ma l’impegno è notevole e lo apprezziamo». A chiedere «una seria politica di controlli, per porre fine a una situazione degenerata» era stato anche Raffaele Grassi, consigliere comunale dell’Italia dei Valori.

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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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