Diritti: un anno dopo la strage di Lampedusa ancora quell'agonia non ha fine
L'Huffington Post, 03-10-14
Luigi Manconi, Valentina Brinis
Presidente di "A Buon Diritto"
Perché non possono arrivare attraverso viaggi legali e sicuri? Perché non possono prendere l'aereo e atterrare qui da noi, come tutti? Sono queste le domande inevitabilmente retoriche che ci si pone di fronte ai naufragi che avvengono nel Mediterraneo, in cui perdono la vita migranti e fuggiaschi diretti verso l'Europa. Come è accaduto esattamente un anno fa al largo di Lampedusa. In quell'occasione, era il 3 ottobre del 2013, morirono 366 tra donne uomini e bambini.
Oggi, proprio in quel luogo, a poche miglia dal porto dell'isola, si è tenuta la commemorazione delle vittime. Erano presenti i loro familiari e i superstiti. Erano lì a far valere la memoria di quel giorno tragico, dando volti, parole e biografie a chi non ce l'ha fatta a terminare quel viaggio estenuante, a toccare terra e a ricominciare. Hanno intonato canti funebri che con difficoltà riuscivano a concludere: i singhiozzi e le grida di dolore erano impossibili da soffocare. A bordo di una nave della Guardia Costiera hanno raggiunto il punto in cui è ancora oggi sommerso il peschereccio su cui navigavano. Era come se il barcone della morte fosse appena affondato. Sembrava di assistere in diretta al naufragio, tanto era forte la sensazione di desolazione che si respirava. Era come se le grida fossero quelle di chi stava annegando, ma tra le voci c'era anche quella di chi si era salvato, di chi in quel posto tornava dopo che, un anno prima, proprio lì, la sua vita era cambiata. Da quel momento in poi, infatti, sono stati proprio loro, i sopravvissuti, a portare il peso di chi non ce l'ha fatta, a volerne raccontare la storia, nella speranza - così esile da rischiare costantemente di restare delusa - di renderla componente preziosa di una possibile memoria collettiva.
Sappiamo quanto ciò sia difficile e quanto la rimozione sia un tratto essenziale del carattere nazionale degli italiani. Un popolo, il nostro, che non è stato capace di fare della grandiosa vicenda di emigrazione di quaranta milioni di italiani - quelli che in un secolo e mezzo hanno lasciato il nostro paese per tentare le vie del mondo - un fattore dell'identità collettiva e dell'immaginario condiviso. Un popolo che, di conseguenza, ha difficoltà a riconoscere nei volti e nelle sofferenze di chi sbarca sulle nostre coste, i volti e le sofferenze dei nostri nonni. E così si rischia anche di volersi "liberare" in fretta di un'esperienza importante e di un ricordo positivo quale potrebbe essere il soccorso prestato ai 135mila migranti salvati dall'operazione Mare Nostrum. Un Paese sfilacciato come il nostro che, se fotografato dall'alto, offrirebbe di sé un'immagine drammaticamente sgranata, avrebbe potuto fare del soccorso prestato a quegli infelici un motivo di fierezza nazionale, una sorta di patriottismo cosmopolita ed europeista, un motivo di identità.
E, invece, sembriamo vergognarcene. Non così gli uomini della Marina e della Capitaneria di Porto, tanti, con i quali ho parlato oggi e che sembravano aver trovato il senso profondo del loro mestiere (forse persino di una loro antica vocazione) nell'aver tirato in salvo quanti il mare stava per inghiottire. Poi c'è una incombenza davvero crudele alla quale assolvere: alcuni dei sopravvissuti non dispongono ancora della certezza che all'interno di quelle bare ci siano i corpi dei loro familiari. Quei cadaveri potrebbero essere, infatti, ancora sul fondo del mare.
In altre parole, un rito funebre iniziato un anno fa deve ancora trovare la sua conclusione. Come un'agonia senza fine.
"Basta immigrati europei" Ecco il piano di Londra per convincere Bruxelles
La Gran Bretagna chiede un «freno d'emergenza» da utilizzare in caso di flussi troppo alti. Altrimenti uscirà dalla Ue
Il Giornale, 06-10-14
Gaia Cesare
Mettere in mano ai Paesi europei il diritto di tirare il freno d'emergenza se gli immigrati provenienti dagli altri Stati dell'Unione supereranno i numeri attesi.
E impedire ai nuovi membri della Ue di beneficiare del diritto alla libertà di movimento, previsto dagli Accordi di Schengen, se l'economia di quei Paesi non raggiungerà un livello comparabile a quello delle altre economie dell'Unione. Londra si prepara alla battaglia con Bruxelles mettendo a punto le richieste da presentare al tavolo delle trattative. Ma le «proposte» del governo britannico suonano ormai come un ultimatum. Il più recente lo ha lanciato il ministro del Lavoro e delle Pensioni ed ex leader Conservatore, Ian Duncan Smith, in un'intervista al Telegraph : «Bisogna dare alla Gran Bretagna il potere di limitare il numero di migranti come prezzo per restare nell'Unione europea. O si rischieranno tensioni e agitazioni sociali». L'aut aut ricorre ormai da qualche settimana nei discorsi dei vertici del Partito conservatore, impegnato a scaldare i motori per le elezioni del prossimo 7 maggio e indaffarto soprattutto ad arginare l'ondata anti-europeista e anti-immigrazione dell'Ukip, il partito di Nigel Farage. Lo ha lanciato dall'alto del Congresso dei Conservatori a Birmingham, appena cinque giorni fa, il premier David Cameron: «Sappiamo che il problema più grande oggi è la migrazione dall'interno dell'Unione europea (...). I numeri sono cresciuti più veloci di quanto avremmo voluto in questo Paese. Tutto ciò deve cambiare e sarà al centro della mia strategia di rinegoziazione per l'Europa». Poi la promessa ai cittadini britannici che è insieme anche un avvertimento a Bruxelles: «So che volete che la questione venga risolta, perciò andrò a Bruxelles. Non prenderò un «no» come una risposta e quando si arriverà al tema della libertà di movimento, otterrò quello di cui la Gran Bretagna ha bisogno». Pena l'uscita dall'Unione tramite il referendum che lo stesso Cameron ha promesso agli inglesi per il 2017, sempre che i Tory resteranno a Downing Street. Ancora prima i ministri Conservatori, se il diritto alla libertà di movimento non sarà rivisto, potrebbero decidere di usare il diritto di veto sull'ingresso di nuovi Paesi nell'Unione.
D'altra parte la previsione dei Laburisti - che nel 2004 giustificarono la decisione di aprire le frontiere britanniche a dieci nuovi Paesi parlando di un flusso stimato di 13mila o al massimo 46mila immigrati - si è rivelata del tutto errata. Nello stesso anno l'immigrazione netta (la differenza tra immigrati ed emigranti) fu dieci volte più alta e arrivò a quota 130mila. Ora il problema è ancora più grande, nonostante i Tory abbiano promesso di tenere i numeri sotto quota 100mila: in appena dodici mesi, da marzo 2013 a marzo 2014, gli immigrati dai Paesi dell'Unione sono schizzati da 170mila a oltre 214mila, il livello più alto mai raggiunto dal 1964. Molti degli immigrati europei provengono da Paesi in crisi economica, italiani fra i primi dopo che quasi 40mila si sono trasferiti l'anno scorso nel Regno Unito: il loro numero è cresciuto del 52% nel 2013, persino più alto di quello degli spagnoli (+40%), dei portoghesi (+45) e dei greci (+31%).
Perciò il ministro del Lavoro annuncia che Londra introdurrà prima di Natale nuove misure per «deportare» chi sfrutta con l'inganno il sistema dei sussidi britannico. Chiederà anche a Germania e Francia di unirsi alla richiesta di porre un limite ai nuovi arrivi dall'Europa, per un periodo prefissato, e se dovessero superare le attese e infine di impedire «libertà di movimento» ai nuovi Paesi in ingresso fino a che «il loro Pil non raggiunga il livello degli altri nell'Unione». «I controlli devono rimanere nelle mani delle singole nazioni se restano in Europa», avverte Duncan Smith. Se restano...
Bastonate e acqua sporca ai migranti imbarcati: presi sei scafisti a Pozzallo
Il racconto dei profughi ha incastrato i trafficanti di esseri umani: avrebbero incassato 2,8 milioni di dollari con due traversate. Un altro arresto a Reggio Calabria,
La Repubblica.it, 05-10-14
La polizia di Ragusa ha arrestato 6 presunti scafisti, responsabili degli sbarchi di ieri. I 6 sono un siriano e cinque egiziani. Tutti sono stati arrestati grazie alle preziose testimonianze di chi è sbarcato. Una su tutte è drammatica: "Ci hanno caricato su alcune autovetture e portati su una spiaggia sulla cui riva era ormeggiata una piccola imbarcazione, grazie alla quale, a piccoli gruppi, ci hanno trasportato sul natante con il quale, poi, abbiamo iniziato il viaggio verso le coste italiane".
"Per farci salire a bordo - prosegue ancora il racconto - venivamo bastonati senza alcun motivo, ma essendo loro armati nessuno poteva ribellarsi. Il natante in questione era un peschereccio con una stiva all'interno nella quale erano state collocate numerose persone, soprattutto le donne e i bambini. Gli uomini, invece, avevano occupato soprattutto la parte superiore".
"Durante il viaggio - prosegue il testimone - abbiamo mangiato poco.Per lo più distribuivano formaggini, datteri e pane. Per bere, invece, ci veniva fornita acqua piuttosto sporca mentre gli scafisti mangiavano diverse pietanze ed avevano acqua pulita. Solo chi, come me, aveva versato una somma elevata all'organizzazione criminale, aveva diritto ad un giubbotto di salvataggio".
Secondo quanto dichiarato dai testimoni gli organizzatori hanno incassato per il natante partito dalla Turchia 6.000 dollari a persona per gli adulti, e poco meno per i bambini, per un totale di 1 milione e mezzo di dollari. Per l'imbarcazione partita dall'Egitto i migranti hanno pagato 5.500 dollari per un totale di 1,3 milioni di dollari.
Un altro trafficante, il tunisino Mohamad Ali Zouali, di 24 anni, è stato fermato dagli agenti della squadra mobile di Reggio Calabria perchè ritenuto lo scafista di un gruppo dei 1789 immigrati soccorsi dalla nave della Marina Militare San Giusto e sbarcati ieri. Zouali, secondo le testimonianze di alcuni migranti, era lo scafista di un barcone di circa 15 metri con a bordo 373 persone. Il viaggio ha avuto inizio dalla costa libica ed i migranti hanno pagato dai 3000 ai 4000 dollari.
Infine questa mattina è arrivata a Catania la nave Sfinge della Marina Militare con a bordo 594 migranti salvati nel Canale di Sicilia nell'ambito del dispositivo Mare Nostrum. Sul posto stanno operando le forze dell'ordine e le organizzazioni di soccorso, coordinate dalla prefettura. Indagini, coordinate dalla Procura Distrettuale di Catania, sono in corso per identificare eventuali scafisti.
Due sbarchi in un giorno: oltre 2.500 in persone sulle coste calabresi
Redattore sociale, 05-10-14
Nella mattinata di ieri, 807 migranti sono approdati a Vibo Valentia; poi, nel pomeriggio, 1.789 sono sbarcati a Reggio Calabria, soccorsi dalla nave San Giusto. Un gruppo è accolto nella palestra “Scatolone”, altri trasferiti in altre località
REGGIO CALABRIA - Due sbarchi in un giorno sulle coste calabresi. Ieri mattina, nel porto di Vibo Valentia sono arrivati 807 migranti a bordo della nave Dattilo della capitaneria di porto, nel tardo pomeriggio di ieri la nave San Giusto della Marina militare ha attraccato nel porto di Reggio Calabria con a bordo 1.789 migranti soccorsi nelle acque del Canale di Sicilia. Nel gruppo 209 donne alcune delle quali incinte, 189 minorenni e 1.391 uomini, tutti provenienti da diversi paesi dell’Africa; sono stati rilevati anche diversi casi di scabbia. Sulla banchina del porto reggino sono state allestite le operazioni per l’identificazione e l’accoglienza. La prefettura della città dello Stretto ha coordinato le attività svolte da: forze dell’ordine, medici dell’azienda sanitaria, vigili del fuoco, protezione civile e volontari delle associazioni.
Molti degli immigrati sbarcati dalla San Giusto sono stati trasferiti in altre località secondo il piano di riparto predisposto dal ministero dell’Interno; un altro gruppo è stato accolto nella grande palestra denominata “Scatolone” a Reggio Calabria. Il prefetto reggino, Claudio Sammartino, ha rinnovato il proprio apprezzamento al personale delle forze dell’ordine, alle associazioni di volontariato, alle organizzazioni umanitarie, alla provincia, alla regione Calabria, al comune capoluogo, “per la professionalità, lo spirito di sacrificio, la dedizione che, con solidale ed umana partecipazione, continuano a profondere nell’accoglienza dei migranti. Migliaia di persone che ormai quasi quotidianamente giungono sulle coste reggine in condizioni particolarmente precarie e bisognosi di aiuto e assistenza”. In seguito a due soli sbarchi, dunque, la Calabria ha accolto oltre 2500 persone in una sola giornata. Ciò conferma i dati del Viminale, secondo cui la terra calabrese è una delle mete più ambite da africani e cittadini del Medio Oriente che scappano dai loro paesi, colpiti da guerre e calamità tra le più diverse. (msc)
Migranti, ultima fermata Svezia Da Milano i bus abusivi del racket
Vedette, autisti e cassieri: così la gang egiziana fa partire migliaia di profughi
La Stampa, 06-10-14
Andrea Sceresini
Li vedi sgusciare alla spicciolata dai cancelli del centro d`accoglienza. Aspettano il tramonto, si muovono a piccoli gruppi: uomini, donne, bambini, intere famiglie. Hanno le mani cariche di zaini, valigie e sacchetti di plastica, perché è tutto ciò che hanno. Sí infilano nelle viuzze buie, sotto gli occhi sempre vigili delle vedette. I trafficanti li aspettano immobili, in fondo a un parcheggio semi deserto. Si fanno pagare, li caricano in macchina e accendono il motore.
È una scena che si ripete senza sosta, tra le palazzine grigie di via Antonio Aldini, a Quarto Oggiaro. Ogni notte, in questo angolo scrostato di periferia milanese, decine di siriani si imbarcano per l`ultima tappa del loro infinito viaggio della speranza: destinazione, la Germania, la Svezia, l`Europa del nord. È un tragitto complesso e clandestino, e non sempre le cose vanno come dovrebbero. Le regole sono chiare: chi ha molti soldi può stare tranquillo, a tutto il resto ci pensa il racket.
Via Antonio Aldini non è un luogo qualunque. Qui, dall`ottobre 2013, ha sede il più grande centro d`accoglienza allestito dal Comune di Milano: una ex scuola elementare affidata ai volontari della Fondazione Progetto Arca, che ogni giorno può accogliere circa cinquecento persone. Quando approdano in Stazione Centrale - reduci dalla traversata del Mediterraneo e da un estenuante viaggio ìn treno attraverso lo Stivale - loro quel nome lo conoscono già: «Aldini», ripetono, e lo pronunciano come fosse una parola araba, «Al-Dini». Significa «il religioso», dovrebbe essere di buon auspicio.
Sono 24mila i siriani sbarcati a Milano nel corso degli ultimi undici mesi. Ad essi si aggiungono diecimila eritrei e qualche centinaio di palestinesi. In totale: oltre 36mila persone in fuga dalla guerra. Di questi, solo 41 hanno fatto richiesta di asilo politico in Italia. Gli altri hanno deciso di proseguire verso Nord: il più delle volte, finendo nelle grinfie del racket.
«Milano, grazie all`apporto di operatori e volontari e cittadini, ha messo in piedi una magnifica testimonianza di solidarietà - dice l`assessore alle Politiche Sociali, Pierfrancesco Majorino Il flusso è in continuo aumento, con mezzo migliaio di nuovi arrivi al giorno. Oggi possiamo contare su una decina di centri di accoglienza. È un`emergenza non facile da fronteggiare. I profughi vogliono raggiungere il Nord Europa e lì chiedere asilo politico, ma ancora non hanno un permesso di transito e quindi si affidano ai trafficanti. L`istituzione di un pass è l`unica via per bloccare il racket».
Hassan - 43 anni, una moglie e tre figli, di professione ingegnere informatico - non ha paura a dire le cose come stanno: «Resteremo in via Aldini per un paio di giorni spiega - Il tempo di riposarci e di prendere i necessari contatti. Poi pagheremo ciò che si deve pagare: vogliamo andare in Danimarca».
Le tariffe sono molto care: dai seicento agli ottocento euro a cranio per gli adulti, circa la metà per i bambini. Cifre che, se moltiplicate per il numero degli arrivi, possono dare un`idea approssimativa del giro d`affari: un ghiottissimo business a sei zeri. Le trattative avvengono alla luce del sole, tra i tavoli di un kebabbaro, a un centinaio di metri dal centro d`accoglienza: il capofamíglía siede con i trafficanti, mentre la moglie e i figli mangiucchiano patatine in attesa del verdetto. La partenza avviene spesso di sera, tra le 20 e mezzanotte. Oppure il mattino presto, prima dell`alba.
I profughi scendono in strada e si presentano nel luogo prestabilito, dove li attendono automobili e minibus. L`organizzazione
è puntigliosa: metà pagamento alla partenza, metà all`arrivo. Il 50% dell`incasso va all`autista, il resto ai boss, che a quanto risulta sarebbero di nazionalità egiziana: e poi, c`è da pagare le vedette, spesso armate di coltello ed equipaggiate con uno scooter. Ciò che avanza viene reinvestito: ci si procura nuove automobili e nuovi autisti.
«I conducenti sono spesso comunitari, italiani o romeni spiega il presidente di Arca, Alberto Sinigallia - È capitato che i trafficanti abbiano cercato di intrufolarsi all`interno del centro: ci siamo dovuti tutelare aumentando i controlli e chiedendo l`intervento delle forze dell`ordine. L`unica soluzione sarebbe munire i profughi di un permesso di transito temporaneo: finché non verrà preso questo provvedimento il racket continuerà a proliferare, perché ad oggi, purtroppo, è uno dei ricatti a cui queste persone, già vittime della guerra, devono sottostare per proseguire il viaggio verso una nuova vita».
«Sono molto organizzati Offrono anche documenti falsi»
5 domande a Omar A. mediatore
La Stampa, 06-10-14
«Il racket avviene sotto gli occhi di tutti. A volte le auto si fermano appena fuori Milano: i profughi vengono scaricati e
derubati dí ogní avere. Tornano in città con mezzi di fortuna e dopo qualche giorno tentano nuovamente la sorte».
Omar A. è un giovane mediatore culturale di origini egiziane. Da circa sei mesi lavora con gli immigrati siriani: li aiuta, li consiglia, ascolta le loro storie. «Ciò che accade nei dintorni di via Aldini è semplicemente drammatico - dice -. Di più, è un dramma dentro un altro dramma».
Ogni notte i trafficanti sono al lavoro. Quanti viaggi riescono a organizzare?
«Il centro ospita 500 profughi. A questi vanno aggiunti gli ospiti delle altre strutture, un migliaio circa: anche le loro partenze vengono organizzate qui. Il soggiorno medio dura quattro o cinque giorni. Faccia lei il calcolo».
Si viaggia solo in auto?
«No, i trafficanti organizzano anche viaggi in treno, che però sono più rischiosi. Le tariffe sono più contenute, sessanta euro a testa. C`è anche un traffico di documenti falsi: costano trecento euro l`uno».
Quali sono le principali rotte?
«Sono due: Ventimiglia-Parigi-Metz-Germania oppure Bolzano-Brennero-AustriaMonaco. Ultimamente i trafficanti si sono fatti furbi: utilizzano veicoli con targa straniera. In genere vengono lasciati passare».
Chi controlla il traffico?
«I boss sono egiziani e nordafricani. È un`organizzazione verticistica, molto efficiente e ben strutturata. Fatta eccezione per i casi di furto, la stragrande maggioranza dei viaggi ha esito positivo».
Ci sono state denunce?
«Sì. Il traffico avviene sotto gli occhi di tutti. I numeri delle targhe sono state segnalate più volte alle forze ell`ordine, così come i nomi dei boss».
I morti di Lampedusa e la questione mediterranea
3 ottobre. Il festival Sabir forse non eviterà nuove stragi, ma è un lavoro che parte da lontano. E dimostra che solo il dialogo e un compromesso tra le due sponde cambieranno l’approccio al problema
il manifesto, 04-10-14
Luciana Castellina,
Trecentosessantotto morti affogati il 3 ottobre 2013 (già 3 mila dall’inizio del 2014 e 25 mila dal 2.000): ieri sono stati ricordati con una corona di fiori e una lapide gettate in mare nelle acque prospicenti il Porto Nuovo di Lampedusa, una tristissima cerimonia, alla presenza di autorità e di un pugno di parenti delle vittime.
Una pagliacciata? Qualche frangia di protestatari così l’ha voluta bollare interrompendo il presidente del Parlmento europeo Martin Schulz e la presidente della Camera Laura Boldrini, che presidiavano l’evento, presente anche il ministro Mogherini. Per ragioni opposte hanno manifestato anche i leghisti isolani, seguaci della sindaca precedente che si era affiliata al partito padano.
Come sempre accade in questi casi tv e giornali daranno conto di questi giorni di memoria parlando solo delle istituzioni e di quelli che ne hanno interrotto i discorsi. Pochi racconteranno del Festival Sabir, dal nome della lingua comune che un tempo univa i popoli mediterranei.
Il festival è promosso dall’Arci e da altre associazioni delle due sponde: 4 giorni di confronto per trovare una strada che consenta di rimuovere i detriti che in questo pezzo di mare si sono accumulati in mezzo millennio e ricostruire una comunità mediterranea. Non un incontro improvvisato, ma frutto di un lavoro, paziente e difficile, che dura da anni. Durante i quali sono stati intessuti rapporti, reti di solidarietà e occasioni di reciproca conoscenza, fra chi sulle due sponde non si rassegna.
Sono stati tantissimi quelli che hanno risposto all’appuntamento, accompagnato da un ricco programma teatrale e musicale destinato ad approfondire la reciproca conoscenza; o meglio a colmare almeno un po’ la nostra profonda e scandalosa ignoranza sul mondo arabo che ricordiamo solo per quanto vi accadde 2000 anni fa, solo un prezioso reperto, come se nel frattempo non avesse più dato nulla alla cultura del mondo.
Non riusciremo con questa iniziativa, come con tante altre di questi anni, a fermare le stragi di immigrati. Ma anche qusto, anzi forse solo questo dialogo, può aiutare a dare un nuovo approccio al problema. Innanzitutto a chiedere una svolta nelle politiche mediterranee europee, 40 anni di fallimenti, perché tutte improntate alla liberalizzazione degli scambi, che hanno avuto come effetto – e non poteva essere diversamente – che quello di accentuare gli squilibri fra le due sponde, pensate come si trattasse di due partner commerciali alla pari e non invece, come sono, la rappresentazione del confine più drammatico del mondo,più di quello già terribile che divide Stati Uniti e Messico: qui un rapporto nel reddito procapite di 1 a 6, nel Mediterraneo di 1 a 14.
La questione mediterranea non è una specificità regionale, ha un significato molto più grosso: è qui che ha preso corpo lo scontro più forte fra fanatismi. Fra i quali occorre annoverare anche e soprattutto quello occidentale: non più le Crociate in nome del cristianesimo, né il vecchio colonialismo mascherato da «civilizzazione», ma l’ideologia del mercato. Potremmo mai battere le punte jahdiste più estreme se prima non capiremo che la nostra modernità, il nostro laicismo, anche tanti aspetti della nostra democrazia fondata sull’uguaglianza astratta dei diritti applicata a esseri disuguali nel potere effettivo di fruirne, sono stati vissuti sull’altra sponda come trauma, perché si è trattato di una modernità che li ha schiacciati?
È anche nella nostra arroganza eurocentrica, di chi si propone come punto di arrivo del processo di civilizzazione, che lascia agli altri popoli il solo compito di colmare il ritardo e allinearsi, che si fonda la diffidenza, quando non il rigetto dell’Europa, dei popoli del Maghreb e del Mashrek. Il Mediterraneo del sud è oggi lo spazio in cui prende corpo una critica di quella modernità e di quel progresso che è stato presentato come l’unica civiltà possibile. Costruire una comunità mediterranea che riapre un dialogo alla pari fra le due sponde, che ascolta le ragioni dell’altro e le assume, come chiedeva Eduard Said, «come risorsa critica di sé stessi», significa decostruire lo scenario di scontro di civiltà che costituisce il retroterra dell’estremismo jihadista.
Il festival Sabir è un pezzo di questo lavoro. Serve anche a far capire agli europei che non siamo più in presenza di un problema di immigrazione, ma di uno stravolgimento epocale che ha già reso, e sempre più renderà l’Europa una società sempre meno etnicamente e religiosamente omogenea. Pensiamo solo che fra cinque anni solo per mantenere i livelli di occupazione attuali occorreranno sull’altra sponda 90 milioni di nuovi posti di lavoro. Pensiamo di rispondere alla inevitabile ricerca di attraversare il Mediterraneo che questa domanda produrrà con la bomba atomica, o non dobbiamo piuttosto attrezzarci a pensare a un patto, un compromesso fra le due sponde, e, in prospettiva, anche a un’Europa che abbia un’idea della cittadinanza non più analoga a quelle delle nazioni che l’hanno composta, ma tale da includere quelli che dovremmo chiamare nuovi europei e non più extracomunitari?