Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

02 luglio 2010

«Con Malta per soccorrere gli immigrati»
Corriere della Sera, 02-07-2010
MILANO — «Malta ed Italia, come frontiera sud dell'Unione, si trovano in prima linea nel soccorso agli immigrati, nel pièno rispetto degli insopprimibili diritti fondamentali della persona». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al brindisi del pranzo di Stato offerto ieri a Malta dal presidente. Abela. «I due Paesi, anche se ci sono aspetti ancora controversi da regolare, sollecitano — ha concluso — risposte comuni europee al dramma dell'immigrazione clandestina». Nell'ultima giornata della sua visita a Malta, Napolitano ha incontrato anche il primo ministro Gonzi e il personale della missione militare italiana.



Intervista a Riccardo Noury
Maroni intervenga Deve salvare gli eritrei spariti»
l'Unità, 02-07-2010
Il portavoce di Amnesty Italia: metodi illegali contro i migranti. Con il patto Italia-Libia è iniziata la tragica stagione dei respingimenti
Lager. Diritti calpestati. Vite spezzate. L'inferno libico e le coperture italiane. L'Unità ne parla con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. «L'Accordo di cooperazione Italia-Libia - sottolinea Noury - ha dato vita alla tragica stagione dei respingimenti nel 2009. L'Italia sta affrontando il fenomeno del flusso di migranti e richiedenti asilo con modalità illegali». Le notizie che giungono dalla Libia raccontano di una tragedia in atto che riguarda alcune centinaia di eritrei. Anche alla luce di questi drammatici avvenimenti, qual è lo stato dei diritti umani nella Libia «sdoganata» da Berlusconi?
«Ci sono due questioni apparentemente distinte ma che rientrano ambedue in un unico capitolo: quello della violazione dei diritti umani in Libia. La prima questione, è che non soltanto ci sono violazioni e assenze di garanzie nei confronti di cittadini stranieri, inclusi migranti, richiedenti asilo, rifugiati. Ma, ed è l'altra questione dello stesso capitolo, c'è anche un sistema di violazione dei diritti umani ai danni degli stessi cittadini libici: detenzioni politiche, casi di sparizioni di dissidenti che risalgono agli anni Ottanta e Novanta su cui non si è mai indagato, la tortura, processi irregolari, le frustrate nei confronti delle adultere. E poi c'è un'altra questione gravissima...». Quale?
«La totale assenza di garanzie nei confronti dei migranti, dei richiedenti asilo, rifugiati che arrivano in Libia sapendo che quello è un Paese di transito spesso obbligato per raggiungere l'Europa. La drammatica vicenda dei 250 eritrei che sarebbero stati portati
via dal carcere di Misratah, portati a Sebha, nel sud del Paese, e che hanno denunciato di essere stati picchiati e di cui non si sa che fine hanno fatto, s'inserisce in questo quadro di totale assenza di garanzie». Tutto questo avviene con il silenzio delle autorità italiane. Come spiegarlo?
«Lo si spiega con una scelta che evi¬dentemente è stata fatta dalle autorità italiane. Una scelta portata a termine dall'attuale Governo ma che era stata preparata nei precedenti. La Libia è stata innalzata a partner strategico nella gestione di un fenomeno certamente complesso, come è quello dei flussi di mig ranti e richiedenti asilo. Ma questa complessità non può giustificare in alcun modo le modalità scelte per affrontare questo fenomeno...».
A cosa si riferisce? «Mi riferisco ad un Accordo di cooperazione Italia-Libia, siglato da Berlusconi e Gheddafi, che ha dato vita alla tragica stagione dei respingimenti nel 2009. Si tratta di modalità illegali; illegali perché non contemplano l'esame di domande di asilo da parte di eventuali aventi diritto, e perché mandano queste persone in quei luoghi da cui giungono le notizie sconvolgenti di queste ore. In nome di questa partnership è evidente che si è deciso di non tenere in considerazione l'aspetto dei diritti umani. Questo mi pare palese. E molto grave. C'è una domanda che andrebbe rivolta alle autorità italiane, e in particolare al ministro dell'Interno Maroni: il ministro sa, si è informato con Tripoli sulla sorte di quei 250 eritrei respinti dall'Italia? È minimamente interessato a difenderne i diritti, a cominciare da quello alla vita?«>



DIRITTI UMANI Appena pubblicata la relazione annuale del 2010. Con qualche sorpresa
Amnesty fa rapporto al mondo: i piccoli Stati imparano, i grandi no
il Venerdi, 02-07-2010
A VOLTE i piccoli, per fortuna, non prendono esempio dai grandi. Secondo il rapporto 2010 di Amnesty International (La situazione dei diritti umani nel mondo, Fandango Libri, 22 euro), nell'ultimo anno le notizie migliori provengono da Stati come Cambogia, Perù e Sierra Leone, in cui, sebbene rimanga moltissimo da fare in tema di diritti umani, tribunali e governi stanno riaprendo le indagini su crimini a lungo occultati dalle leggi di amnistia.
Ma se nazioni come la Liberia, il Marocco e le Isole Salomone portano avanti procedimenti di verità e riconciliazione, i grandi della Terra non si muovono.
A fine 2009, solo dodici dei venti Paesi del G20 avevano ad esempio riconosciuto la Corte penale internazionale. Nel rapporto viene duramente criticata l'Italia per «gli sgomberi forzati e illegali delle comunità rom», le espulsioni di migranti e i maltrattamenti a opera della polizia, ma vengono lodate le sentenze di condanna dei funzionari americani e italiani coinvolti nelle rendition. Il mondo dei diritti umani è ancora un quadro a luci e ombre: «Per i responsabili dei peggiori crimini» sostiene Amnesty «è sempre più difficile assicurarsi l'impunità».



Mcl: l'integrazione, una sfida per tutti

Avvenire, 02-07-2010
ROMA. Un appello alla definizione



Dalla cultura un presidio di lotte sogni e vigilanza

il manifesto, 02-07-2010
Silvana Silvestri
Con oggi si inaugura la resistenza civile, è stato detto dal palco di piazza Navona contro il bavaglio. Una piazza da frequentare la notte, quando i turisti vanno via. Sotto il sole cocente si è in tanti, «in una giornata feriale, a parlare di libertà», come ha salutato dal palco Andrea Satta dei Tète des Bois prima di attaccare la sua Avanti pop (bandiera ros) che è già una prova di inno censurato, che procede come con pause e ripensamenti, un segno dei tempi bui. Comprese le parentesi entro cui mettere i lavoratori immigrati del sud, i morti sul lavoro che in genere non trovano spazio sulla stampa, così come tutti quei lavoratori che nei secoli sono stati cancellati dalla storia. I manifestanti si accalcano sotto il palco, mezza piazza è vuota, regno dei rapper e dei mimi tra i tanti cartelli (Garibaldini del terzo millennio, L'Italia si è arresa..). Molti dei presenti rappresentano intere categorie, portano la testimonianza di associazioni, quando i cronisti se ne andranno, la piazza comincerà a riempirsi, si andrà avanti fino a notte, intanto ci sono le dirette di radio radicale e online. Scola, Francesca Comencini, Scimeca, Quatriglio, Piscicelli e Carla Apuzzo, Paolo Taviani, lo sceneggiatore Angelo Pasquini e tanti attori di cinema e di teatro sono in piazza. «È una piazza diversa dal solito, ci dice Daniele Vicari, cineasta militante che sta per girare un film sui fatti della Diaz. La sensazione è di un allarme più grande delle altre manifestazioni che sono state fatte in questi ultimi mesi. Far passare una condanna del tribunale per una vittoria è qualcosa che vuol dire avere in mano tutti i mezzi mediatici. Quando vedi questi risultati si vede che hai sbagliato tutto. Ormai in certe partì d'Italia è come in certe zone del terzo mondo, dove le imprese contrattano con lo stato e hanno mano libera sui licenziamenti. Se la sinistra non è vicina a questi temi la gente ti abbandona. Vendola è l'unico che tiene in considerazione i temi del lavoro in maniera complessa. Non manca mai di sottolineare i problemi della libertà di stampa, ma ricorda che il problema principale è il problema del lavoro. È questo che crea il collegamento con la base vera, i giornalisti dovrebbero saper collocare in maniera equilibrata i temi storici che stiamo vivendo, e i politici prima ancora che i giornalisti. Parlo del fatto di ignorare i temi della Fiat: i giornalisti non ne parlano, i politici balbettano e le persone sono lasciate alla mercè del populismo», Da palco si susseguono diversi argomenti legati al diritto dell'informazione dai morti per strage, alla mafia, al presidio dei crimini ambientali, all'Aquila, ai partigiani che quando liberavano una città, dicono, per prima cosa stampavano il giornale, come segno di democrazia. Dario Fo al telefono dice di essere più umani e non trattare troppo male il capo del governo in un momento di sua grande solitudine. E tutti sono grati della presenza di Saviano, ferito dalle parole di Dell'Utri, dice che questo è il momento di parlare al cuore delle persone, come diceva Danilo Dolci («ciascuno cresce solo se sognato»),



Contro il razzismo lo sport fa più dei governi»

Avvenire, 02-07-2010
Con l'avvio delle partite dei quarti di finale dei Mondiali di calcio, «un evento che sarà seguito dal vivo ed in televisione da decine di milioni di persone in tutto il pianeta», la Fifa fa partire una campagna contro le discriminazioni razziali, ed il fatto che ciò avvenga in Sudafrica non è certo una scelta casuale. Così, secondo quanto rende noto la Fifa con un comunicato, prima dell'inizio delle partite dei quarti i capitani di ogni squadra (Olanda e Brasile, Uruguay e Ghana, Argentina e Germania e Paraguay e Spagna) leggeranno al pubblico un messaggio di condanna di ogni forma di razzismo e discriminazione nello sport e nella vita di tutti i giorni. Le due squadre ed il team arbitrale poseranno inoltre tutti insieme accanto ad uno striscione con la scritta «Say no to racism» («Dì no al razzismo) prima dell'inizio degli incontri. Su questa iniziativa l'ex presidente del Sudafrica, e Premio Nobel per la pace, Nelson Mandela, la cui presenza alla finalissima in programma l'11 luglio è molto probabile, ha fatto pervenire alla Fifa un messaggio. «Lo sport crea speranza lì dove prima c'era diseguaglianza - sottolinea Mandela - e ha più potere perfino dei governi nello spezzare il muro delle disparità. Lo sport ride in faccia ad ogni forma di razzismo. Il Mondiale del 2010 in Sudafrica ha rinnovato lo spirito d'unità del Sudafrica e nel mondo affinchè gli esseri umani trovino la loro comune identità». Intanto, sempre in tema di iniziative a scopo sociale abbinate al calcio, Amref e Unicef rinnovano l'appello ad aderire all'iniziativa umanitaria «Un gol per l'Africa», associata ai Mondiali e sostenuta dalla Figc. Lo scopo è quello di garantire alla popolazione accesso all'acqua, prevenzione medico-sanitaria e educazione, in un continente in cui, nei 90 minuti di una partita di calcio, si verificano 326 nuovi contagi di Hiv e 200 bambini restano orfani di uno o di entrambi i genitori a causa dell'Aids. Si può contribuire inviando un sms da due euro al numero 45503 da cellulari Tim, Vodafone, Wind, 3 e Coop Voce. In alternativa è possibile telefonare allo stesso numero da rete fissa Telecom Italia o donare dal sito www.smsazzurri.it. Amref investirà i fondi raccolti in progetti idrici in Kenya e Tanzania, nei programmi di recupero dei ragazzi di strada di Nairobi, nella formazione di personale sanitario in Sudan e nell'attività dei suoi «flying doctors», dottori che si spostano in aereo per tutto il continente. L'Unicef finanziera invece il progetto «Scuole per l'Africa» in 11 Paesi.



«Legge anti burqa anche in Italia»

il Giornale, 02-07-2010
Francesca Angeli
Roma «Diciamo no al burqa e al niqab. Dobbiamo al più presto approvare una legge in questo senso perchè così daremo un segnale importante. Un modo per dire a tutte le donne islamiche in Italia che questo è un paese libero, che non devono nascondersi e che qui i diritti della persona vengono rispettati. E soprattutto che non è indossando un velo che si diventa bravi musulmani". Souad Sbai, da sempre in prima fila per tutelare la libertà delle donne, prima come presidente dell'associazione donne marocchine in Italia e adesso come parlamentare del Pdl, è convinta sia possibile arrivare ad approvare una legge per proibire il burqa ed il niqab, i tradizionali veli islamici che coprono il volto, prima della fine di luglio.
In commissione Affari costituzionali a Montecitorio sono da tempo in discussione diverse proposte per vietare in modo definitivo che si possa circolare in luoghi pubblici con il volto coperto anche se per motivi religiosi. «Oltre al mio testo c'è quello presentato dalla Lega e anche un paio dell'opposizione, uno di Paola Binetti dell'Udc. L'obbiettivo è lo stesso quindi confido che si possa arrivare ad un risultato concreto prima della pausa estiva», prosegue la Sbai, che spiega perchè sia così importante arrivare al divieto anche se in Italia c'è già una legge che proibisce la copertura del volto per motivi di sicurezza. «Non si tratta soltanto di impedire che terroristi e criminali possano nascodersi dietro il burqa -sostiene la Sbai -. Non è in gioco soltanto la salvaguardia dei cittadini ma i diritti fondamentali della persona. Dobbiamo salvare le donne che vivono quotidianamente questo inferno, segregate, isolate. Nessuno le avvicinerà mai, non ci sarà mai per loro una possibilità di riscatto in quelle condizioni. La legge contro il burqa ha la stessa valenza della legge contro l'infibulazione».
Proprio ieri il parlamento catalano ha respinto una mozione che chiedeva di proibire l'uso dei veli islamici integrali. Un risultato cui si è giunti dopo una burrascosa seduta ma che non stupisce visto che pochi giorni fa il Consiglio d'Europa ha approvato una risoluzione secondo la quale «nessuno dei paesi membri dovrebbe adottare leggi che introducano la generalizzata proibizione di indossare il burqa ed il niqab».
Una decisione che la Sbai definisce pilatesca e anche vigliacca. «In sostanza l'Europa se ne è lavata le mani. Ha detto: ogni paese faccia come gli pare - tuona la rappresentante del Pdl -. Una soluzione ambigua che denuncia la volontà di non prendersi responsabilità. Ma come, chiedo io, mandiamo i nostri ragazzi a morire in Afghanistan per difendere i diritti umani di chi vive lì e poi permettiamo che nella civilissima e democratica Europa ci siano donne che vivono prive di qualsiasi diritto a cominciare da quello di un'identità?».
L'Italia deve dimostrare coraggio, prosegue la Sbai: «Non dobbiamo essere provinciali, non aspettiamo che altri facciano certe scelte. Guardiamo alla Francia e variamo questa legge - insiste -. Non accetto la tesi, sostenuta sempre e soltanto da uomini, che se proibiamo il burqa quelle donne non usciranno più da casa. Io dico che la legge "fa tradizione" sarà un segnale importante che darà forza a chi voleva liberarsi da quella costrizione ma fino ad ora si è sentita sola e non lo ha fatto».
In Marocco, ricorda la Sbai, soltanto tre anni fa è passata la legge contro i matrimoni poligamici. «Da quando è cambiato il diritto di famiglia i matrimoni poligamici sono passati da 65.000 all'anno a 800 - spiega -. Dunque la legge è servita e servirà anche a far uscire le donne dalla segregazione imposta dalla copertura del viso».



Burqa, com'è difficile mettersi nei panni altrui

il Venerdi, 02-07-2010
Piero Ottone

Tema incandescente, il burqa. Quando ho manifestato sorpresa che in una società liberale, quale la nostra, si pensi addirittura di vietarlo per legge, sono stato accusato di superficialità, di ignoranza e di altre cose ancora. Accuse meritate? A me non sembra.
Ragioniamo. Ogni gruppo etnico, ogni società, ogni civiltà ha le sue regole, le sue usanze, le sue leggi. Anche noi le abbiamo. I confini del lecito sono in continua evoluzione: nel giro di pochi anni si consentono atteggiamenti e abbigliamenti che prima erano vietati, o giudicati con severità. Lo sfortunato Oscar Wilde finì in carcere a causa di un rapporto omosessuale che ora, anche nel suo Paese, è tranquillamente accettato. E tutti ricordiamo, se abbiamo più di vent'anni, che sulle spiagge si dava la multa alle ragazze in bikini. Il mondo cambia intorno a noi. Ma le usanze del gruppo sociale al quale apparteniamo sembrano, di volta in volta, quelle giuste. Le usanze e i criteri altrui, invece, sono respinti: così nasce l'intolleranza. È anche segno di intolleranza la scuola di pensiero che spinge a vietare il burqa. A noi il burqa sembra violazione di tanti princìpi in cui crediamo: la mortificazione della femminilità, l'imposizione di maschi prepotenti e brutali ai danni di povere donne indifese. «Non posso credere che alle donne piaccia andare in giro con quell'indumento che nasconde il viso», scrive una lettrice. Un'altra lettrice mi propone di trascorrere una giornata coperto dal burqa, e vedere che effetto mi fa. E che ne sappiamo, noi, di usi e costumi, di stati d'animo e preferenze fra coloro che ap-
partengono a una civiltà diversa dalla nostra? Da noi le suore si vestono in modo diverso: sono anch'esse vittime di imposizioni, di barbarie, di crudeltà, come noi supponiamo che lo siano le donne col burqa ? È difficile mettersi nei panni altrui.
Sono sempre convinto che dovremmo essere tolleranti verso i costumi diversi dai nostri, purché non siano una violazione del codice. Non possiamo pretendere di imporre ad altre comunità i nostri comportamenti. Se in certe comunità vige l'usanza del burqa, non interferiamo.
Sono confortato dal fatto che tante persone autorevoli sono della mia stessa opinione. Ho scoperto (e l'ho scoperto dopo avere esposto la mia opinione) che ì'Economist è dello stesso parere. E la pensa come me anche Barack Obama. Insomma: sono in buona compagnia.   



Tour di Bersani all'Esquilino "È qui il Pd che vorrei"

la Repubblica, 02-07-2010
Giovanna Vitale
UN BLITZ a sorpresa in una delle scuole più multietniche di Roma, l'istituto Di Donato che ospita nido, materna, elementare, media, ma soprattutto il "Polo Intermundia",l'associazione creata da genitori, insegnanti e volontari per realizzare l'integrazione dei ragazzi stranieri, soprattutto cinesi, all'Esquilino. Ha deciso di inaugurare così, il leader del Pd Pierluigi Bersani, la festa dei nuovi italiani dedicata ai temi della nuova cittadinanza. I piedi suoi e di Livia Turco che non riescono a star fermi ascoltando le prove della Young Orchestra, una decina di ragazzi provenienti da Romania, Bulgaria, Colombia, Cina, Eritrea e Somalia, oltre che romani, diretta da Moni Ovadia che dice: «Se non ci fossero gli adulti ad ammorbare l'aria, i giovani lo avrebbero già fatto il mondo multietnico». Poi quattro chiacchiere con i prof e un salto alla sede rionale del partito dov'è stato aperto uno sportello legale per immigrati.
«Qui ho visto il Pd che vorrei vedere ovunque», sorride Bersani, «un partito che si mette al servizio dei problemi della gente, che dà una mano». Colpito, soprattutto, «dall'illogicità delle politiche sociali del governo sull'immigrazione, che invece di aiutare l'Italia di domani la calpesta». E dal Polo Intermundia, a cui il Campidoglio ha tagliato le sovvenzioni: «Un'esperienza meravigliosa che pone una domanda: perché questi eroi di frontiera sono costretti a navigare sempre controcorrente?».



Si è concluso a Detroit il secondo Forum sociale Usa. Intervista a Michael Guerrero, uno degli organizzatori
«La marea nera, la guerra e i migranti Ecco la nostra agenda»
il manifesto, 02-07-2010
Nicolas Haeringer
A Detroit si è appena conclusa la seconda edizione del Forum sociale degli Stati Uniti. Tema centrale: l'immigrazione. E, ovviamente, il bilancio della presidenza Obama. Ne parliamo con Michael Leon Guerrero, uno degli organizzatori.
Quali sono le questioni centrali per i movimenti americani in questo momento?
Prima del forum di Detroit abbiamo organizzato un "forum della frontiera" in Messico, dall'altra parte. Ha riunito varie organizzazioni del sud-ovest degli Usa e del Messico, ma è stato anche un forum molto internazionale, con partecipanti da tutta l'America latina. Inoltre abbiamo redatto una dichiarazione di principi che è complementare alla Carta dei principi del Forum sociale mondiale, per precisare i valori dei fori degli Usa, in particolare la scelta di mettere le comunità marginalizzate al centro del processo. Il Forum ha persino agevolato la nascita di nuove organizzazioni, come l'Alleanza nazionale dei lavoratori domestici, che ha svolto un ruolo-chiave nel forum di Detroit, dove.hanno organizzato un "Congresso dei lavoratori precari" aperto non solo ai lavoratori domestici ma anche agli stagionali, ai taxisti, agli operai agricoli, in altri termini a tutti i lavoratori che non hanno protezione sociale.
Qual è il bilancio del forum?
Questo è un momento critico per i movimenti: siamo a metà mandato di Obama e non sappiamo che posizione prenderemo, cosa succederà nel 2012. Dobbiamo organizzarci per far fronte alla marea nera nel golfo del Messico, continuare a costruire il movimento antì-guerra, senza parlare delle lotte sociali locali e di ciò che accade in Arizona sull'irnrnigtazione, appunto. E, naturalmente, dobbiamo occuparci dei passi avanti su scala intemazionale: come agire, in quanto movimenti nord-americani, su ciò che è accaduto a Cochabamba? Sono quesi i dibattiti attuali. E poi dobbiamo rafforzare i legami con i sindacati. Allo stesso modo, i movimenti ambientalisti e tutti coloro che lavorano sulla giustizia climatica sono ancora troppo poco presenti.
Qualcuno vorrebbe che il prossimo Social forum mondiale si svolga negli Usa.
Le nostre organizzazioni non sono d'accordo su questo. Anche solo per problemi di visto. Numerose organizzazioni non potrebbero venire: dal Messico ma anche da Cuba, per esempio. Non ha nessun senso organizzare un Fsm se alcuni partecipanti non possono venire. È un problema non essere riusciti ad avere una presenza più importante dei movimenti messicani nei fori sociali. Tanto più che ciò che accade oggi in Messico ha un vero impatto mondiale: la Copl6 di Cancun nel prossimo novembre, le lotte dei migranti alla frontiera con gli Usa, ecc. Il Messico è un paese-chiave. Per questo ci chiediamo se non sarebbe opportuno organizzare un Forum sociale nordamericano. Le organizzazioni canadesi sono d'accordo, così come i movimenti statunitensi. E, per la prima volta, i messicani ci dicono che potrebbero organizzarne uno.



Obama: regolarizzerò 11 milioni di clandestini
Al via la nuova riforma "ma non ci sarà nessuna amnistia"

La Stampa, 02-07-2010
Maurizio Molinari
Regolarizzare undici milioni di illegali attraverso un processo basato sulle leggi vigenti: con questo obiettivo in mente il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato la battaglia per la riforma dell'immigrazione puntando a spingere il Congresso ad agire, come già fatto su Sanità e riforma finanziaria.
«Serve una soluzione di buon senso» ha detto Obama a Washington, escludendo l'ipotesi   dell'espulsione totale dei clandestini «perché infattibile» così come dell'amnistia generalizzata «in quanto porterebbe altri illegali a venire». Ciò che Obama ha in mente è un «processo» che «porti chi vive illegalmente a dimostrare responsabilità». Ne ha spiegato le tappe con dovizia di dettagli: «Gli illegali devono ammettere di aver violato la legge, devono registrarsi, pagare le tasse, versare una multa e apprendere l'inglese». Il principio di fondo è «mettersi in regola con la legge prima di ottenere la cittadinanza» non solo «perché ciò è giusto» ma in quanto è così che «si dimostra di essere degli americani» perché «siamo una nazione non solo di diritti ma di responsabilità».
Obama non ha dubbi sulla possibilità di «creare un cammino verso la legalizzazione che sia giusto, rifletta i nostri valori e funzioni» e per provarlo  si richiama a due iniziative del Congresso: il «Dream Act» proposto dai democratici al quale undici repubblicani avevano dato il sostegno prima di cambiare idea e la proposta presentata dal democratico Chuck Schumer e dal repubblicano  Lindsey  Graham   alla quale lui stesso si richiama. Sono due esempi che confermano come «questa riforma non può avvenire senza i repubblicani» sottolinea a più riprese, ammettendo che la «realtà politica e numerica del Congresso» non consente alla maggioranza democratica di andare avanti da sola come avvenuto su Sanità e sistema finanziario.
Per   convincere   l'opposizione conservatrice  a condividere la sfida, Obama gioca alcune carte: promette di «rafforzare   la  protezione dei confini e soprattutto di quello meridionale» vantando comunque il merito di «aver schierato più soldati  e  agenti  di quanti non ve ne sono mai stati», riconosce al predecessore George W. Bush di aver voluto la riforma e si impegna a modificare le attuali norme sull'immigrazione per renderle più agili, sicure e meno burocratiche, a cominciare dalla possibilità per i richiedenti di adoperare Internet e sms per tenersi aggiornati sulle rispettive pratiche. E ancora: «Dobbiamo dare modo agli agricoltori di assumere lavoratori dei quali si possono fidare e bisogna smet-
tere di punire i figli per le azioni dei genitori privandoli della possibilità di rimanere nella nazione dove sono cresciuti».
A   confermare l'intento di voler costruire una coalizione bipartisan per legalizzare   undici milioni di clandestini, Obama non forpa i toni contro la dura legge anti-illegali approvata dallo Stato dell'Arizona e messa all'indice dai liberal: «E' malfatta e divisoria ma si tratta di un comprensibile prodotto della delusione della gente per l'incapacità del governo di stringere le maglie del sistema».
La strategia della Casa Bianca è di sfidare i repubblicani a pronunciarsi sulla riforma in tempi stretti, per obbligarli a scegliere fra il sostegno al presidente e l'opposizione totale, in maniera da indebolirli comunque di fronte al folto elettorato ispanico in vista delle elezioni di novembre per il rinnovo del Congresso di Washington.
Ma le prime reazioni giunte dall'opposizione non sono state positive. Il senatore dell'Arizona Jon Kyl -che appartiene al gruppo di undici repubblicani che ha cambiato idea sul «Dream Act» - si è affrettato a far sapere che «per gli elettori del mio distretto ciò che importa anzitutto è la sicurezza del confine, che si faccia o no la riforma dell'immigrazione  Come dire, bisogna pensare prima ai cittadini americani e poi ai clandestini. E' un'opinione che va nella direzione dei sondaggi: per Ap-Gfk l'80 per cento degli americani chiede al governo di «fare di più» per tenere i clandestini fuori dai confini, il 57 per cento ritiene gli illegali «un dissanguamento» e solo il 38 cento li considera un «contributo positivo» all'economia nazionale.



DOPO LA RIFORMA SANITARIA
L'ultima sfida impossibile dell'ostinato Barack
il manifesto, 02-07-2010
Marco d'Eramo
La pazienza ostinata, o l'ostinazione paziente, sembra essere la migliore qualità politica del presidente Barack Obama. Se ne è avuta una riprova ieri quando ha pronunciato un lungo (per gli standard americani) discorso sulla riforma del-l'immigrazione, ha cioè messo i piedi nel piatto del tema più sensibile della politica mondiale. Prima infatti, con un anno e mezzo di estenuanti trattative, si è preoccupato di chiudere le pratiche della riforma sanitaria e della riforma delle banche, anche se ci vorrà qualche anno prima di poter dare un giudizio sul coraggio e sull'efficacia di queste due riforme. Conclusi questi due capitoli, Obama ha subito aperto un nuovo cantiere, e che cantiere!
Non dimentichiamo che l'immigrazione è il tema più esplosivo del momento, sia in Europa, sia negli Stati uniti, anche se gli Stati uniti sono una nazione di immigrati. È un tema scottante perché spacca trasversalmente tutti gli schieramenti politici: la destra è divisa fra gli interessi del gran capitale, da sempre favorevole alla libera immigrazione per abbassare il costo del lavoro, e invece la xenofobia della destra piccolo-borghese di tipo leghista. La sinistra è spaccata tra l'apertura all'immigrazione da parte dei liberals e dei progressisti, e invece l'ostilità degli operai e dei sindacati che vedono nei migranti una concorrenza sleale e uno strumento per deprimere i salari (non è un caso se anche in Europa è proprio sull'immigrazione che una fetta consistente di classe operaia si è spostata da sinistra a destra, alla Lega in Italia e a Le Pen in Francia). Per di più l'immigrazione è l'unico argomento in cui la sinistra è a favore della deregulation. Negli Stati uniti la questione immigrazione ha spaccato il già debole sindacato: nell'ultima, dolorosa scissione di due anni fa, a uscire dalla federazione Afl-Cio sono stati i sindacati a più forte tesseramento di immigrati, la Seiu e Unite.
La trasversalità di questo tema emerse quando il presidente repubblicano George Bush cercò di far approvare una legge che regolarizzasse progressivamente i clandestini, legge sponsorizzata nel 2005 dal democratico Ted Kennedy e dal repubblicano John McCain: classico esempio d'iniziativa bipartìsan che però fu affondata nel 2007 dall'opposizione dei cristiani conservatori (che ora si chiamano movimento dei Tea Parties).
Oggi Obama cerca di far rivivere questa coalizione bipartìsan, contando sul fatto che il gran capitale delle corporations è pro-immigrazione (se ne è fatto alfiere il plurimiliardario sindaco di New York Michael Bloomberg) per costituire una coalizione con la lobby ispànica e con i politici progressisti delle due coste. Ma Obama si trova in una situazione persino più debole di Bush, perché Bush offriva alla destra xenofoba garanzie che lui non dà, e perché siamo in un anno di elezioni (a novembre si vota per il metà mandato)
Oggi negli Usa, su una popolazione di 301 milioni di abitanti, risiedono 39 milioni di nati all'este¬ro. 11 milioni sono gli immigrati illegali. L'ondata di migrazione innescata dal reaganismo e della deregulatoin è la più massiccia (non solo in termini assoluti, ma anche in termini percentuali) di tutta la storia statunitense, persino superiore a quella che precedette la prima guerra mondiale e che portò tra il 1921 e il 1924 a leggi che di fatto chiusero le frontiere per parecchi decenni a europei, asiatici e africani, ma risultarono permeabili ai clandestini messicani,
Come tutti i paesi d'immigrazione, spesso gli ultimi arrivati vogliono chiudere la porta dietro di sé e sono i più feroci xenofobi: così a fine '800 gli immigrati irlandesi e tedeschi volevano chiudere le frontiere agli italiani e ai polacchi. I primi movimenti «nativisti», come quelli dei Know-Nothing, risalgono al 1856. L'ondata di migrazione degli ultimi tre decenni ha creato un leghismo locale, con le sue brave ronde antì-clandestini, soprattutto negli stati della frontiera meridionale, dove i Minutemen hanno avuto i loro 15 minuti di gloria. Grazie anche alla crisi economica che ha prodotto 16 milioni di disoccupati, questo leghismo ha di recente innescato un'inapplicabile legge antìclandestini in Arizona, al confine col Messico (ma è notevole che lo stato contiguo all'Arizona, e anch'esso frontaliero, cioè il New Mexico, non conosca affatto una tale xenofobia). Legge contro cui l'amministrazione Obama ha già fatto ricorso.
È difficile perciò che trovi una traduzione legislativa a breve termine l'idea di Obama di lanciare una riforma complessiva dell'immigrazione grazie a una coalizione bipartìsan. Il discorso di ieri sembra piuttosto una mossa pre-elettorale per rianimare la sua base di sinistra e i votanti ispanici. Ma con Obama, e con la sua tenacia non si sa mai: magari, fra un anno riuscirà a realizzare, seppur con una serie di compromessi, anche questa tra le promesse che aveva fatto nel 2008.



Obama: svolta sugli immigrati

il Sole, 02-07-2010
Mario Platero
NEW YORK - La quarta sfida. Dopo sanità, riforma finanziaria ed energia, Barack Obama ha aperto ieri formalmente un nuovo capitolo nel suo confronto con i repubblicani: ha lanciato il guanto sull'immigrazione. E ha proposto una via di mezzo.
Nel suo primo discorso dedicato esclusivamente a uno dei temi più scottanti del momento sia dal punto di vista economico che da quello etico e giuridico, ha chiesto al Parlamento di andare avanti con un progetto di riforma che respinga gli estremi: «La deportazione è logisticamnete impossibile, ma la protezione dei confini può essere migliorata, di molto», ha detto il presidente.
Come dire: chi oggi si trova in America da un certo numero di anni potrà scegliere percorsi agevolati per regolarizzare la sua posizione. Ma chi cercherà di immigrare illegalmente a partire da ora, troverà un muro invalicabile. Nel vero senso della parola, visto che vi sono molti progetti per innalzare muraglie elettrificate lungo il confine con il Messico. C'è ovviamente molta retorica. Anche George W. Bush aveva promesso ai più scatenati dei suoi compagni di partito la costruzione del "muro" senza essere poi riuscito a portarlo a termine. E in quei pochi tratti dove il muro esiste, i trafficanti hanno scavato profonde gallerie sotterranee che consentono il passaggio a centinaia di illegali. Quando una galleria viene scoperta, se ne scava subito un'altra.
Ma al di là della retorica, questa volta Obama ha per le mani un progetto serio, con un approccio bipartisan, firmato dal senatore democratico di New York Chuck Schumer e da quello repubblicano della Carolina del Sud Lindsey Graham. I due non potrebbero essere più diversi, ma sono rispettati e hanno già lavorato insieme a progetti congiunti, ad esempio quello che minacciava l'imposizione di tariffe contro la Cina se lo yuan non si fosse rafforzato.
In America ci sono circa 11 milioni di immigrati illegali, ormai radicati, con famiglie, in grado di vivere normalmente grazie alla tolleranza di molti stati. Che, ovviamente, hanno bisogno di loro: questi 11 milioni sono parte integrante dell'economia del paese, sono pronti a fare lavori umili a basso costo. Ma rappresentano anche un peso. La maggioranza non paga le tasse (c'è in realtà un programma del fisco americano che consente agli immigrati illegali di pagare le loro tasse con "discrezione"). Quando non stanno bene vanno al pronto soccorso e non pagano il conto. I figli usano il sistema scolastico americano, ma i genitori non pagano le realtive tasse. Insomma, il problema è enorme: «La riforma non può aspettare. Il sistema, e questo lo sanno tutti, non funziona, è rotto...ma resta ostaggio del posizionamento politico. Come mai repubblicani che appoggiavano il piano del presidente George W. Bush oggi sono defilati?», ha detto Obama, invocando «un approccio pragmatico».
Il tempismo e l'azione e del discorso di Obama sono calcolati in vista delle elezioni di novembre. A parte gli illegali, ci sono decine di milioni di ispano-americani regolari e integrati che vogliono la riforma per i loro cugini e vogliono uscire dall'impasse. Insomma c'è in ballo il voto. E non soltanto il voto generico: con la sua sfida sull'immigrazione, ad esempio, Obama aiuta il senatore Harry Reid, il capo della maggioranza democratica al Senato, suo grande alleato nel processo per la riforma sanitaria che oggi rischia di perdere nel suo stesso stato, il Nevada, a forte percentuale di latinos.
Obama, che ha parlato a Washington all'America University davanti a una platea di politici, esperti, attivisti, sindacalisti e uomini d'affari ha ricordato i punti forza dell'immigrazione in America, dagli esempi di Albert Einstein a Sergey Brin confondatore di Google, ai flussi migratori di italiani, polacchi, russi discriminati. Il problema però è uno: tutti sono d'accordo sulla necessità di una riforma. Ma l'opportunità politica potrebbe imporre un rinvio.



Noi nazione d'immigrati

Europa, 02-07-2010
Negli ultimi tempi, con il passaggio della controversa legge in Arizona e la reazione animate che abbiamo visto in tutta l'America, il tema dell'immigrazione è tornato a essere fonte di divisione nel nostro paese. Alcuni hanno sostenuto questa nuova politica, altri hanno protestato e lanciato boicottaggi contro lo stato. Ovunque la gente ha espresso la propria frustrazione per un sistema che sembra intrinsecamente malato. Naturalmente le tensioni sull'immigrazione non sono nuove. Da una parte, noi ci siamo sempre definiti una nazione di immigrati - una nazione che accoglie coloro i quali vogliono sposare i precetti dell'America. Di più, è stato questo costante flusso di immigrati a rendere l'America quello che è. Le scoperte scientifiche di Albert Einstein, le invenzioni di Nikola Tesla, le grandi imprese della Us Steel di Andrew Carnegie e della Google di Sergey Brin: tutto questo è stato possibile grazie agli immigrati. E poi ci sono gli innumerevoli nomi e le azioni silenziose che non hanno trovato spazio nei libri di storia, ma sono stati non meno essenziali per la costruzione di questo paese.
Sono le generazioni che hanno affrontato con coraggio avversità e rischi enormi per raggiungere le nostre coste in cerca di una vita migliore per loro e le loro famiglie; i milioni di persone, antenati della maggior parte di noi, che credevano vi fosse un posto dove sarebbero stati, finalmente, liberi di lavorare e pregare e vivere le loro vite in pace.
Così questo continuo flusso di gente dedita al lavoro e talentuosa ha reso l'America il motore dell'economia globale e un faro di speranza in tutto il mondo. E ci ha consentito di adattarci e prosperare di fronte ai cambiamenti sociali e tecnologici.
Ora, non possiamo certo dimenticare che questo processo di immigrazione e successiva inclusione è stato spesso doloroso. Ogni ondata di immigrati ha generato paure e risentimento nei confronti dei nuovi arrivati, soprattutto in tempi di difficoltà economiche.
Così la politica di chi è e chi non è ammesso a entrare nel nostro paese, e a quali condizioni, è sempre stata controversa. E tale rimane anche oggi. E tutto è reso più complicato dal fallimento di noialtri a Washington di sistemare un sistema immigratorio ormai compromesso.
Per cominciare, i nostri confini sono porosi da decenni.
Il risultato sono, secondo le stime, undici milioni di immigrati senza documenti negli Stati Uniti. La stragrande maggioranza di queste donne e di questi uomini sta semplicemente cercando una vita migliore per sé e per i propri figli. Molti trovano un impiego in settori dell'economia dove i salari sono bassi, lavorano duro, risparmiano, si tengono fuori dai guai. Ma siccome vivono nell'ombra, sono vulnerabili nei confronti di imprese senza scrupoli che li pagano meno del salario minimo e violano le leggi della sicurezza sul lavoro, mettendo di conseguenza in una situazione di svantaggio le compagnie che quelle leggi le seguono e gli americani che giustamente chiedono il salario minimo o gli straordinari. Succede poi che crimini non vengano denunciati perché le vittime o i testimoni temono di uscire allo scoperto. E questo rende più difficile per la polizia catturare violenti criminali e garantire la sicurezza dei quartieri. E milioni di entrate fiscali si sprecano ogni anno perché i lavoratori sono pagati a nero.
Insomma, il sistema è a pezzi. E tutti lo sanno. Purtroppo, la riforma è stata tenuta in ostaggio di posizionamenti politici e dispute tra gruppi d'interesse - e di un diffuso senso comune a Washington secondo cui prendersi in carico un problema così spinoso ed emozionale è intrinsecamente cattiva politica.
Il nostro compito è pertanto far sì che le nostre leggi nazionali funzionino davvero, per modellare un sistema che rispecchi i nostri valori
come nazione del diritto e nazione di immigrati. E questo significa essere onesti intorno al problema, e gettarsi alle spalle i falsi dibattiti del passato che dividono il paese invece che aggregarlo.
Ora, se la maggioranza degli americani è scettica nei confronti di una amnistia generalizzata, sono anche scettici all'idea che si possano circondare e deportare 11 milioni di persone. Sanno che non è possibile. Un simile sforzo sarebbe logisticamente impossibile e pazzescamente costoso. Inoltre, lacererebbe il tessuto stesso di questa nazione - perché gli immigrati che sono qui illegalmente sono ormai strettamente intrecciati in quel tessuto.
Certo, lo stop all'immigrazione clandestina deve andare di pari passo con la riforma del nostro sistema scricchiolante che regola l'immigrazione legale.
Sì, si tratta di una questione emotiva, di un tema che presta il fianco alla demagogia. Ancora una volta, questo problema è stato usato per dividere e attizzare - e per demonizzare le persone. E così il comprensibile, il naturale impulso di chi si candida a qualche carica è quello di voltarsi dall'altra parte e di rinviare la questione di un altro giorno, o di un altro anno, o di un'altra amministrazione.
Ma credo che possiamo mettere da parte la politica e finalmente avere un sistema di immigrazione che risponda di quel che fa. Sono convinto che non si possa fare appello alle paure della gente, ma alle loro speranze, ai loro più alti ideali, perché è questo che noi siamo, come americani. È scritto sul sigillo della nostra nazione quando abbiamo dichiarato la nostra indipendenza E pluribus unum. È questo che ha attirato i perseguitati e gli indigenti verso le nostre coste. È questo che da tutto il mondo ha portato gli innovatori e coloro che si mettono in gioco per avere un'occasione nella terra delle opportunità. È questo che ha portato tanta gente a sopportare disagi indicibili per raggiungere questo luogo chiamato America.
(stralci dal discorso pronunciato ieri all'Amerìcan University di Washington)



Siamo tutti americani
Terza riforma Obama: sanatoria dei clandestini

Libero, 02-07-2010
Glauco Maggi
Dopo i flop di sanità e finanza, Baraci vuole risolvere il problema dell immigrazione dando la cittadinanza ai fuorilegge
NEW YORK- Obama ha aperto ieri un nuovo fronte di guerra legislativa, la riforma dell'immigrazione  quando ancora non si è assicurato in Senato il passaggio della legge sulle banche e i derivati che "sistema" Wall Street, per ora approvata dalla Camera. In un discorso a Washington, il presidente ha delineato le linee di un piano che dovrebbe risolvere la questione degli 11 milioni di clandestini oggi negli Usa, regolamentare l'accesso dei nuovi immigranti e sigillare meglio i confini ripristinando la sicurezza negli Stati di frontiera, da tempo teatro delle scorribande dei trafficanti.
La mossa difficilmente otterrà un risultato a breve termine, poiché i democratici non hanno i 60 voti necessari in Senato, anche perchè alcuni dei senatori del partito di Obama non hanno intenzione di votare con il presidente. Servono quindi svariati repubblicani disposti ad appoggiare la misura, ma a cinque mesi dal voto di novembre, e con la patata bollente della legge dell'Arizona che ha risolto il problema a suo modo, cioè con una norma statale che dà più strumenti alla polizia per reprimere il fenomeno, il Congresso è diviso per rigide linee politiche. Obama, come Bush aveva cercato di fare quando preparò una legge bipartisan con il sostegno del liberal Ted Kennedy e del senatore John McCain, vuole ottenere un successo legislativo e fare la pace con la comunità degli ispanici, i più sensibili al tema. Il presidente, che aveva inserito la ri-
forma tra i punti chiave del suo programma, ha infatti già deluso i più accesi avvocati della questione migratoria per non aver ancora fatto nulla nei suoi primi 18 mesi al potere.
Il sistema è "rotto", ha detto Obama scoprendo l'acqua calda, visto che gli irregolari si contano a milioni. Incrementare i controlli alle frontiere, anche con nuovi mezzi tecnologici e con più truppe, è stata una promessa elettorale solo parzialmente mantenuta, e insufficiente. D'altra parte, anche se in questa fase di recessione economica il loro flusso è diminuito, gli imprenditori americani, specialmente nelle campagne e nelle fabbriche, continuano ad avere necessità di forza lavoro esterna. Il clima di clandestinità attuale favorisce lo sfruttamento incontrollato e la negazione di diritti basilari ai lavoratori onesti mentre fornisce una pericolosa via d'accesso alla malavita dal Sud America. E, d'altra parte, nel paese è forte l'opposizione ad una amnistia che perdoni i comportamenti illegali di chi è entrato senza permesso. Neppure Obama, in linea con Bush, pensa alla soluzione della sanatoria generalizzata, politicamente impraticabile perché sarebbe la garanzia del moltiplicarsi del fenomeno anziché della sua eliminazione. Il presidente è favorevole a una formula di regolarizzazione che passi attraverso l'autodenuncia dei clandestini, il pagamento di tasse e multe, e l'avvio di un processo legale di ammissione, che comprende anche lo studio dell'inglese. Ma vuole anche reprimere più severamente i datori di lavoro che assumono clandestini.



Al Qaeda ora pubblica una rivista e spiega come fare bombe in casa

Il Messaggero, 02-07-2010
NEW YORK - «Lo chef di al Qaeda»: ovvero «Come cucinare una bomba nella cucina di tua madre». È l'ultima trovata di al Qaeda nella Penisola Arabica. Il titolo, che si fa subito leggere, è una delle cover story di "Inspire", una rivista di propaganda in inglese al suo "numero zero" rintracciata da ricercatori privati che pattugliano la rete. Il titolo evoca giovani aspiranti terroristi un po' mammoni che pasticciano con fertilizzanti e cosmetici ai fornelli della madre in burqa. Sembra quasi una burla, ma burla probabilmente non è se non altro perché hanno fatto ricorso a ordigni fatti in casa sia gli attentatori di Londra del 2005 che Faizal Shahzad (l'uomo di Times Square), ma anche Najibullah Zazi, l'afgano-americano che con due compagni di scuola voleva colpire New York e aveva comprato gli ingredienti della sua «torta esplosiva» in un negozio di prodotti per parrucchiere..
Spesso questi aspiranti stragisti attingono le loro ricette dal web. E gli ultimi esempi di tentati attentati in America hanno puntato i riflettori sui "terroristi della porta accanto", ragazzi apparentemente insospettabili e ben inseriti o mimetizzati nella società americana ma sensibili al richiamo sanguinario delle frange più estremiste dell'Islam. "Inspire" si rivolge a loro: è una rivista di propaganda ed è la prima di al Qaeda nella Penisola Arabica in lingua inglese. L'esistenza del magazine, segnalata dal direttore dell'antiterrorismo Michael Leiter a un forum sulla sicurezza interna a Aspen in Colorado è rimbalzata sulla Fox dove è stata presa sul serio dagli esperti di terrorismo.
Nel numero zero c'è un messaggio «al popolo dello Yemen» di Ayman Al-Zawahari, il numero due della rete che da anni si nasconde con bin Laden nelle caverne del Waziristan. Dello stesso bin Laden c'è uno scritto su «come salvare la terra». Un'intervista ai capi di al Qaeda nello Yemen promette «risposte alla Jihad nella penisola arabica».


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