Io, figlio, nipote e pronipote di emigranti

Darwin Pastorin

Spesso, soprattutto di questi tempi, ritorno a quei giorni. Ai giorni della mia infanzia brasiliana. Quando il mondo era meraviglioso, e tutti i sogni erano possibili. Io, figlio nipote e pronipote di emigranti (partiti da Santa Maria di Sala, da Lazise, da Verona), giocavo, nel quartiere Cambuci di San Paolo, in rua Nossa Senhora de Lourdes, con i miei coetanei, ebrei e musulmani, mulatti e giapponesi. Eravamo felici: felici di essere bimbi e di correre dietro ai nostri palloni e ai nostri aquiloni. A niente importava il colore della nostra pelle, la nostra religione, la politica dei padri. Il razzismo, per noi, non esisteva. Non era nei nostri cuori, nei nostri pensieri, nelle discussioni a tavola con i nostri genitori. Quell'epoca fu il mio Quinto secolo di Atene.
Noi italiani partivamo con le nostre tasche vuote, reduci dalla guerra e dalla fame, case e terre da abbandonare, viaggi in nave che duravano un'eternità, tra i rimpianti e le lacrime e quell'orizzonte carico di sogni e, soprattutto, di dubbi. Portavamo braccia e sudore, ma anche i nostri errori. Ci mettevano in quarantena, ci controllavano l'anima, nei bar di Zurigo (mi raccontò mio papà) in molti esponevano il cartello "Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani", sempre prima i cani. Abbiamo subito l'intolleranza, l'insulto, lo sputo. Italiani mafiamandolinosporchicattivi.
Non ci è servito a niente, non abbiamo imparato niente. Ma io, nei naufraghi e nei reduci e nei disperati che, ora, vengono da noi a cercare pane e speranza, continuo a vedere, nei loro occhi e nelle loro sofferenze, gli stessi occhi e le stesse sofferenze dei miei genitori, dei miei nonni e dei miei bisnonni.
Seguo il calcio, per professione e passione, ormai da una vita. E anche il calcio è, oggi più che mai, terreno (facile) di sfogo per i razzisti. Balotelli e Luciano sono soltanto gli ultimi casi, e non terminerà qui. Almeno sino a quando non si fermeranno le partite o il campionato.
Ricordo ancora il 25 novembre 2005, quando, durante Messina-Inter, l'ivoriano Marco André Zoro, continuamente beccato dalla curva nerazzurra, prese il pallone e disse "Me ne vado". Adriano lo convinse, con un abbraccio, a restare. E Giacinto Facchetti (lìimmenso Giacinto Magno narrato da Giovanni Arpino) chiese scusa al giocatore "a nome di tutti gli interisti perbene". Zoro gioca in Portogallo, nel Vitoria Setubal, dopo essere stato al Benfica, il club amato - per le sue radici proletarie - da Antonio Tabucchi. Ma non ha dimenticato quel pomeriggio: "Fu tutto assurdo, vergognoso, mi rimane addosso la cciatrice". I giocatori del Treviso, nell'aprile del 2001, si dipinsero il volto di nero per dimostrare la propria solidarietà al compagno nigeriano Omelade, insultato continuamente dai suoi tifosi. L'Udinese nel 1987 non acquistò l'istraeliano Rosenthal e il Verona rinunciò all'olandese mulatto Michel Ferrier nel 1996  e al camerunense Mboma nel 2001: il tutto per le pressioni di certi ultrà. Non vogliamo ebrei e negri. Niente, non è servito a niente. Ma i piccoli bambini del quartiere Cambuci non smetteranno di lottare per un mondo diverso, per un mondo migliore.

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