Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

24 aprile 2015

Tragedia di migranti, stavolta via terra: treno li travolge, 14 morti in Macedonia
Proseguivano sui binari per non perdersi. Arrivavano da Somalia e Afghanistan. Quella lungo i balcani è una rotta dell'immigrazione alternativa a quella via mare verso l'Italia
la Repubblica, 24-04-2015
SKOPYE - Tragedia dell'immigrazione clandestina a terra e non in mare stavolta. In Macedonia, un treno ha travolto un gruppo di circa 50 immigrati clandestini diretti alla volta di Belgrado: sono morti in 14.
Come ha riferito il minister dell'interno, l'incidente è avvenuto nella tarda serata di ieri nel tratto Veles-Skopje. Il convoglio internazionale partito da Gevgelija (sud della Macedonia al confine con la Grecia) e diretto a Belgrado (Serbia) ha investito un gruppo di una cinquantina di immigrati clandestini, che nel loro viaggio a piedi verso nord e la Serbia seguono la linea ferroviaria per non sbagliarsi e perdersi nei boschi.
Nonostante il tentativo del macchinista di rallentare, il gruppo di immigrati è stato investito in pieno dal treno. Gli immigrati provenivano in prevalenza da Somalia e Afghanistan.
La Macedonia è attraversata costantemente da migliaia di immigrati clandestini che dalla Turchia e Grecia cercano di entrare in Serbia e successivamente in Ungheria, Croazia o Slovenia, Paesi dell'Unione europea.



La nostra forza la nostra debolezza
Nessuno riuscirà a fermare il sogno di Occidente di milioni di africani e asiatici. Ma quella contro gli scafisti è una guerra che bisogna vincere
l'Espresso, 24-04-2015
Luigi Vicinanza
LA GUERRA di Matteo Renzi è la guerra di un paese impreparato ad affrontarla. Sfibrato dalle polemiche interne. Mortificato dagli egoismi europei. Allarmato dal fanatismo jihadista. Non si combatterà, questa dannata guerra, con carri armati e cacciabombardieri. Per fortuna. Avrà comunque bisogno di strumenti militari, oltre che diplomatici e umanitari. Ma innanzitutto servirà una forte coesione nazionale per sostenere le scelte non facili da adottare. Il naufragio nella notte tra sabato 18 e domenica 19 aprile rappresenta un punto di non ritorno per la coscienza civile. È la storia di copertina di questo numero.
Ci siamo interrogati in redazione sull`opportunità dell`uso della parola guerra. Ironia della Storia, proprio nei giorni in cui celebriamo la fine del secondo conflitto mondiale e la liberazione dal nazifascismo: 70 anni di pace e democrazia. L`analisi degli elementi raccolti mette in risalto un profilo interventista dell`Italia, ben oltre le stesse dichiarazioni ufficiali di operazioni mirate nei mari e nei porti della Libia. Lo documentano Marco Damilano e Gianluca Di Feo delineando lo scenario, del tutto imprevisto, entro cui si sta muovendo il governo (pagina 14). Per Renzi è la prova più ardua da quando è a palazzo Chigi, sia per la tenuta interna della sua stessa recalcitrante maggioranza, sia per la effettiva solidarietà internazionale. Rispetto all`opera- zione Mare Nostrum, eccellente nell`opera di salvataggio, e alla successiva più striminzita missione Triton, il premier va molto oltre. Dà all`Italia l`obiettivo, capofila in Europa, di bloccare i traffici dei nuovi schiavisti e di rallentare - se non proprio impedire - le partenze delle carrette dei disperati dai porti libici. È un ribaltamento del modo di operare finora applicato. Nel 2014 l`Italia ha accolto 170 mila profughi, parte dei quali salvati in mezzo al mare con generosità ed eroismo. I dati dei primi tre mesi dell`anno ci dicono che nel 2015 si supererà sicuramente quota 200 mila. Con le inevitabili tensioni sociali e gli sprechi di denaro pubblico documentati da "l`Espresso" appena poche settimane fa (Fabrizio Gatti sul numero 4).
RENZI ORA CAMBIA strategia: dall`accoglienza totale dei migranti al tentativo di disarticolare i canali di traffico in terra d`Africa. Non è ancora del tutto chiaro come e dove, con quali mezzi e per quanto tempo. Ma l`Italia intende inquadrare le sue operazioni di polizia militare in Tripolitania e in Cirenaica nella più vasta lotta al furore islamico: «I nuovi schiavisti finanziano anche il terrorismo», ha dichiarato al "Messaggero" il ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Addirittura il 10 per cento del prodotto interno lordo libico sarebbe frutto dell`odioso mercato di esseri umani. Enormi quantità di denaro a disposizione del sedicente stato islamico o delle formazioni terroristiche ad esso affiliate. Insomma all`urgenza umanitaria si sovrappone l`emergenza sicurezza: non era mai capitato prima che le due questioni si incrociassero così pericolosamente.
QUANTO EFFICACE sarà la campagna di contenimento delle partenze? Difficile fare previsioni, sempre che davvero si riesca a mettere in piedi una missione duratura. Di sicuro sarà utile al governo per egemonizzare il dibattito politico interno: in vista delle elezioni regionali di fine maggio, il premier e i suoi potranno raccontare una svolta finora mai osata da nessun altro, sottraendo alla Lega di Matteo Salvini gli strumenti per lucrare sulle paure e sul disagio sociale degli strati più deboli della popolazione italiana.
Sul lungo periodo le incognite sono infinite. Prima fra tutte il desiderio di masse enormi di disperati di approdare in Europa alla ricerca di una vita migliore. Di cui si fanno strumento, nel loro immenso cinismo, gli scafisti e chi li organizza. Offrono uno sporco servizio a chi fugge da guerre, fame, persecuzioni. Il racket va stroncato senza pietà. Come vanno distrutte quelle carrette della morte. Ma il sogno di Occidente di milioni di africani e asiatici, niente e nessuno riuscirà a bloccarlo. Forza e debolezza del nostro mondo.



Preoccupa la ripartizione dell’accoglienza
Renzi ha apprezzato: «Nessuno può obbligare gli Stati membri ad accogliere i migranti»
La Stampa, 24-04-2015
Guido Ruotolo
Le lancette del tassametro degli sbarchi, delle segnalazioni, dei salvataggi inesorabilmente continua ad andare avanti. Mentre i Paesi Ue solidarizzano, discutono, approfondiscono i problemi siamo già arrivati (ieri pomeriggio) a 25.480 arrivi. Che vuol dire 3.070 persone in più rispetto all’anno scorso.
Ma le decisioni che arrivano alle nove di sera, incupiscono la prima linea del Viminale che è al fronte, che deve salvare e assistere il popolo dei migranti e dei rifugiati che sbarca in Europa, cioè in Italia. Perché l’Europa vuole mandare task force di Frontex per le fotosegnalazioni degli immigrati. Quasi censurando evidentemente il lavoro fin qui svolto dagli italiani.
Nel paniere dell’Europa solidale c’è soprattutto il potenziamento di Triton. Non si può dire ma nei fatti è una Mare Nostrum bis. È vero che l’operazione promossa da Frontex rimane una operazione di pattugliamento delle frontiere europee, quindi dell’Italia. Ma più mezzi e quindi più navi rispetto a quelle attuali comporta una maggiore capacità di salvare vite umane. La legge del mare impone il salvataggio di vite umane e dunque è un imperativo prestare soccorso laddove venga richiesto.
Preoccupano il Viminale i termini in cui sarà ripartito il carico dell’ospitalità. Nei dieci punti fissati per la discussione dei capi di governo della Ue, si accennava a 5.000 presenze da distribuire tra i Paesi europei. Di fronte a una ragionevolissima stima di 200.000 arrivi nel 2015, è giusto che sia l’Italia a doversene fare carico? Certo è che per la prima volta l’Europa affronta il tema anche se «simbolicamente»: «Finalmente - dice una fonte del Viminale - si incrina il muro granitico di Dublino, che imponeva che fosse il Paese d’arrivo la destinazione dei richiedenti asilo». Addirittura la Ue alza il tetto a 10.000 richiedenti asilo per il loro reinsediamento. Cioè non è detto che i «fortunati» siano quelli arrivati in Italia.
Fare la guerra agli «schiavisti del XXI secolo» significa essere consapevoli che «non si può lasciare il lavoro a metà», per dirla con una fonte di Palazzo Chigi. Se l’Europa si impegnerà a trovare una cornice di legittimità internazionale per fare operazioni mirate in Libia, e se si dovesse procedere senza il consenso del governo di Tobruk e con il dissenso di Tripoli, le condizioni di vita degli immigrati diventerebbero insostenibili. E dunque l’Italia vuole affrontare il problema.
Distruggere il naviglio degli «schiavisti del XXI secolo» è una decisione impegnativa, le cui modalità dovranno essere studiate e proposte dall’Alto rappresentante della politica estera, Federica Mogherini. Decidere se mandare in Libia per «dei blitz toccata e fuga» guastatori in grado di individuare e distruggere le basi e i mezzi dei trafficanti è una scelta impegnativa che dovrebbe avere il consenso del governo libico. Ma quale? Quello di Tripoli islamista, o quello di Tobruk che la comunità internazionale riconosce? Intanto, i nostri mezzi continuano a salvare vite umane e, in condizioni di piena sicurezza, stiamo già provvedendo a neutralizzare i traghetti dei viaggi della morte, affondandoli dopo il salvataggio.



Perché i leader europei sbagliano sui migranti
l'Huffington Post, 24-04-2015
Costanza Hermanin
Analista politico, Open Society Foundations
La riunione di ieri dei capi di Stato e di Governo dei 20 paesi Ue si è conclusa con una dichiarazione che lascia l'amaro in bocca. Triplicare il bilancio dell'agenzia che si occupa di controllo delle frontiere (Frontex) e il cui mandato include solo marginalmente il salvataggio in mare non è certo il modo per ridurre le morti. Frontex coordina battelli prestati dai vari stati membri, perlopiù dalle guardie di finanza e polizie di frontiera europee, incaricate del pattugliamento dei confini, della lotta alla pirateria e al traffico di merci. Non del salvataggio di vite umane. Certo, chiunque sia in mare alla legge del mare si deve attenere, e meno male che ogni marinaio ha chiaro in testa il dovere di soccorso. Questo, solo recentemente è comparso nel mandato di Frontex, anche grazie a pressione Italiana. Ma un Mare Nostrum Europeo avrebbe dovuto coinvolgere le guardie costiere, specializzate in salvataggio, e perché no, le marine militari.
Se Mare Nostrum è stato un successo nel salvare vite umane - quando c'era Mare Nostrum morivano 1,9 persone su 100 passeggeri dei barconi, senza Mare Nostrum 3 su 100 - è stato per i numeri, ma soprattutto per il coraggio e la dedizione di Guardia Costiera e Marina Militare. Saranno altrettanto bravi i poliziotti del mare? E dove opereranno?
Se, com'è il caso, l'Unione europea non ha competenze giuridiche per obbligare gli stati membri a contribuire mezzi adeguati, almeno si poteva fare uno sforzo d'inventiva e creare un'iniziativa fuori dai trattati, o una cooperazione rafforzata, che mettesse le giuste risorse in mare. E magari non a 30 miglia dalla nostra costa, ma un po' più in là.
Quanto alle agenzie dell'Unione, ci si è dimenticati che l'Ufficio europeo dell'asilo (con sede a Malta) poteva pure essere rafforzato. Chi arriva in Italia e in Grecia in queste ore finisce in dei sistemi d'asilo inefficienti, dove le persone (salate, ferite, bruciate) si trovano ad aspettare settimane in tende, e nella maggior parte dei casi ci rimangono per mesi, salvo poi finire in orridi squat come quelli della Collatina e di Ponte Mammolo a Roma, o in occupazioni dai profili sanitari inquietanti, come al Selam Palace della Romanina. Qui incontrano persone che la tanto vociferata protezione internazionale (e.g. lo status di rifugiato politico), l'hanno ricevuta anni fa...ma che né Italia né Grecia sono riuscite a integrare nel proprio sistema sociale e produttivo. Un peccato davvero considerando che tanti imprenditori della Silicon Valley sono dei rifugiati ben integrati.
La situazione umanitaria e sanitaria delle famiglie e delle persone che sono sbarcate in Italia negli scorsi anni è imbarazzante, soprattutto nel caso di Roma e di alcuni grandi centri del Sud, come Mineo. Gli sbarchi recenti la stanno peggiorando, ma gli incentivi politici a collaborare sembrano pochi. Pare che nessuno si riconosca in queste famiglie che scappano dalla guerra in Siria, da ISIL in Libia, da Boko Haram in Nigeria. Perché?
È giusto fermare questa umanità che scappa dalla morte sicura e preferisce rischiare la vita in mare?Davvero non possiamo far fronte a 200 - 500 mila persone in una continente di 500 milioni di abitanti - che secondo Eurostat perderà 50 milioni di abitanti per ragioni demografiche entro il 2060, senza immigrazione?
Pensiamo a questo quando diciamo - come ha fatto il Consiglio europeo di ieri - che la panacea di tutto è la lotta ai trafficanti di persone. Chi può prendersi la responsabilità di fermare fughe disperate? C'è davvero un'opzione diversa dall'accogliere queste persone? Cosa faranno una volta che le reti di trafficanti saranno smantellate e le loro imbarcazioni affondate?
Probabilmente non potranno più partire, e rischieranno la vita. Perché le opzioni che hanno proposto i leader europei, il cosiddetto reinsediamento diretto dalle zone vicine al conflitto e i programmi di protezione regionale in loco, sono buone sì, ma non potranno partire che tra mesi. Così come le azioni di cooperazione allo sviluppo che aiutino gli stati d'origine e transito. Tutto non potrà accadere che dopo che le ambasciate si saranno attrezzate e le agenzie dell'Onu avranno trovato i soldi per fare ancora di più rispetto a quanto già fanno. Nel frattempo?
Nessuno di noi vorrebbe essere stato bloccato nella sua fuga dall'Europa dopo aver sofferto l'esperienza dei campi di concentramento nazisti. Ricordiamoci della storia, di episodi come quelli della nave SS Exodus, in cui i sopravvissuti dai campi cercarono di raggiungere la Palestina e furono bloccati da navi europee. Forse l'intera storia non sarà la stessa, ma di questo parliamo. Persone che rischiano la vita o hanno subito la tortura. Erano italiani ed europei solo settanta anni fa.



Migranti, il genocidio degli innocenti
Avvenire, 24-04-2015
Alessandro Bergozoni
Alessandro Bergozoni, attore-autore e poeta, comincia oggi a collaborare con "Avvenire"
Quale emergenza umanitaria? Sovrumanitaria semmai, non solo politica europea di cooperazione o che. Manca sovrumanità nell’accogliere non solo i migranti che fuggono dalle guerre, ma nell’accogliere l’idea, il concetto che si debba accettare, tenere con noi, difendere, agglomerare, annettere, condividere, per salvare, per far vivere, per aprire alla pace, non la loro ma anche la nostra. Invece si punta ancora a difendere noi, che in guerra diretta non sembreremmo (?), a salvaguardare le nostre nazioni e condizioni da chi ci muore in braccio, come se fossimo noi sotto attacco da parte di chi ci annega addosso; si continua soprattutto a non accettare nemmeno l’idea che l’esodo biblico del mondo e delle sue genti che stanno morendo di guerre e di torture, sia parte della nostra esistenza presente, futura, che deve cambiare, che è cambiata e cambierà, sempre di più.
Penso sia finita per sempre la concezione di nazione unica di appartenenza sola, di popolo unitario e distinto, separato dai separati. Parlo per l’ennesima volta di sovrumanità perché l’umano ormai ha fatto il suo tempo, ha fatto il suo tempo questa umanità, questa laicità, questa religiosità, questo modello unico di alfabetismo civile o incivile, questo codice unico, sociale, esistenziale, etico, morale. Va scritto appunto un altro alfabeto, (per capire, per esempio, se la "A" di aiuto è la stessa "A" di annegare), un’altra costituzione interiore e ulteriore, un’altra poetica di vita che non stringa più il cuore dalla commozione solo per non farci passare chi muore di guerre, che non ci faccia più solo piangere per quello che vediamo ma che ci faccia aprire il cuore per lasciar passare la nuova idea di mutazione profonda e ormai insopprimibile, mutazione quasi genetico-cosmica-spirituale e trascendentale che ci faccia vedere una volta per tutte e senza timore o terrore, come amare non come armare e finanziare gli angoli del mondo sia l’origine di tanta "umanità" di tanto benessere- malessere.
Una mutazione che è a monte delle più piccole e più grandi decisioni che governi, (fatti di persone di corpi di cuori di anime), non riescono nemmeno ad immaginare finiti come sono a cercare espansione foraggiando un terrore di andata e di ritorno, a turno e a seconda degli interessi del momento, fomentando ogni tipo di paura per poter ottenere potere, dominio,controllo.
Sta qui il cambio che almeno ci deve far aprire gli occhi se non i nostri stretti, ci deve far aprire le porte delle nostre terre se non le menti dei nostri rappresentanti politici nazionali ed internazionali. Non c’è niente di laico o di religioso in tutto questo non è questione di credenti o non credenti è questione di incredibile immenso e dobbiamo trascendere: è questione di trascendenza, di spirito che muove o non muove le mani di chi arma, di chi spalleggia, di chi non fa nulla per aprire corridoi umanitari, di chi vuol impedire le migrazioni come se fosse possibile fermare il mare se si continua ad agitarlo, muovendone le onde.
L’ho detto e lo ripeto: c’è chi uccide con le mani e chi con la man-canza: mancanza di grandezza, di infinito, di bene, di anima, credendo di compensare con manie di grandezza, smania di espansione e dominio a tutti i costi: i costi delle missioni di pace, i costi degli armamenti, i costi di vite umane, i costi delle deviazione di informazione.
Da secoli ci provano i poeti, gli artisti e tutte le letterature della terra bene o male, presto o tardi durante o dopo i genocidi e le ecatombe, ma finché non si capirà che questa poetica questa arte del trascendere deve essere accolta e indossata da ognuno di noi, deve essere fatta entrare non più solo clandestinamente in alcuni di noi e in alcuni frangenti, tutto resterà come prima o ben peggio di prima (e sembra sempre che ce ne accorgiamo dell’aumento della gravità e della vastità del male, ma poi tutto vien fatto rientrare nelle statistiche fisiologiche storiche, economiche e politiche, senza intuirne l’enormità drammatica, cosmica e universale: e magari si trattasse di catastrofismo o anche solo di realismo; qui si tratta di ben altro e sembra che non si non abbiano gli strumenti né per fronteggiarlo né per arginarlo, ma ripeto ciò che è folle nemmeno per vederlo...).
Ecco che allora la così detta benedetta speranza può esistere se riempita da questa consapevolezza, di un cambio totale e radicale, profondo ed epocale di ogni anima che ci governa, che ci rappresenta, che decide e fa, che regola e legifera, che progetta e finanzia. Ogni nazione, ogni banchiere, ogni generale, ogni presidente, ogni ministro così detto democratico, che deve avere esso stesso l’onere della prova per dimostrare che non è un dittatore, un despota, un aguzzino, uno stragista al pari di quelli che indirettamente (?) alimenta e tiene in vita, per poter allattare il genocidio degli innocenti, e continuare così nella sua occupazione, occupazione sia nel senso di professione che di dittatura.
Possiamo almeno cominciare a lasciare entrare questo nuovo Stato d’animo, prima di capire come fare entrare tutte le altre anime degli altri Stati?



La traversata inarrestabile
il manifesto, 24-04-2015
Glan Paolo Calchi Novati
Renzi, Gentiloni, Alfano, Mogherini, nonché Salvini come rappresentante della politica «ruspante» che approfitta del «non detto» per gridare che «il re è nudo», farebbero bene per prima cosa a consultare la propria coscienza. Subito dopo, dovrebbero usare termini adatti al tema doloroso dell`emigrazione irregolare (non clandestina, perché avviene alla luce del sole) verso l`Italia mediante barche e barconi che spesso affondano. Anche la storia li aiuterebbe a capire che il paragone fra questo traffico e il conunercio degli schiavi è inappropriato. CONTINUA I PAGINA 3
Sorprende che vi facciano ricorso pure intellettuali come Ainis e Magris. Di chi sarebbero «schiavi» i profughi? Dei mercanti o del mercato? Se i due fenomeni avessero veramente qualche similitudine, l`accostamento equivarrebbe ad ammettere che in Italia, in Europa e nel mondo industrializzato vige un sistema di produzione prossimo alla schiavitù o comunque retto da rapporti così iniqui da far pensare alla schiavitù.
La tratta in direzione delle Americhe che durò due secoli e mezzo fra Cinquecento e Ottocento prevedeva razzie di persone libere, prima uomini e in un secondo tempo anche donne, mai bambini, destinati a essere trasportati attraverso l`Atlantico e venduti come schiavi una volta giunti sulla coste dell`America. Le razzie erano compiute a cura di autorità africane che provvedevano all`accompagnamento dall`interno alla costa.
Le compagnie, variamente legate a paesi europei, comparivano nel momento della compravendita e quindi dell`imbarco e della partenza. I punti di attracco venivano chiamati «del non ritorno"» Sorgono nell`Africa occidentale - a Cape Coast, Elmink Gorée - i memoriali e i musei dell`Olocausto nero. Gli schiavi erano incatenati e imbarcati con la forza e contro la loro volontà. Anche i negrieri del Duemila vanno a cercare il loro bottino ma si tratta comunque di gente disponibile e che addirittura li cerca pur conoscendo le violenze e i soprusi che tutto ciò comporterà.
Le navi negriere compivano il loro servizio per conto degli Stati europei. Per più di due secoli furono viaggi assolutamente «legali» ancorché mostruosi da un punto di vista morale. L`unico aspetto comune è l`alto tasso di mortalità che comportavano e comportano le due traversate. La tratta degli schiavi divenne illegale solo con la sua interdizione all`inizio dell`Ottocento sotto la spinta dell`abolizionismo di missionari e menti illuminate, prima in Inghilterra e poi negli altri paesi europei. La schiavitù fu abrogata qualche decennio dopo la proibizione della tratta. A questo punto le navi negriere erano perseguite perché violavano una norma internazionale. Gli schiavi liberati venivano sbarcati dalla Royal Navy in Sierra Leone (da altre unità navali in Liberia, Gambia o Gabon).
I migranti dì oggi, con molti bambini al seguito, esprimono così il desiderio di lasciare la terra dove sono nati, o dove si trovano. È l`emigrazione della disperazione. L`emigrazione sognando un miglioramento economico è quasi scomparsa. Quella che prevale è un`opzione spontanea e insieme forzata per sfuggire a una non-vita per l`incombere di eventi gravissimi che in parte, attraverso guerre che hanno aumentato ovunque la radicalizzazione dei conflitti e la destabilizzazione regionale, sono stati indetti, promossi o sostenuti proprio da noi, Stati Uniti e Europa, Italia compresa.
C`è ancora qualcuno, a Roma e Bruxelles, che vorrebbe lanciare un`altra «operazione mirata». Come se-fossero gli scafisti a produrre i profughi e non viceversa. Qualcosa del genere fu fatto in Albania, dove erano gli albanesi pe rò a partire, avendo a poca distanza le proprie case relativamente accoglienti. Se mai scomparissero scafi e scafisti dai porti libici, è sicuro Renzi che quel milione di africani neri che - a quanto si continua a ripetere - premono sulle coste della Libia e ai suoi confini per cogliere l`occasione del grande balzo sarebbe un atto di giustizia e un fattore di stabilizzazione?
Gli sbarchi e i naufragi stanno diventando così frequenti e ingenti da suscitare, giustamente, un allarme diffuso. Qualsiasi politica per essere sensata deve anzitutto diagnosticare la natura vera e non immaginata del problema. Le mistificazioni letterali non giovano a fare chiarezza e contribuiscono a confondere un`opinione pubblica già disorientata.
L`uso della forza non è una soluzione. Sarebbe l`epitaffio di una politica confermando che essa ormai conosce solo la guerra. Ci sarebbe bisogno se mai di una specie di «legalizzazione». Il traffico attuale è ignobile ma dov`è il traffico nobile? Nessuno possiede ricette miracolose da proporre e realizzare anche se - senza andare troppo lontani - è accertato che Mare Nostrum funzionava meglio di Triton. Sperabilmente le cifre che circolano sono esagerate. Comunque i flussi migratori fra paesi del Sud in uscita e in entrata sono di gran lunga superiori quantitativamente ai flussi che arrivano in Europa. Il paradigma deve essere il salvataggio-accoglienza e non il respingimento-esclusione o il «contrasto» (altro termine mai spiegato nella sua dinamica e probabilmente contro le leggi). Chi parla di «blocco navale», ovunque esercitato e a qualunque distanza fra la costa nordafricana e gli approdi in Italia o in altri luoghi della sponda settentrionale del Mediterraneo, ha il dovere di specificare se il proposito è di impedire il transito o di agevolarlo evitando attraversamenti troppo pericolosi e le tragedie quotidiane.
C`è un precedente che può tornare utile come caso di studio. Nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, l`esodo in massa dei boat people dall`Indocina - anche allora dopo una terribile guerra esportata dagli Stati Uniti, non si sa se vinta o persa- non fu sentito o presentato come una «minaccia». I profughi venivano assistiti e integrati. Pazienza se la buona volontà rientrava nella propaganda anticomunista. Non risulta nemmeno che chi scampava ai vopos messi a presidio del passaggio fra Berlino Est e le luci di Berlino Ovest fosse penalizzato e riportato indietro dai governi dei paesi occidentali. Schindler e Perlasca che, senza senza lucro alcuno e in un`emergenza del tutto diversa (ma a leggere i giornali anche questa è «epocale»), hanno aiutato tanti perseguitati a «fuggire» sono addirittura passati alla storia come eroi.



Bruxelles resta ostaggio dei nazionalismi
La Stampa, 24-04-2015
Stefano Lepri
La Germania è incapace di cambiare scelte economiche giuste ieri, inadeguate oggi; paralizza tutti l’instabilità politica della Francia. Ancora una volta, messa sotto pressione da un dramma, l’Europa concorda misure limitate, non risolutive. Senza l’orrore dei migranti annegati, i suoi governi non sarebbero riusciti a concordare nulla e avrebbero proseguito nel consueto scaricabarile reciproco.
Le difficoltà dell’Unione oggi stanno tutte in questo oscillare tra l’inerzia e azioni tardive o carenti che a loro volta innescano nuove difficoltà. Così è stato per la crisi dell’euro, così per la crisi ucraina; così è di fronte ai barconi stracarichi che affondano nel Mediterraneo.
Da una parte è chiaro che esistono problemi troppo grandi per essere affrontati da ciascuno Stato separatamente, come il rapporto con la Russia e la sorveglianza delle coste. Dall’altra la cattiva qualità delle decisioni collettive esaspera, spingendo alcuni a sognare ritorni all’indietro. Alcuni che oggi inveiscono contro l’Europa che non aiuta l’Italia contro gli scafisti sono gli stessi che ieri inneggiavano alla «sovranità monetaria» sognando un’uscita dall’euro.  
La contraddizione è evidente; peraltro occorre capirne le ragioni.
Il corso della storia si è accelerato. Guardiamo all’euro: ancora all’inizio del 2009, quando se ne celebrò il decennale, poteva essere celebrato come un successo. La distanza fra Paesi ricchi e Paesi poveri si era ridotta, la piccola Islanda stremata dalle sue banche vi guardava come a un rifugio sicuro.
Oggi invece il mondo rimprovera all’area euro di frenare la crescita economica di tutti. Di rinvio in rinvio siamo incapaci di risolvere la crisi greca; comunque vada a finire con il governo Tsipras ne seguirà una scia enorme di risentimenti.
Quanto sia fragile l’edificio europeo lo mostra anche la facilità con cui Vladimir Putin riesce a eroderlo ai margini. Perfino i magri favori di una Russia oggi senza soldi - a causa del basso prezzo del petrolio - hanno già asservito il governo di destra dell’Ungheria, allettano ora il governo greco dominato dall’estrema sinistra.
Si sente dire spesso che questa fragilità proviene dall’aver pensato solo a costruire un edificio economico, trascurando di alimentare con gesti concreti le ragioni politiche dello stare insieme, la solidarietà, lo spirito di una cittadinanza condivisa.
Così alla gente sembra, e in parte è vero. Ma per un’altra parte è il meccanismo economico a risultare incompleto. Sono cospicui interessi economici nazionali a preferire, a istituzioni europee che potrebbero sovrastarli, governi nazionali su cui sono capaci di influire.
Nella crisi dell’euro, gli «errori nella sequenza temporale delle misure» riconosciuti ora dalla Bce furono imposti da una omertosa protezione dei sistemi bancari nazionali più forti. Il «divide et impera» di Putin su gas e greggio funziona perché le lobby dell’energia nazionali dell’Europa sono rivali tra loro.
Per converso, non sono i tecnicismi ad aver imposto nell’area euro politiche di bilancio troppo restrittive, quanto una maggioranza politica di Stati dai bilanci sani diffidente verso gli Stati deboli (se il tecnocrate capo, Mario Draghi, avesse potuto decidere da solo, avrebbe fatto scelte più equilibrate).
La mancanza di fiducia reciproca tra i governi è dovuta al fatto che ciascuno vede l’altro troppo debole nei confronti delle forze economiche o politiche che la crisi ha sprigionato al suo interno.
Parrebbe evidente che una misura liberale come l’abolizione dei controlli di frontiera nell’area Schengen richieda di portare sulla stessa scala europea quelle funzioni a cui anche i fautori di uno «Stato minimo» sono favorevoli: guardia dei confini comuni e accoglienza degli immigranti.
La pressione sulle frontiere marine di Italia, Grecia, Spagna è rafforzata dall’esistenza di uno spazio comune europeo in altre parti del quale è più facile trovare lavoro. Dunque va regolata insieme; ma noi per primi dobbiamo mostrare di mettercela tutta, per ispirare fiducia.  
Non è tempo di ambiziosi progetti, lo sappiamo. Ma ci sono alcune parti dell’edificio europeo che vanno consolidate perché altrimenti ci crollano addosso; e per consolidarle bisogna rifarle meglio.  
Il pericolo più grave è che divergenze politiche normali in democrazia (sui migranti come sulle politiche economiche) vengano travestite da contrasti fra nazioni e vissute dalla gente come tali.



"Pronto? Sì, c`è una barca per voi"
Il trafficante della strage del 2013 risponde allo stesso cellulare, denunciato invano dai parenti delle vittime. E ci fa prenotare 7 posti per lasciare Tripoli
l'Espresso, 24-04-2015
Fabrizio Gatti
MOHAMED, IL BOSS DEI BOSS dei trafficanti in M Libia, risponde dopo un solo squillo. Ad appena sette secondi dall`inizio della telefonata da Milano a Tripoli, la sua voce pronuncia educatamente « aiwa, sì?». Prenotare sette posti su un barcone di profughi è più rapido che comprare il biglietto al numero verde di Alitalia. L`aereo richiede pazienza: un minuto e otto secondi di attesa a pagamento tra avvisi e questionari, prima di parlare finalmente con l`operatore. Raggiungere Mohamed è come cercare un volo chiamando direttamente Luca Cordero di Montezemolo, il presidente, il grande capo. E non è l`unica sorpresa. L`altra dimostrazione di impunità è che il numero di Mohamed da anni è sempre uguale. Lo stesso numero di telefonino con il «357» finale che già nel 2013 appare nella denuncia presentata alla Procura di Palermo, dai medici siriani sopravvissuti al naufragio dell`I l ottobre di quell`anno: almeno sessanta bambini annegati, 268 morti complessivi sui 480 profughi che avevano pagato la traversata al boss dei boss, otto giorni dopo l`altra tragedia di eritrei a Lampedusa. E con un simile curriculum, la strage dei bimbi di Aleppo sul groppone e le indagini ancora in corso, eccolo qua. Nemmeno la precauzione di cambiare scheda telefonica, come farebbe qualunque criminale. Sempre la stessa utenza di Libya-Mobile a 35 centesimi al minuto. E anche in questo, l`agenzia dei barconi batte in convenienza le tariffe dei cali center nostrani. «Salam, pace a te, chi parla?», chiede tranquillo Mohamed (la telefonata è su lespresso.it).
Sarà dura per l`Italia e l`Europa sconfiggere i trafficanti con le armi. Al di là del Mediterraneo erano imprendibili già ai tempi del colonnello Gheddafi. Figuriamoci oggi, in una terra dove
l`unica legge la dettano i kalashnikov. A meno che l`Unione Europea non finisca nel pantano: dichiarare guerra, in nome dei 420 dispersi in mare lunedì 13 e degli oltre ottocento di domenica 19 aprile. Ma davvero un`operazione di polizia internazionale e il blocco navale fermeranno il traffico? Probabilmente no: sposterebbero le partenze in Egitto e Turchia, da dove già nel 2014 sono arrivate decine di migliaia di rifugiati e continuano ad arrivare. Lungo il fronte governativo che dopo le stragi puntualmente unisce Bruxelles a Roma, per poi puntualmente dissolversi, l`analisi dovrebbe essere logica, non militare: se si rompe un rubinetto non si alzano le sponde del lavandino, prima si chiude l`acqua a monte. L`Europa punta invece al blocco. Piuttosto che creare una rete di corridoi alternativi sostenuti dal rilascio di visti umanitari. In questo caso, le navi militari servirebbero sì a recuperare gli esuli già arrivati in Libia. Ma nel giro di pochi mesi i trafficanti si troverebbero senza più clienti. Può sembrare un`ipotesi impraticabile. Nel 2014 anche la Santa Sede l`ha esaminata, dopo l`appello lanciato attraverso "l`Espresso" dall`avvocato Alessandra Ballerini e da due imprenditori di Lampedusa, Paola La Rosa e Carmelo Gatani. Il rischio che l`opzione armata non risolva nulla lo dimostra la storia di Merhawi, 20 anni, eritreo soccorso in mare e sbarcato a Palermo martedì 14 aprile.
Merhawi a 17 anni ha dovuto lasciare Asmara, la scuola, la famiglia. E, contro la sua volontà, ha concluso gli studi nella caserma di Sawa nel deserto, una base dell`esercito molto più simile a un campo di prigionia. Per ragazze e ragazzi eritrei come lui è l`inizio del servizio militare a vita. Tre anni sacrificati così e Merhawi scappa. F. un mercoledì, il 28 gennaio. La sua famiglia paga 2.500 euro per farlo uscire di nascosto dall`Eritrea. Poi 1.600 dollari americani per il viaggio nel Sahara dal Sudan alla Libia. E ancora 2.000 dollari per la traversata da Tripoli alla Sicilia. Più altre centinaia di dollari per le estorsioni quotidiane.
Merhawi arriva vivo. Ma dal 28 gennaio al 14 aprile rischia più volte. Durante i giorni di trasferimento da Bengasi, nell`Est, a Tripoli, ottanta suoi compagni di viaggio vengono rapiti da estremisti libici arruolati nello Stato islamico: «Siamo passati dal deserto per evitare i vari fronti di guerra sulla costa», racconta Merhawi: «I colpi dei combattimenti li sentivamo tutti i giorni. Solo che il deserto è il luogo dove si nascondono quelli del Daesh, lo Stato islamico. Si muovono su fuoristrada armati e vanno a cercare i cristiani come me per ammazzarli. Da quando hanno sgozzato i venti ortodossi egiziani, tutti hanno paura. Noi cristiani però siamo stati salvati dai trafficanti libici. Nel cassone del pick-up hanno messo al centro noi eritrei e tutt`intorno i somali, che sono musulmani. Così quando ci hanno fermati i combattenti del Daesh, hanno interrogato i somali. Come preghi? Quante volte preghi? Quali sono gli obblighi di un musulmano? Fanno domande. I somali hanno risposto bene. Ci hanno lasciati andare».
Nei giorni in attesa dell`imbarco, alcuni compagni di viaggio restano feriti di rimbalzo dai colpi di mitra sparati dai trafficanti per gioco. Mirano ad altezza d`uomo contro il muro del capannone dove si ritrovano tutti imprigionati. È una fabbrica per l`inscatolamento del pesce nel porto di Tripoli, vicina alle banchine e ai barconi: «La fabbrica è ferma, ma ci sono ancora i barattoli da riempire. Eravamo milleseicento », continua Merhawi, «tutti eritrei, gestiti da quattro > organizzazioni diverse. In un deposito accanto c`erano quattrocento somali. Mangiavamo una volta al giorno, un piatto di pasta». Altri cinque profughi cristiani vengono rapiti dagli islamisti a Bengasi e 90 a Tripoli. Eritrei e alcuni etiopi. Tra loro, dieci ragazze. Li hanno scelti perché i tagliagole sanno che in patria hanno ricevuto un buon addestramento militare. La storia si ripete: li mandano in prima linea, come gli occupanti italiani facevano con gli ascari, i loro nonni. Ma oggi quei ragazzi devono nascondere la croce tatuata sui polsi, le ragazze sulla fronte. O accettano, o muoiono. I ventotto cristiani copti etiopi che appaiono nel video diffuso su Internet il 19 aprile li hanno decapitati per la loro fermezza: non hanno rinnegato la religione.
Gli eritrei, con etiopi e siriani, stanno pagando il prezzo più alto. Un viaggio nel terrore al costo complessivo di settemila euro per la famiglia di Merhawi e di svariati miliardi di euro in pattugliamenti, operazioni si soccorso, centri di accoglienza e misure di emergenza per glì Stati europei. Un volo via Cairo da Asmara a Roma (ma potrebbe essere qualunque altra capitale europea) costa appena 515 euro sul sito di Egyptair. E avrebbe dato a Merhawi la possibilità di risparmiare 6.485 euro. Abbastanza per versare la cauzione richiesta all`eventuale domanda di visto all`ambasciata italiana. Ovvero la spesa equivalente a ben 231 giorni di accoglienza nel Centro per richiedenti asilo di Mineo in Sicilia (a carico però della famiglia di Merhawi, non dello Stato italiano).
Un liceale come Merhawi comunque non avrebbe mai ottenuto il visto da nessuna ambasciata europea. E nemmeno il permesso di espatrio dal regime eritreo. L`origine del problema infatti non sono i trafficanti libici: Merhawi, e migliaia come lui, è finito in Libia per le angherie del regime in Eritrea e per l`impossibilità di ottenere un visto per l`Europa. Bombardare i barconi sulle coste libiche come vorrebbero ora i governi riuniti a Bruxelles, Italia in testa, aiuta forse a eludere la questione per qualche settimana. Sicuramente non a risolverla. Certo, non è semplice cambiare prospettiva. Isaias Afewerki, il presidente a vita dell`Eritrea, è un vecchio amico dell`Italia. I ministri del suo regime sono stati dí grande aiuto anche nel raccogliere voti in Africa per la candidatura di Milano all`Expo 2015. Ma si potrebbe continuare con i rapporti tra il Niger e la Francia per l`estrazione dell`uranio nel Sahara. Oppure tra la corruzione in Nigeria e le multinazionali petrolifere. Il giorno in cui l`allora ministro dell`Interno, Roberto Maroni, va a discutere un piano di controllo dell`immigrazione in Niger, il grande Paese a Sud della Libia, il presidente Mamadou Tandja gli risponde con una metafora: «Quando si uccide una capra, se si parte con la carne, le ossa, la pelle e anche il sangue, le mosche vengono dietro. Se invece si lascia qualcosa qui, anche le mosche restano qui». Più o meno negli stessi mesi, Tandja apre ad altri Paesi offrendo nuove concessioni minerarie. La Francia, con la collaborazione di Gheddafi, gli scatena contro una guerra civile. Nel 2010 Tandja viene deposto da un golpe. Nel 2011 Tripoli è attaccata da una coalizione guidata dai francesi. E anche per Gheddafi, in grado di ricattare Parigi, è la fine.
Il risultato della destabilizzazione si è esteso a Sud del Sahara. Gli estremisti islamici di Boko Haram conquistano consensi a colpi di stragi e rapimenti. Migliaia di nuovi profughi, sia musulmani sia cristiani, vanno a cercare riparo altrove. E finiscono nelle grinfie di criminali come Mohamed. Il giro d`affari merita un calcolo. I 7.000 euro di spese della famiglia di Merhawi moltiplicati per i 170.000 mila profughi come lui sbarcati nel 2014 fanno un ricavo mostruoso per i trafficanti: un miliardo e 190 milioni in un solo anno. Molto più dell`impegno annuale per l`accoglienza stanziato dal governo italiano, che dal 2011 al 2014 ha consumato 2,2 miliardi.
Togliere questo capitale dalla circolazione con operazioni umanitarie «a monte» e trasferirlo su percorsi legali contribuirebbe a spegnere ì finanziamenti per l`assurda guerra civile libica. È questo il senso dell`appello rivolto a papa Francesco, che l`avvocato Ballerini e la rete di assistenza ai profughi in cui opera rinnovano: «Affinché la Santa Sede, attraverso le sue Nunziature apostoliche in Africa e in Medio Oriente, possa concedere visti umanitari di ingresso alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli uomini», spiega Alessandra Ballerini: «Le missioni diplomatiche che rappresentano la Santa Sede nel mondo potrebbero fare ciò che le ambasciate degli Stati europei negano: garantire che le persone possano raggiungere l`Europa su mezzi di trasporto legali e sicuri». Un visto del papa in nome del Vangelo: un`azione non solo simbolica, che spinga i governi a seguire l`esempio. Quando il Vaticano riceve la proposta, i morti in mare dall`inizio del 2014 sono già tremila. «Vi è stata dedicata attenzione ancora recentemente», risponde in gennaio a "l`Espresso" padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede: «Del resto i problemi dei migranti e dei profughi stanno a cuore al papa. Purtroppo la conclusione è che non si vede possibile procedere per la via suggerita». Forse, con altri milleduecento annegati in sei giorni e una guerra alle porte, l`appello merita ancora attenzione.
Mohamed, il boss dei boss di Tripoli, intanto incassa. Al telefono dice che ci sono barche in partenza mercoledì 22 aprile, giovedì 23 e venerdì 24. Da Tripoli alla città di Al Zuwara, non lontano dal confine tunisino, è ben conosciuto.
Un po` perché gli manca un braccio, portato via da una bomba. Un po` perché lui e suo fratello Khaled hanno organizzato il viaggio della strage dell`i 1 ottobre 2013. Una notte d`inferno. Le raffiche di mitra sparate da una motovedetta libica, forse perché Mohamed non ha pagato la tangente. I profughi feriti, lo scafo perforato dai proiettili. Il rimpallo di responsabilità tra i soccorsi italiani e maltesi, sette ore di inutile attesa. Il peschereccio pieno di bambini si rovescia alle cinque della sera. Quando alcuni papà sopravvissuti richiamano Mohamed e Khaled, la loro risposta è bestiale: «Gli asini siete voi, che avete messo i vostri bimbi sulla barca».
Adesso Mohamed risponde con calma. Non sa che sta parlando con un`interprete che in arabo finge di chiedere sette posti per l`Italia. Sono le 17.24 di lunedì 20 aprile. Stesso numero. Chiamo da Milano, sei Mohamed? Stessa voce del 2013: «Sì, prego». Come stai? «Grazie a Dio sto bene», replica lui: «Cosa vuoi?». Abbiamo persone a Tripoli che vogliono venire ín Italia e vogliono sapere se ci sono navi che partono. Mohamed: «Vogliono partire?». Sì, vogliono partire. «Non ci sono problemi, marna», dice sentendo la voce femminile: «Di` loro di chiamarmi. Poi spiego loro le cose da fare». Sono tre eritrei e quattro siriani. «Sette», riassume lui: «Dove si trovano?». Voglio pagare io per i ragazzi. «Cosa hai detto?». C`è la possibilità di mandare soldi? «Adesso non si parla di pagare. Ma va bene. Questi ragazzi se sono pronti e tu mandi i soldi, se sono pronti io cí sono. Possono partire. Che mi chiamino. Tutto andrà bene». C`è una barca domani, dopodomani o fino a venerdì? «Sì, non ci sono problemi, ci sono». Dirò loro di chiamarti, poi ti chiamo anch`io. «Mashi», va bene, ripete Mohamed: «Digli di chiamarmi, le barche cí sono».



Yossef 22 anni, eritreo: "Io prigioniero in Libia, senza speranze, pronto a partire a ogni costo"
Il dialogo raccolto e diffuso da Save The Children in Libia. A parlare è uno dei prigionieri dei trafficanti che aspetta da mesi di potersi imbarcare verso l'Europa. "Non vediamo la luce... violenze su uomini e donne, poco cibo, solo maccheroni"
la Repubblica, 24-04-2015
ROMA - Yosef ha 22 anni, è originario dell'Eritrea. È stato in Libia per sette mesi ed è uno degli 86 migranti chiusi all'interno di una casa in un luogo imprecisato della Libia. Nel gruppo ci sono 37 tra donne e bambini, otto dei quali sono piccolissimi o neonati. Ci sono vari adolescenti non accompagnati. Yosef racconta che durante tutto questo tempo nella casa, quattro donne in stato di gravidanza hanno dato alla luce i propri bambini senza alcun tipo di assistenza o di supporto medico.La casa è gestita da trafficanti che chiedono un affitto a coloro che ne sono ospiti. Quelli che non sono in grado di pagare sono obbligati ad andarsene e di loro non si hanno più notizie.
Ecco la trascrizione della testimonianza di Yosef
"Vi racconto il nostro viaggio dal Sahara fino a dove siamo ora...Abbiamo attraversato avversità e nessuno ha mai visto quello che abbiamo visto noi.  Le donne qui non sono in pericolo a causa degli eritrei, ma lo sono a causa della popolazione locale. Le difficoltà che abbiamo visto in Libia vanno oltre ogni immaginazione. Qui non sono solo le donne ad essere violentate, ma anche gli uomini. Non vediamo la luce del sole. L'unico modo che conoscevamo per capire il tempo che passava era attraverso il richiamo della preghiera nella moschea".
Siete mai usciti?
"Assolutamente no. L'unico modo che avevamo per sapere che cosa stava succedendo è grazie alle persone nuove o a quelli di passaggio per salire sulla barca. Ora sono a Tripoli, nei pressi dell'ambasciata eritrea. Sono stato qui per sette mesi. Qui ci sono in tutto 37 donne e bambini".
Ci altri minori di 18 anni nella casa ti trovi?
Certo, ci sono moltissimi minori di 18 anni. Quelli di cui ti ho parlato sono i bambini che sono accompagnati dalle loro madri. Non c'è cibo, ci sono solo maccheroni. Abbiamo malattie e ferite sulla pelle. Non abbiamo i medicinali. Non c'è possibilità di alcun cambio di vestiti per nessuna delle persone malate. I maccheroni che ci danno da mangiare hanno dentro metallo e pietre. È con questo che vengono nutriti i bambini.
Avete anche assistito ad abusi contro i bambini e le madri?                           
"Naturalmente. Prima ce ne erano molti. Ho visto donne essere violentate davanti ai loro figli, lasciano i loro figli sulla parte superiore della macchina e prendono le madri se vogliono violentarle. Hanno anche messo loro armi da fuoco o esplosivo intorno al collo per spaventarle. Queste madri hanno portato con loro i propri bambini sperando di tenerli in un luogo sicuro e ora li vedono usati. Noi, come i loro connazionali non possiamo fare nulla. Anche se vogliamo ci dicono di non interferire o che se lo facciamo ci uccideranno. Siamo senza speranza. Non possiamo nemmeno contrattare a causa delle difficoltà della lingua".
Avete accesso a cure mediche?
"Assolutamente nulla, non si può lasciare il posto in cui siamo perché poi ci viene chiesto da dove proveniamo e quindi non possiamo lasciare questo posto".
Che cosa puoi dirci dei minori che sono lì con te? Stanno bene?
"Quello che posso dire su di loro è che si stanno prendendo cura di se stessi da soli. Sono trattati come gli adulti. Fanno quello che facciamo noi. In questa casa siamo in 86. Nell'altra sono in 180. Le donne e i bambini non sono separati dagli uomini. Più giù ci sono altre 330 persone. Mia zia mi ha aiutato ad andare dal Sudan alla Libia, ma ora lei dice che non può più aiutarmi oltre, così sono bloccato qui perché non ho nessuno che mi mandi i soldi. Ora ho perso la speranza. So che la mia famiglia non può fare nulla. Sono poveri. Se racconto loro la mia situazione si preoccuperanno, così sono qui da solo. Non sono più in grado di sostenermi e la situazione non cambierà. Sono qui da 7-8 mesi e ormai ho perso la speranza".
Come si viveva in Eritrea?                          
"Avevo perso la speranza anche lì. Ero in servizio militare da 8 anni. Dal dicembre del 2006".
Ti preoccupa fare la traversata?
"Certo che mi preoccupa, ma che cosa vi aspettate che faccia? Questo posto non è un posto dove stare. Quindi si deve prendere quel 50 per cento di possibilità e sapere che le cose accadono e che si potrebbe morire, ma si deve correre questo rischio. Degli uomini con la barba sono venuti e ci hanno detto di separare i cristiani dai musulmani e così siamo stati separati. Ci hanno chiesto cose del Corano e di mostrare segni con le mani per far vedere che siamo musulmani. Così sono state prese 86 persone".



Proibire significa alimentare la clandestinità
La Gazzetta del mezzogiorno, 24-04-2015
Paolo Izzo
Ora che i morti affollano a migliaia il mare su cui la Fortezza Europa è ben arroccata, i Paesi dell`Unione sembrano cominciare a porsi il problema dell`immigrazione, se non altro per una questione estetica. Tuttavia, non riuscendo proprio ad ammettere le proprie responsabilità, individuano il male assoluto negli scafisti-schiavisti che speculano sugli esseri umani, vivi o defunti che arrivino a destinazione. Andrebbe ricordato loro che il proibizionismo ha sempre creato un mondo parallelo di clandestinità e di criminalità: la mafia italoamericana ai tempi dell`alcool proibito, le mammane e i medici senza scrupoli ai tempi dell`aborto clandestino, il narcotraffico ai tempi, ancora attuali, delle droghe illegali. E sovente chi può fugge da dove manca una libertà ed «emigra» per andare a cercarla altrove. Un Paese come il nostro, che per i migranti riuscì a creare dal nulla il reato di «clandestinità», dovrebbe ben saperlo, visto che in casa sua i Radicali lo dicono ossessivamente: proibire significa generare un mercato clandestino illegale e criminale. Anche se la merce, in questo caso, sono gli esseri umani che popolano, da morti, le acque internazionali del Mediterraneo.



«Aveva paura, ucciso a bastonate»
Avvenire, 24-04-2015
Nello Scavo
È stata evitata grazie all’intervento della Guardia costiera l’ennesima tragedia nel Mediterraneo. Intervenendo a 35 miglia dalle coste libiche, è stato possibile portare in salvo gli 84 occupanti di un gommone poi affondato. Intanto dalle testimonianze dei sopravvissuti della tragedia con almeno 800 morti emergono dettagli raccapriccianti. Come la storia di un ragazzo che salito su un gommone non eseguì gli ordini dei trafficanti e per dare l’esempio è stato selvaggiamente ucciso a bastonate e il suo corpo gettato tra le onde.
Dettagli orribili che si aggiungono agli interrogatori dei due presunti scafisti. La procura sta cercando di capire se i due siano stati coinvolti anche nel barbaro omicidio del migrante finito con i bastoni.
«Era lui alla guida»: il siriano Bikhit Mahmud, uno dei due presunti scafisti fermati dalla procura di Catania per il naufragio di sabato scorso, scarica tutte le colpe su quello che i testimoni hanno indicato come il comandante del peschereccio, il tunisino Mohamed Alì Malek. «Eravamo gli unici due a parlare arabo, ma il comandante
mi ha parlato solo due volte», ha detto il 25enne siriano. Sentito in carcere dai pm, il siriano si è tirato fuori da ogni responsabi-lità, diventando di fatto un ulteriore accusatore del tunisino già indicato da almeno cinque testimoni: «Io non c’entro niente - ha ribadito ai magistrati - c’era lui al timone quando il barcone è andato a sbattere contro il mercantile». Accuse che Malek ha tentato di smontare, sostenendo che vi fosse un’altra persona alla guida che però sarebbe morta nel naufragio: spiegazioni che però cozzano con i racconti dei sopravvissuti.
Il tunisino ha però confermato che ci sono state tre collisioni con il mercantile King Jacob prima che il barcone si capovolgesse. «Era notte, il barcone era al buio, c’era tanta concitazione e le persone volevano salire a bordo del mercantile. C’è stato probabilmente un errore umano». Versione alla quale la procura non crede. Tanto da contestare al tunisino anche il sequestro di persona aggravato dalla presenza di minori oltre a quelle di omicidio colposo plurimo, naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

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