Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 febbraio 2011

Indice
08 febbraio 2011
Pagina 2

Alemanno: è vera emergenza, servono fondi e poteri speciali
IL Messaggero, 08-02-2011
GIANNI ALEMANNO
CARO direttore, ho letto il fondo pubblicato dal suo giornale e lo condivido nello spirito e nella forma. Anch'io voglio gridare con voi "mai più", senza darmi pace nel ripensare ai corpi straziati di quei quattro ragazzini. Ma perché tutto questo non sia solo un impegno dettato dall'emozione e dal dolore dobbiamo essere conseguenti senza farci bloccare da ipocrisie e da facili luoghi comuni. Ci sono quattro condizioni che bisogna realizzare perché mai più bambini nella nostra città si trovino a vivere in baracche di plastica pronte a trasformarsi in trappole mortali al minimo incidente.
1 - Portare subito a termine il Piano Nomadi che è stato predisposto dal Prefetto di Roma Commissario per questa emergenza. Questo Piano è stato spesso criticato ed ostacolato perché offriva ai nomadi e ai senza fissa dimora "solo" campi attrezzati fatti di unità abitative prefabbricate. Ma l'alternativa a tutto questo sono gli infernali micro campi abusivi privi di ogni sicurezza, di ogni igiene e di ogni vivibilità.
2 - Abbiamo già chiuso cinque campi tollerati che esistevano da decine di anni e sgomberato 310 accampamenti abusivi, ricollocando 1.200 nomadi nei campi autorizzati che nel frattempo avevamo ristrutturato e ampliato. Questo, però, non basta. Bisogna aprire subito da 3 a 5 nuovi campi autorizzati, superando vincoli burocratici, veti giudiziari e amministrativi, opposizioni preconcette di Amministrazioni locali e di comitati di protesta. Il Prefetto deve avere nuovi poteri speciali e nuovi finanziamenti per portare a termine questo programma entro l'anno. Le aree sono già state individuate e i progetti sono pronti. Occorre però avere l'autorizzazione governativa a superare procedure che rimangono diffìcili ed irte dì ostacoli. Sono i nuovi poteri speciali per il Prefetto che ho invocato già ieri sera e che permetterebbero di completare il Piano Nomadi entro l'anno. Si pensi che il campo de "La Barbuta", in costruzione dal 26 gennaio scorso, ha dovuto attendere, per essere autorizzato, un anno e tre mesi di sondaggi archeologici della Sovrintendenza e tre mesi di contenzioso al Tar cui avevano ricorso privati cittadini e il Comune di Ciampino. E questo è solo uno dei tanti esempi.
3- Per iniziare da domani a chiudere tutti i micro campi che non garantiscono minime condizioni di sicurezza è necessario attivare delle soluzioni di emergenza. Dobbiamo avere l'autorizzazione dalla Protezione civile, requisire caserme dismesse ed altre strutture in disuso ma abitabili e, contemporaneamente, allestire delle tendopoli organizzate e controllate, per offrire dei ricoveri temporanei certamente più sicuri e decorosi delle baracche abusive.
4- È evidente che tutto questo non può bastare se, nel contempo, non si opera complessivamente su tutti gli interventi del Piano Nomadi allestendo i presidi socio educativi dentro i campi autorizzati, offrendo occasioni di formazione e lavoro, assicurando la scolarizzazione dei minori e il loro affido se le famiglie di provenienza non garantiscono la loro effettiva tutela. Ma tutto questo non può essere un motivo per non procedere, subito a chiudere accampamenti abusivi che non offrono nessuna condizione di sicurezza.
Dobbiamo essere consapevoli. dopo la tragedia di domenica sera, che siamo di fronte a una vera emergenza da fronteggiare con la massima mobilitazione di tutte le Istituzioni in un quadro di effettivi interventi di Protezione civile. Chi, di fronte a questo, accampa polemiche, coltiva opposizioni pregiudiziali, si culla nei tanti alibi della "cultura del no" si assume una responsabilità gravissima. Responsabilità che - i cittadini romani ne stiano certi — non mancheremo di denunciare con forza e con rabbia, senza guardare in faccia nessuno.



La rivolta dei "burocrati": Mai ostacolato il Comune"

La Soprintendenza: amministrazione inattiva per 5 mesi
La Stampa, 08-02-2011
RAFFAELLO MASCI
La «burocrazia» non ci sta, e insorge. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, sconvolto per la tragedia dei quattro bambini morti nel campo Rom vicino a Ciampino, se l'era presa -a caldo - contro tutta «la burocrazia» che aveva ostacolato in varia misura (secondo lui, beninteso) l'allestimento di nuovi campi di accoglienza per i nomadi. Sotto gli strali del primo cittadino erano così caduti due soggetti: la soprintendenza ai beni archeologici, rea di aver cercato il pelo nell'uovo e aver così ritardato l'avvio del piano rom nell'area, e il comune di Ciampino che, essendosi appellato al Tar ha messo pastoie ad un progetto che altrimenti sarebbe andato avanti a vele spiegate.
Per tutta la giornata di ieri il ministero dei Beni culturali e la soprintendenza archeologica di Roma hanno osservato un silenzio a dir poco imbarazzante. Si sa solo che la soprintendente Anna Maria Moretti si è recata in mattinata sul campo di scavo prossimo a quello dei nomadi. In serata, poi, è intervenuto il sottosegretario Francesco Giro, grande amico del sindaco Alemanno e che, quindi, ha atteso che sbollissero gli effetti della rabbia e i contro effetti della rèplica, per intervenire, ripristinando - dal suo punto di vista - la verità dei fatti. Dopo aver detto di capire lo stato d'animo del sindaco, Giro ha chiarito che «non vi sono affatto responsabilità da parte delle Soprinten¬denze» e ha poi argomentato questa sua affermazione, raccontando che «il parere di competenza per la realizzazione del campo nomadi era stato rilasciato dopo una complessa istruttoria, iniziata il 18 Maggio 2009 e terminata il 1° Settembre 2010. Da quella data, l'area era assolutamente disponibile e da allora sono trascorsi 5 mesi». Se il comune di Roma voleva agire, dunque, poteva farlo senza ulteriori indugi. Ma c'è un altro fatto grave che, in .questa dinamica, è stato trascurato: «Nel corso dei sondaggi archeologici - ha detto ancora Giro - è emersa la presenza di una discarica abusiva con materiale di qualunque genere e altamente tossico come l'eternit, gestito da una comunità rom che, come provano le molte denunce all'Arma dei Carabinieri, ha minacciato con estrema violenza e aggressività i nostri funzionari». Proprio questa rissosità dei nomadi nei confronti delle forze dell'ordine ha impedito che la soprintendenza lavorasse ancora più speditamente.
Il sottosegretario aggiunge a questo mosaico un'ultima tessera: «Paradosso nel paradosso - dice - accanto alla discarica, c'era anche un'altra comu¬nità di rom senza averne titolo». Ed ecco svelato l'arcano: ci sono stati i sondaggi degli archeologi (che sono co-munque finiti a settembre) ma c'erano anche l'eternit e un'altra comunità abusiva. Questa è tutta l'ostruzione prodotta dalla «burocrazia».
Quanto al comune di Ciampino, se la prende con il sindaco Alemanno e con il suo piano rom, ma poi - passata la fase delle contumelie - entra nel merito: «Il Comune ha l'unica colpa di aver chiesto l'accesso agli atti amministrativi, sia del piano sia degli interventi annunciati per il raddoppio del più abusivo di tutti i campi rom, ovvero quello de La Barbuta posto all'ingresso della nostra città». Il Comune di Ciampino, insomma, ha voluto vederci chiaro, tanto più che sul suo territorio è presente il secondo aeroporto di Roma e che l'area interessata dal campo era attraversata da una falda acquifera. Solo per questo il Comune «ha formulato una richiesta di accesso agli atti amministrativi e, di fronte ai dinieghi del Comune di Roma, del Prefetto e del ministro degli Interni, è stato costretto ad avanzare dei ricorsi al Tar».



«I rom devono avere alloggi stabili e dignitosi»

L'abbraccio di Napolitano ai genitori dei quattro bimbi morti. L'Ue: l'integrazione unica soluzione
il Mattino, 08-02-2011
Claudio Rizza
ROMA. Quattro bambini rom morti bruciati fanno piangere tutti. Ma basta confrontarsi sul "perché" per far venire fuori contraddizioni, pregiudizi, scontri etico-politici, emarginazioni, integrazioni mancate, e tanto della zuppa indigeribile che riscalda questi tempi paurosi e difficili fatta di xenofobia, di odii e di populismi dettati dalle ciniche convenienze elettorali. Dietro la morte dei bimbi c'è l'Europa che trema e si dilania quando Sarkozy, lo scorso settembre, fa cacciare gli zingari-rom rimpatriandoli; c'è la Ue che predica la necessità di sviluppare l'integrazione per non riempire le società di ghetti e di tensioni incontrollabili, alla lunga pericolosissime. E c'è un centrodestra che contesta ed espelle le idee di Fini e della Chiesa, convinto che sulla cittadinanza e il voto agli immigrati bisogna più escludere che includere. È a tutto questo che deve aver pensato il capo dello Stato quando ieri mattina, senza codazzi e pompa magna, niente auto di rappresentanza col tricolore, ha deciso di andare a portare la propria solidarietà ai genitori dei bambini bruciati. Ha avvisato il sindaco Alemanno e, con il segretario generale Marra, Napolitano è arrivato all'Istituto di medicina legale del Policlinico. Venti minuti di colloquio con i familiari e nessuna voglia di passerelle o di dare il là a una strumentalizzazione politica. Se n'è andato muto e solo più tardi ha dato voce alle riflessioni e ai senti-menti: «Una tragedia che pesa dolorosamente su ciascuno di noi e che ci rende ancor più convinti della necessità di non; lasciare esposte a ogni rischio comunità che da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi». Il capo dello Stato mette così il dito nella piaga: tanto è facile piangere per dei bambini, tanto è difficile per i più accettare di avere dei rom come vicini di casa. I rom sono la più grande minoranza etnica del continente europeo. Eppure, come dice l'Europa, l'unica medicina è integrare, saldare, sentirsi solidali. «Le autorità locali e nazionali non possono non sentirsi impegnate ancor più fortemente a dare soluzione a un problema così grave in termini umani e civili», insiste il Colle. «Ai genitori e alla superstite sorella dei 4 bambini Rom orrendamente periti nel rogo del precario rifugio in cui vivevano - scrive la nota quirinalizia - ho voluto esprimere il sentimento di umana solidarietà che con me oggi provano tutti i romani e gli italiani».
Parole assai simili pronuncia Viviane Reding, vice presidente della Commissione europea, responsabile per la Giustizia e protagonista del durissimo
scontro con il presidente francese Sarkozy sulle espulsioni dei Rom dalla Francia, accusata di «discriminazione razziale». Sarkò fu difeso da Berlusconi e Bossi, paladini della linea dura. La commissaria continua a non pensarla come loro: «La tragedia di Roma dimostra che l'integrazione dei Rom deve restare in cima alle priorità dell'agenda politica». «Per la Commissione la questione dei Rom è molto più di una semplice storia estiva. Stiamo lavorando con gli stati membri per migliorare la situazione dei Rom in Europa». La presidenza di turno ungherese ci sta lavorando seriamente e, racconta la Reding, «entro aprile ogni stato membro dovrà presentare la sua strategia sulle tre linee guida principali: educazione, riduzione della povertà ed impiego». La Commissione europea cerca di spingere gli stati membri «a usare i fondi europei».
Grande plauso per le parole di Napolitano, dal presidente Unicef, Spadafora, ai rappresentanti delle istituzioni. Non è mancata la polemica tra maggioranza e opposizione, il sindaco ha accusato la sinistra di non aver fatto nulla, e viceversa. Ma, come dice Pier Ferdinando Casini, «questo è il momento del cordoglio comune dell'intera comunità nazionale. La speculazione di chi è abituato agli sciacallaggi non mi è mai piaciuta, né ieri contro Veltroni né oggi contro Alemanno». «È però anche il momento della riflessione per assumere decisioni conseguenti affinché questi fatti non si verifichino più».



Il padre: «Accoglienza? Non c'è mai stata offerta»

Il Messaggero, 08-02-2011
BEATRICE PICCHI
ROMA - Ogni interrogatorio, ogni racconto della notte del rogo, ogni nuova testimonianza Elena sembra sempre più vecchia, accartocciata sotto uno scialle di lana grossa. Il marito la sorregge, ma non basta, lei piange e si mette la mano sulla bocca per non urlare all'obitorio davanti alle casse chiuse dove lascia i suoi quattro figli. Il presidente della Repubblica le accarezza il viso, le stringe le mani pronunciando parole che la donna non riesce a capire, il presidente dice che questa è una tragedia che pesa su tutti noi, ma ora il dolore è solo per lei e per suo marito Mircea.
«Noi non volevamo vivere in una baracca, voi l'avete vista? -chiede l'uomo di quarant'anni che fa il manovale quando il lavoro lo trova, certo - Non è vero che non abbiamo accettato l'accoglienza. Il Comune e nessun altro ci ha mai proposto questo. Ora vogliamo tornare in Romania per seppellire i nostri figli...». Torneranno nella terra dalla quale sono scappati quasi due anni fa, Elena e Mircea, una terra d ivorata dalla crisi, ancora più che altrove, dove gli stipendi sono stati tagliati del venticinque per cento e «per fare la spesa ti deve indebitare e allora non ti resta che cambiare paese per dare da mangiare ai tuoi figli». E così hanno fatto, tanto lui a tirar su muri e imbiancare pareti ha imparato subito, racconta uno zio che abita a poche centinaia di metri, in un altro campo.
Non volevano finire laggiù Eler na e Mircea, «siamo stati sgomberati più volte», ripete il capofamiglia che solo un anno fa stava in un altro insediamento abusivo alla Caffarel-la, in altre baracche fatte di plastica e lamiere, in mezzo al nulla, lontano da tutti e da tutto.
E così, i figli dell'emarginazione e della povertà, sono finiti in un altro luogo dimenticato da dio, lungo l'Appia, senza luce, né acqua, a tirare sassi ai topi, a riscaldarsi con i bracieri, con i ragazzini sempre più lontani dalla scuola e da un inizio di integrazione. Erano stati altri connazionali a chiamarli e proporgli di andare sull'Appia, fino a quando non si sarebbe trovata un'altra soluzione, una soluzione migliore, «mica chissà che cosa, un locale, un posto sicuro, con le pareti vere, dove stare», raccontano ora gli amici della famiglia di Mircea.
Perché loro c'avevano provato ad avere un'esistenza normale, in una casa normale, insomma come gli altri. Elena,che ha 35 anni, c'aveva provato a stare in un piccolo appartamento in affitto, a Colleferro, ma «eravamo troppi e il proprietario ci ha detto di andare via e siamo arrivati a Roma.
Pensavamo di trovare un aiuto». Ora loro e gli altri cinque figli, si trovano in un centro d'accoglienza del Comune. Sono arrivati nel centro alla periferia nord della città dietro un cancello potretto da guardie giurate con un furgoncino con i vetri oscurati, lo stesso che li ha accompagnati in Questura l'altra notte, la notte del rogo. Agli investigatori della Mobile la donna ha ripetuto come una nenia «sono una buona madre, sono una buona madre, li ho curati, li ho cresciuti, lasciatemi morire con i miei figli. Non volevamo vivere in una baracca, non volevamo...».



Censimenti e ricorsi: gli intoppi al piano sgomberi

Nel 2008 i campi abusivi erano 60, oggi sarebbero oltre 200. E il sindaco accusa Ciampino
Corriere della sera, 08-02-2011
ROMA — È stato, nella campagna elettorale del 2008, il cavallo di battaglia di Gianni Alemanno. Adesso, all’indomani del terribile rogo di via Appia, l’emergenza rom rischia di diventare la sua croce. Tre anni di proclami, annunci, intoppi burocratici. Parole, polemiche e, alla fine, pochi fatti. La «cavalcata» per il Campidoglio È la notte tra il 30 e il 31 ottobre 2007. Giovanna Reggiani, moglie di un maresciallo dell’Aeronautica, viene aggredita e violentata alla stazione di Tor di Quinto: morirà dopo due giorni di coma. Per l’omicidio, il romeno Romulus Mailat, proveniente da un campo abusivo vicino alla stazione, verrà poi condannato all’ergastolo. È l’esplosione del problema rom, cavalcato poi dal Pdl nella campagna elettorale per le comunali del 2008: il mandato di Walter Veltroni, in pratica, finisce con la vicenda Reggiani. Un altro episodio, a pochi giorni dal voto, fa pendere la bilancia a favore di Alemanno, contro Francesco Rutelli: l’aggressione, a La Storta, di una studentessa del Leshoto. Alemanno annuncia: «Chiuderemo tutti i campi abusivi, espelleremo 30 mila immigrati irregolari» . Il censimento e il prefetto rimosso La vicenda rom parte da un censimento. Quello della Croce Rossa, sotto la supervisione del prefetto Carlo Mosca, commissario per l’emergenza nomadi. Il censimento inizia a luglio 2008, dal campo di via Candoni, ma incontra diversi problemi: in un caso, addirittura, volontari e vigili urbani quasi vengono alle mani. Mosca entra in rotta di collisione col ministro dell’Interno Roberto Maroni per la questione delle impronte digitali ai minori: il Viminale vorrebbe prenderle, il prefetto si oppone. «Sto dalla parte dei cittadini» , dice Mosca. Da lì a poco, sarà rimosso. Al suo posto, a novembre del 2008, arriva Giuseppe Pecoraro. Il secondo censimento A gennaio 2009 il nuovo censimento fatto dalla polizia, per assegnare il «Dast» (documento autorizzazione sosta temporanea), dal quale arrivano i primi numeri. I nomadi «ufficiali» a Roma, sono 7.200: oltre 5 mila dalla ex Jugoslavia, 2 mila circa dalla Romania. Gli insediamenti abusivi sono 80, quelli autorizzati o tollerati 21. Anche questo secondo screening non è semplice. Nei campi emerge il fenomeno degli alias, quelli che hanno più di un nome: un modo per depistare i controlli delle forze dell’ordine, quando qualcuno viene fermato per qualche reato. Il record è di una ragazza, che ha collezionato ben 17 alias. Il piano nomadi A maggio del 2009, il prefetto ha individuato in Angelo Scozzafava, direttore del Dipartimento politiche sociali del Comune, il «soggetto attuatore» , si parte col piano nomadi: dall’insediamento di Alemanno è già passato un anno. Nei progetti del Campidoglio e della Prefettura, i nuovi campi dovranno essere 12: 7 fra quelli esistenti (Candoni, Salone, Castel Romano, Cesarina, Gordiani, Camping River, Camping Nomentano), che vanno ampliati e ristrutturati. Tre quelli nuovi: uno è La Barbuta, le altre due aree sono in XVI Municipio e in XIX Municipio. Altri due campi saranno «di transito» . Ma ora emergono dissapori anche nel centrodestra: «La soluzione al problema nomadi resta distante» , ha detto ieri il deputato pdl Fabio Rampelli. Gli intoppi burocratici Il sindaco se l’è presa con la «maledetta burocrazia» . E con la Soprintendenza per La Barbuta. Il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro replica: «Spiace leggere certe dichiarazioni. Le nostre indagini sono durate da maggio 2009 a settembre 2010, ma è stata trovata una discarica abusiva con eternit, e i nostri funzionari sono stati minacciati da una comunità rom. Questo ha ritardato i lavori, ma da quando l’area era disponibile sono passati altri cinque mesi» . A primavera del 2009 è partito il bando per trovare le aree per i nuovi campi. A giugno sono arrivate le offerte dei privati: su dieci, due sono state ritenute «non idonee» . Su La Barbuta, il Comune di Ciampino (La Barbuta è nel territorio del Comune di Roma, ma è limitrofa all’aeroporto) ha presentato quattro ricorsi al Tar, tutti respinti. Poi è partita la conferenza dei servizi, durata 45 giorni. Alla fine, l’area è stata assegnata ad una ditta privata e i lavori sono partiti. Ora si comincia con le altre due aree, dove i tempi dovrebbero essere più brevi: i terreni individuati non sono soggetti a vincoli. Gli sgomberi L’amministrazione ci mette un anno e mezzo a segnare un punto: la chiusura del Casilino 900, il campo nomadi più grande d’Europa, a febbraio 2010. Alemanno esulta: «Per Roma è un giorno storico» , il suo commento. A luglio tocca al campo di La Martora e ora il sindaco dice: «Sgomberati anche Casilino 700, via Morselli, via degli Angeli e La Rustica» . In via Morselli, alla Magliana, i nomadi sono tornati. Ma le operazioni sono lente, e difficili: spesso i vigili trovano le baracche già vuote. E i nomadi, nella stragrande maggioranza dei casi, non accettano l’assistenza comunale. Alemanno, nel frattempo, viene preso da altri progetti: quello (tramontato) sulla Formula Uno, le Olimpiadi, la demolizione di Tor Bella Monaca, gli Stati generali della città. Le emergenze dei campi restano: da chiudere, ancora, ci sono via del Baiardo, Tor di Quinto, Foro Italico, via della Monachina, Tor de’ Cenci. I soldi spesi e da spendere Alemanno ha chiesto altri 30 milioni al ministero degli Interni: «10 per un terzo campo, il resto per ristrutturare i vecchi insediamenti, garantire l’assistenza e smantellare i 310 microcampi abusivi» , dice il sindaco. Finora, dal governo sono arrivati 33 milioni: 20 sono stati spesi per l’ampliamento dei campi, le bonifiche, il pagamento del personale, la vigilanza. Gli altri 13 serviranno per realizzare il campo di La Barbuta. La capitale dei microcampi Il Pd denuncia: «I mini insediamenti abusivi sono aumentati di 150-170 unità» . Secondo un documento del Comune, a dicembre del 2008 erano 60. Secondo l’ultima rilevazione della Municipale, sarebbero diventati 209. La situazione è in continuo divenire: i nomadi sgomberati si spostano altrove, tirando su altre baracche. Ma quanti sono i romeni, rom o cittadini della ex Jugoslavia a Roma? Il Campidoglio parla di «2-2.500 persone nei campi abusivi» . L’opposizione arriva fino al doppio. È la guerra dei numeri, che però rende l’idea della confusione sull’emergenza rom. Ernesto Menicucci



IL GIORNO DOPO
Lo squallore nel campo dimenticato
IL Messaggero, 08-02-2011
RAFFAELLA TROILI
NON c'è pietà nel degrado, neanche dopo la morte. Non ci sono pellegrinaggi e lacrime, non c'è decoro, tutto resta com 'era: squallido. Come quelle due gerbere incastrate nella recinzione a pochi metri da due slip da donna. Sono i luoghi "dimenticati da Dio", nel cuore della città. Davanti a un prestigioso circolo del golf, alle spalle delle villette appena costruite, dove le giovani coppie romane mettono su famiglia, e poi vanno a comprare la macchina nel concessionario davanti.
Tor Fiscale. Il giorno dopo il rogo in cui sono morti quattro fratellini. L'andirivieni di rom coi passeggini e i carrelli lungo l'Appia tanto noto nella zona, non c'è oggi.
Oggi gli invisibili sono ancora più invisibili. Sul luogo della tragedia, restano panni bruciati e arro¬tolati, giocattoli di bimbi, la baracca distrutta, una sedia, uno stendino. Una macchinetta abbandonata. E sul muro, come un brutto presagio, una vecchia scritta: "Vietato entrare". Le macchine continuano a sfrecciare, il quartiere Quarto Miglio a sinistra, l'Appio a destra, a pochi chilometri il centro, i negozi, la civiltà.
E questo fazzoletto di degrado e immondizia che ieri c'era uguale ma oggi è sotto i riflettori. Dopo il grosso sgombero del 2005, Tor Fiscale e l'ex deposito Cotral, era tornata agli onori della cronaca per un'importante indagine sulla pedofilia che aveva portato dritto negli insediamenti abusivi che l'assediano. E l'assediano perché quest'area - come le altre intorno - non è stata mai risanata. I residenti, come Francesca Romano, 33 anni, impiegata, ripetono: «E' la cronaca di una tragedia annunciata, vivevano in condizioni penose tra topi e sporcizia». E incalzano: «Negli ultimi tempi questi piccoli bivacchi sono aumentati, questi rom vanno da un insediamento abusivo all'altro, passano da uno sgombero all'altro senza che si offra loro una vera soluzione. Dalla Caffarella a Tor Fiscale e viceversa. Con tanti bimbi al seguito, che usano per l'accattonaggio». Francesca ogni tanto portava qualcosa a quei bambini che vivevano di niente e sono morti come fossero niente, che giocavano nel fango venivano scaldati con bracieri di fortuna, «l'altra sera c'era un odore strano, forse zolfo», dice un altro abitante.
Il giorno dopo nell'ex deposito Cotral ha gli occhi annichiliti e arresi degli uomini e delle donne della municipale e della scientifica. Si guardano attorno desolati, perché tutto parla di morte. La sensazione è che anche a passarci prima del rogo, in questo posto, tutto avrebbe parlato di morte, disperazione, sopravvivenza. «Sono persone che non conosciamo, che vagano per la città, ma non si sono mai rivolti a noi, i figli non andavano nelle nostre scuole», dice l'assessore alle politiche sociali del IX Municipio, Alessandra Sacchi. Vagavano per la capitale, lungo l'Appia Nuova, inerpicandosi sui sentieri che portano dove la vegetazione si fa fitta e abbandonata. Raggiungendo queste poche decine di baracche approssimate, spazi preziosi per i disperati, co¬me lo erano i non lontani archi del Mandrione per chi veniva dal Sud fino agli anni '70, rifugi di fortuna raccontati da Pasolini quando i poveracci erano ancora solo italiani.
Chi non l'ha visti mai? Con i carrelli pieni di scorte d'acqua, le valigie, i passeggini. La mattina si mettevano in marcia, una giornata per sbirciare nei cassonetti della spazzatura, per commettere furtarelli, vivere d'espedienti. Ora mentre aspettano che vengano tutti sgomberati, una famiglia di ac-campati tiene a prendere le distanze: «Loro rom, noi romeni».
Non si dà pace Roberta del comitato di quartiere Tor Fiscale perché «si poteva fare molto, prima e in tempo. Noi, sia come comitato sia come semplici gruppi di cittadini abbiamo fatto una marea di segnalazioni ai vigili, al prefetto, al municipio. Andate a vedere i verbali: è una vita che avvisiamo della presenza di occupazioni abusive, del viavai di persone in questi mini insediamenti. Il Cotral, che è proprietario dell'area, nel 2005. si era impegnato a recintare, bonificare e" vigilare l'area. Ma poi,è rimasto tutto così, abbandonato. Stanotte non si è dormito, per la rabbia».



DIVERSITÀ E INTEGRAZIONE
DUE MONDI E UNA SOLA SPERANZA
CORRADO RUGGERI
Corriere della sera, 08-02-2011
Seduta in terra, un neonato in braccio, l'altra mano tesa a invocare un'elemosina. Ieri alle 14, all'angolo fra via degli Uffici del Vicario e via della Maddalena. Quindici ore dopo il rogo dell'Appia. Anche lei è una ragazzina rom, volto affilato, sguardo spento, aria sofferente e non smaliziata, tanto che di fronte a un sorriso si lascia sfuggire l'età: «Quindici anni. Non ancora». Quel figlio forse è suo, 0 forse no, ma in ogni caso quell'esibizione da bisognosa mendicante è un argo-mento in più per ribadire - cozzando con il politicamente corretto - che loro sono diversi da noi, hanno storia, cultura, modi di vivere differenti.
È qui la chiave del problema rom. Se davvero lo si vuole risolvere, non si può rinunciare a forzare alcune decisioni e costringere questo popolo fiero al rispetto delle nostre regole, per la semplice e unica ragione che è qui che hanno scelto di vivere. La famiglia che domenica ha perso quattro bambini era già stata allontanata da un altro insediamento abusivo, aveva rifiutato un residence e si era sistemata in un spiazzo al riparo di una baracca. Per la sicurezza di un popolo intero, non possiamo più consentirlo.
Deve finire la stagione dei veti, dei no che bloccano tutto, di quella «maledetta burocrazia» capace di paralizzare ogni iniziativa, della bassa politica che
vuole far scambiare un censimento - fatto per sapere quanti sono davvero i rom - con una schedatura razziale. Poteri speciali o meno, bisogna intervenire. Tenendo ben presente un principio. La stagione del multiculturalismo mostra tutti i suoi limiti, e come ha detto coraggiosamente il premier britannico David Cameron «ha fallito». Sono i «nostri» principi che devono essere difesi e ribaditi nel rispetto delle «nostre» règole di vita. Che non prevedono bidonville o campi per uomini, donne e bambini.
Il sindaco Alemanno ha il merito di aver chiuso il Casilino '900, per 30 anni il più grande campo nomadi d'Europa, e di aver affrontato con decisione la questione rom. Altri hanno reso complicata l'ulteriore realizzazione di quel piano. Questi quattro ragazzini morti chiedono di andare avanti. E il presidente Napolitano vuole che si faccia in fretta.



La strage dei fratellini Non tutti possono piangere i bimbi rom

Il Giornale, 08-02-2011
Paolo Granzotto

La colpa di questa "tragedia orribile"? Per i buonisti di professione è del governo e di una società razzista nemica del multiculturalismo. Ma chi rifiuta l'integrazione sono gli zingari che del disprezzo della legge hanno fatto una cultura
La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom. Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo.
In casi simili deve prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -, escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini?
Non è la «maledetta burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio ostacolo all’integrazione.
Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi, regole e consuetudini che non siano le loro.
È evidente che con questi presupposti non dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar) come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento, non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far fronte all’emergenza.
Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della cuccagna.



SENZA REGOLE CE SOLO RAZZISMO

DAVIDE GIAGALONE
Tempo, 06-02-2011
Consentire l'esistenza dei campi nomadi abusivi è da razzisti. C'è stato spiegato mille volte che sono razziste e intolleranti le ruspe che li spianano, invece è vero il contrario.
La cancellazione di questi luoghi d'orrore e miseria viene fermata quando vi si trovano dei bambini. E' l'umanitarismo di chi si scandalizza per quelli che crepano bruciati, mentre lo scandalo e non averli strappati a quella realtà. Questa ennesima tragedia, questo ulteriore sfregio alla nostra pretesa di pensarci civili, deve indurci a deporre l'ipocrisia e ribadire che nulla è più razzista e segregazionista del tollerare la creazione, amministrazione e crescita di cen¬tri abusivi. David Cameron ha parlato del fallimento del multiculturalismo, sostenendo cose che scriviamo da tempo. Non è il fallimento della convivenza fra uomini, etnie, culture e reli-gioni diverse, perché, al contrario, quella convivenza è il succo della nostra stessa storia, la sostanza della nostra società e la ricchezza del nostro futuro. Il nostro Stato, lo Stato laico, è una forma istituzionale superiore alle altre (sì, superiore) proprio perché basata sulla pacifica e rispettosa convivenza fra diversi. Il che non solo non consente, ma esclude che, in nome di pretese "diversità", a qualcuno non si applichino le regole che valgono per tutti. Da noi ci si può sposare in comune, in chiesa, in sinagoga, in moschea, dove ci pare e ci si può non sposare, ma se un padre pre-tende di scegliere il marito della figlia, e se vuol farsi valere con la forza, lo arre-stiamo. Se qualcuno infibula le bambine non ci fermiamo davanti alla "diversità culturale", ma comminiamo anni di giustissima galera. Se a un romano affibbiamo una multa per divieto di sosta non consentiamo poi che intere aree siano abusivamente occupate da extracomunitari. L'idea che possano esistere pesi e misure diverse, a seconda del ceppo etnico e religioso degli interessati, è razzismo. Razzista, tanto per capirsi, è chi si sente tanto civile e antirazzista dall'appoggiare e sfilare accanto al negro in quanto negro, al rom in quanto rom, e così via. Chiaro? C'è, poi, un altro tema generale, che quei corpicini carbonizzati rabbiosamente pongono: la chiusura di quel campo era già stata decisa, ma non at¬tuata perché l'allestimento del nuovo è in ritardo, dati i vari ricorsi al tribunale amministrativo e il fermo imposto dalla sovrintendenza. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto che chiederà a gran voce, assieme al prefetto, i pieni poteri in materia. Non saprei dar consigli sul tono da utilizzarsi, ma mi sem¬brerebbe largamente proporzionato avvertire che se la faccenda non si risolve immediatamente le sue dimissioni sono da considerarsi date e non revocabili. Non è una questione di maggioranza, di assessorati o di quattrini, non è roba da cucina partitica, ma il frutto di una semplice constatazione: se il sindaco (in questo caso) non può fare quel che è scritto nel suo programma elettorale, se l'impedimento è dato da Una legislazione e amministrazione concepite per non fare un bel niente, ne deriva che sono stati presi in giro gli elettori e i cittadini tutti. Il che non è in nessun modo ammissibile. Non c'è un solo cittadino "normale" che s'appassioni al federalismo delle impotenze, non uno che valuti i propri amministratori leggendo delibere e carte bollate. Valgono i risultati. Al sindaco di Roma, quindi, si offre oggi la possibilità di lottare e vincere su due fronti giusti, facendo valere principi generali di civiltà. Non la sprechi, mano a mano che il puzzo di quelle carni bruciate andrà disperdendosi nel vuoto delle coscienze distratte.



I 4 bimbi rom morti Alemanno chiede poteri speciali

Avvenire, 08-02-2011
Luca Liverani
La tragedia dei quattro bimbi rom morti domenica sera nell'incendio della loro baracca sull'Appia, a Roma, è parte di "una vera emergenza" che va fronteggiata "con la massima mobilitazione di tutte le istituzioni in un quandro di effettivi interventi di Protezione civile". Lo dice Gianni Alemanno, sindaco della Capitale. Occorre "portare a termine il piano nomadi predisposto dal Prefetto di Roma", un piano - ricorda - "spesso ostacolato perchè offriva ai nomadi e ai senza fissa dimora 'solò campi attrezzati fatti di unità abitative prefabbricate", ma "l'alternativa sono gli infernali micro campi abusivi privi di ogni sicurezza". In secondo luogo, superata la chiusura dei campi abusivi, occorre "aprire subito da 3 a 5 nuovi campi autorizzati, superando vincoli burocratici, veti giudiziari e amministrativi, opposizioni preconcette di Amministrazioni locali e di comitati di protesta". al Prefetto, ribadisce Alemanno, servono "nuovi poteri speciali" e soprattutto "nuovi finanziamenti per portare a termine questo programma entro l'anno". Per chiudere i micro campi, inoltre, il sindaco chiede l'attivazione di "soluzioni di emergenza" con l'autorizzazione della Protezione civile per "requisire caserme dismesse ed altre strutture in disuso ma abitabili e allestire tendopoli organizzate e controllate". Infine il primo cittadino di Roma sottolinea la necessità di allestire "presidi socio educativi dentro i campi autorizzati, offrendo occasioni di formazione e lavoro, assicurando la scolarizzazione dei minori e il loro affido se le famiglie di provenienza non garantiscono la loro effettiva tutela".
MORTI CHE GRIDANO
Due gerbere, una rossa e una arancione. Una mano pietosa li ha incastrate nella recinzione del campo dove, domenica notte, un rogo brutale ha strappato a una vita di miseria quattro fratellini. Ora la scientifica raccoglie elementi per capire cosa ha scatenato l’incendio. Un lavoro inutile. Perché le cause della tragedia sono note e hanno un nome preciso: povertà e abbandono. Lo dice con forza il presidente Napolitano, dopo l’incontro con i genitori e la sorellina superstite: queste poche migliaia di persone «da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocati in alloggi stabili e dignitosi». Domani a Roma è lutto cittadino. L’ha voluto il sindaco Alemanno, che ora al governo chiede soldi e poteri perché il suo piano nomadi non è decollato.
La morte di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul, bambini rom romeni di 11, 8, 7 e 3 anni è tragicamente uguale a quella di tanti altri coetanei, arsi vivi nelle baracche per colpa di un braciere, una candela, un filo scoperto. Orrore in fotocopia della strage di Livorno, quando l’11 agosto 2007 morirono nelle fiamme della loro catapecchia Leunuca, Danchiu, Eva e Menji di 6, 8, 11 e 4 anni, tre fratelli e un cugino. Era già successo. E potrà succedere ancora, senza una svolta radicale.
Il micro-accampamento a pochi passi da Via Appia, periferia sud, è stato smantellato. I venti rom sono in una struttura di accoglienza del comune. Il pm Maria Cristina Palaia guida i rilievi della scientifica e dei vigili del fuoco del Nucleo investigativo anticendi. Assieme al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani indagano, per ora contro ignoti, per abbandono di minori. I genitori erano andati a comprare la cena, la sorella grande a prendere l’acqua. Sono stati già interrogati. La procura attende le autopsie.
Prima di finire in quella baracca, la famiglia di Mirca Erdea, il padre dei bambini, abitava in affitto a Colleferro. Poi, racconta, il proprietario li ha mandati via perché troppi. Il lavoro in nero nei cantieri non gli permetteva nulla di più che tuguri. Prima alla Caffarella, poi sull’Appia. «Ci hanno sgomberato più volte – dice – ora vogliamo solo riportare le salme in Romania». Originari del nord della Moldavia, vicino Piatra-Neamt, lì faranno i funerali. Domani, alle 17,30, la Comunità di S.Egidio ricorderà i piccoli in una veglia di preghiera a S.Maria in Trastevere.
Alemanno si dice sconvolto: «Sarà il mio tormento quotidiano». E alza la voce: «Chiederemo al governo 30 milioni per completare il piano nomadi e poteri speciali per il prefetto. Ci serve uno spazio di azione molto più incisivo per superare la cultura di chi dice "non nel mio giardino"». Poi promette lo smantellamento degli altri micro-campi. Alla Protezione civile «chiederemo tendopoli più sicure, controllate e dignitose. E le faremo dove sarà opportuno, non ci saranno presidenti di municipio e comitati civici che tengano».
Particolare attenzione ai minori: «Se le famiglie rifiutano di garantire assistenza adeguata, chiederemo al Tribunale dei minori di darli in affidamento». Disponibile Renata Polverini, governatore del Lazio: «Faremo la nostra parte, condividiamo le parole di Napolitano».
Ma il sindaco è nel mirino. «Da tempo avevamo segnalato al comune le gravi condizioni di vita di questo campo», ricorda sconsolata Susi Fantino (Sel), presidente del IX Municipio (zona Appia). «Nonostante le risorse economiche straordinarie profuse – commenta Vannino Chiti (Pd) – Alemanno ha fallito. Il suo piano da campagna elettorale s’è rivelato inadeguato». L’ex prefetto Achille Serra (Udc) spiega che «l’affido dei rom è irrealizzabile, scappano, nessuna norma consente di trattenerli, preferiscono stare dai genitori, anche coi topi».
E boccia «una politica dell’immigrazione che per acchiappare consensi dice "mandiano via tutti", anche perché il 70% dei rom è italiano». E Arci Solidarietà ricorda «i 30 milioni già spesi e il campionario di incitazioni all’odio dei comitati anti-rom aizzati dalle forze politiche» vicine al sindaco.



Rom, una questione di responsabilità

Corriere dela Sera, 08-02-2011
MAURO MAGATTI

D avanti al laconico ripetersi di notizie terribili che riguardano i campi rom— negli ultimi due anni, ci sono stati almeno 5 casi di incendi di baracche con morti e feriti, senza contare sgomberi e violenze — non ci si può nascondere dietro al dito della fatalità: una sequela così impressionante di incidenti può avvenire solo laddove esiste un terreno di coltura adatto. Al di là dell’emergenza, e persino al di là dell’indignazione, c’è qualche cosa di più profondo che deve essere messo in discussione, perché alla base di questa impressionante sequela di eventi non ci sono semplicemente problemi di inefficienza tecnica o burocratica. Chi sostiene questo, come il sindaco Alemanno, sbaglia. Dietro alla morte dei quattro fratellini rom del campo di Roma sta il fallimento nella costruzione delle condizioni idonee a forme di convivenza civile. Le polemiche pretestuose che su un tema come questo vengono quotidianamente rilanciate paiono fermarsi solo di fronte a 4 corpicini senza vita: come sempre, sono il dolore e la morte a costringerci a prendere atto della realtà che ci pone il problema. In questi frangenti, per un momento almeno, risulta chiaro ciò che non solo il buon senso, ma anche le migliori esperienze straniere suggeriscono: la via da seguire per modificare le condizioni su cui questi incidenti hanno luogo è quella di non tollerare il dato di fatto. Occorre, piuttosto, prendere l’iniziativa e lavorare per definire i termini di uno scambio che, nel rispetto reciproco, punti a fissare diritti e doveri reciproci. La costruzione di condizioni minime (abitative, scolastiche, lavorative) corrispondenti ai nostri criteri di civiltà è ciò che le istituzioni possono mettere in campo; in cambio, la comunità rom (ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche per altre minoranze quali i cinesi o gli arabi fondamentalisti) deve essere chiamata a riconoscere e rispettare una serie di regole che valgono per tutti coloro che vivono all’interno della comunità politica circostante. Il problema è: perché, superata l’indignazione, questa strada viene regolarmente abbandonata? La ragione di fondo sta nel fatto che, per poter sussistere, uno scambio di questo tipo necessita di condizioni pre-istituzionali che lo rendono possibile. Prima di tutto c’è bisogno di fiducia— un bene sistematicamente distrutto dall’uso polemico che in questi anni è stato fatto dell’idea di straniero. Come una profezia che si autoavvera, una volta che vengono distrutte le condizioni di un’intesa, l’altro non può che diventare un problema intrattabile. In secondo luogo, c’è bisogno di comunicazione. Uno scambio di questo tipo deve sempre scontare zone d’ombra e difficoltà, dato che l’alterità reciproca non potrà mai essere superata, pena l’omologazione completa della minoranza alla maggioranza. Ciò comporta una grande flessibilità, che è possibile solo quando si dispone di buoni canali di comunicazione. Condizione, però, del tutto irrealistica quando si ha a che fare con le istituzioni del nostro Paese (basti guardare l’indecoroso palleggio di responsabilità tra chi avrebbe dovuto intervenire in una situazione più volte segnalata). Tutto ciò mi porta ad una conclusione: provare ad affrontare la questione dei campi rom nell’Italia contemporanea significa mettere al lavoro i soggetti che siano in grado di costruire una mediazione tra minoranze marginali, soggetti istituzionali e comunità locali. È curioso che in un Paese che dispone di una società civile intraprendente e qualificata non si riesca a comprendere che la relazione diretta tra le istituzioni e questo tipo di comunità è impraticabile per una serie di ragioni. Non ultima il fatto che le istituzioni si trovano a trattare una materia — quella della irregolarità — che è del tutto estranea alla loro cultura e quindi di principio rifiutata. Riconoscere e introdurre una terza parte mediatrice potrebbe rivelarsi un buon suggerimento e aiutarci nel giro di qualche anno a trovare soluzioni concrete a problemi concreti. Senza limitarci, di fronte alle prossime morti, all’urlo di indignazione, fugace e, come tale, sterile. Preside della Facoltà di Sociologia Università Cattolica di Milano



Benvenuti a Tor di Quinto la Roma degli “invisibili”

Avvenire, 08-02-2011
Giovanni Ruggiero
Ci sono ancora le pozzanghere dell’ultima volta che è piovuto a Roma. C’è il sole, ma non basta ad asciugarle. È un pezzo di terzo mondo a Roma, a Tor di Quinto, tra caserme e circoli di equitazione. Il campo rom – uno di quelli "a rischio" – è qui da più di vent’anni e, a seconda delle circostanze, si gonfia e si sgonfia come un otre. Baracche e misere casupole, coperte con cartoni e teli di plastica, qualche roulotte, panni stesi e i bagni azzurri allineati sul ciglio della strada, qualche macchina di chi è più ricco, che ha anche qualche dente d’oro.
E pensare che dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani per mano di Romulus Mailat (fu nel 2007, proprio in questa zona) tutti dissero: mai più campi abusivi. Qui, tra gli snodi stradali, invece, vivono ancora più di 150 persone. All’origine erano tutti rom della Serbia, molti macedoni e kosovari. Adesso, invece, i romeni sono in maggioranza. Sono i nuovi arrivati: pagano una forma d’affitto ai vecchi abitanti che si ritengono un po’ i proprietari del campo.
Provenivano da Monte Antenne, ma qui sono nate ormai due generazioni: quelle generazioni corte e veloci dei rom che si sposano giovanissimi. Come fece anche Danka Djorgevic. Ha 50 anni, ma gliene dareste molti di più. Danka, capelli come il carbone con appena qualche filo di bianco, ha 9 figli. E i nipoti? «Saranno – dice – una cinquantina». Ci pensa su: «Sì 50. Più o meno siamo lì». Sono tutti nati in Italia. Qualche figlio ha fatto anche il militare, «ma il governo – dice Danka – non ci aiuta per niente. Chiediamo inutilmente un sussidio e una casa».
Inserirsi da qui non è facile. Ecco i suoi ragazzi e quelli degli altri che, armati di buone intenzioni, salgono le scale che li portano sulle strada da dove l’autobus 233 li porta nel cuore di Roma, una città che non li accetta. Qualcuno ce la fa: sua figlia Silvana ha studiato e poi c’è Dilan, uno della "cinquantina", che studia all’Alberghiero con buoni risultati.
Qualcuno, come Danka, è venuto dai Balcani. Tutti gli altri sono nati in Italia, ma pochi hanno i documenti. Johnny Iovanovic ha 18 anni. È nato a Roma e qui è nata anche sua figlia, Tiffany, ma non sono cittadini romani. Suo padre, Billy, ha 35 anni, vende fiori dove può e quando può. «Nessuno – aggiunge – starebbe qui, ancora in questa puzza, con l’acqua razionata e senza elettricità. Anche noi vorremmo una casa. Ma chi ce la dà?». Billy Iovanovic guarda negli occhi fissi ed è capace di amara e feroce ironia: «Hai visto – chiede – i bambini che stanno qui? Li abbiamo rubati tutti». E non sorride. L’amarezza lo trattiene.
Fuori le baracche la gente cucina e il profumo del cibo copre il tanfo che è nell’aria. Fra poco arriveranno con un pulmino i ragazzi della scuola. Ma non a tutti piace stare in classe. Lo sforzo più difficile dell’Arci, che ha avviato qui un programma di scolarizzazione, è proprio quello di vincere i riottosi che sono tanti. Cosa rende così difficile sconfiggere i "terzi mondo" che sono tra le nostre belle case? Il sindaco Alemanno lamenta difficoltà burocratiche e giudiziarie che, ad esempio, hanno impedito la realizzazione di un campo a La Barbuta. Si riferisce, il primo cittadino, ai 5 ricorsi al Tar che ha intentato il comune di Ciampino. In luogo dei campi, però, si comincia da tempo a parlare di vere case che sono il primo gradino dell’integrazione che, comunque, non è immediata. La pensano così all’Opera Nomadi.
Il loro presidente, Massimo Converso, è diretto: «Con i soldi spesi per i campi si sarebbero potute fare delle case vere e proprie. I ministeri che si occupano della questione rom in Italia sono ancora convinti che queste comunità siano quelle che vivono nelle baraccopoli. In realtà la maggioranza vive già in case. Nei campi è rimasta solo una minoranza». Quella che muore. Quella che chiamiamo nomade, ma la parola nomade non piace a don Enrico Feroci, direttore della Caritas romana. Fa credere che i rom vogliano vivere in roulotte. «L’integrazione – dice – passa per una vera casa che rende possibile la scolarizzazione. Ma dei rom dovrebbe occuparsi un’autorità non politica che non deve operare pensando al consenso elettorale. In questo modo è possibile pensare a progetti che non siano semestrali, ma di più lungo respiro: decennali o quindicinali. L’integrazione vuole tempi lunghi».
Le comunità rom sono giovani. Prendete la famiglia Iovanovic: dal nonno alla nipotina, in 35 anni appena. «Occorre – dice, riferendosi proprio ai giovani, Daniela Pompei di Sant’Egidio – una politica fondata sulla continuità: partire dai bambini con tempi necessariamente lunghi che portino all’integrazione mediante la scuola. Bisogna parlare, parlare e parlare. Non solo ai genitori dei piccoli rom, ma anche a quelli degli altri bambini. Va sconfitta la cultura dell’anti-gitanità». Ma pare sia difficile far capire che giovani come Johnny non hanno nessuna necessità di rubare le loro Tiffany ad altri papà.



DOPO LA MORTE DI QUATTRO BAMBINI IN UN CAMPO ROM ABUSIVO
Mercoledì lutto cittadino Napolitano: alloggi stabili ai rom
Riunione d'emergenza in prefettura: via subito ai nuovi sgomberi di microcampi. Il sindaco chiede al governo altri 30 milioni di euro e più poteri per il Piano Nomadi
Corriere della sera, 08-02-2011
Rinaldo Frignani


 


 

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