Servizio civile per tutti, il passo avanti di una comunità

 

Osservatorio Italia-razzismo 4 aprile 2013
Finalmente la discussione sulla partecipazione di persone non italiane al servizio civile sembra essere arrivata ad un punto di svolta.  
Qualche giorno fa, infatti, la Corte d’Appello di Milano ha depositato la sentenza con la quale, lo scorso dicembre, aveva respinto l’appello presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri contro l’ordinanza del gennaio 2012, secondo cui il bando del servizio civile, pubblicato nel 2011, risultava discriminatorio nella parte in cui limitava la partecipazione ai soli cittadini italiani. Il servizio civile, istituito nel 2005, consiste nell’opportunità “messa a disposizione dei giovani dai 18 ai 28 anni di dedicare un anno della propria vita a favore di un impegno solidaristico”.
La controversia sull’argomento era partita dal ricorso contro il bando del servizio civile del 2011 presentato da  Syed Shahzad, un pakistano che, per quel posto, avrebbe voluto concorrere ma che non potè inviare la domanda perché privo della cittadinanza italiana. Il ricorso, sostenuto anche da Asgi e Avvocati per Niente, si basava sul fatto che il requisito della cittadinanza risultava essere discriminatorio nei confronti di quanti avrebbero voluto impiegare il loro tempo in quel tipo di attività volontarie pur non possedendo tale requisito. Il Giudice nel gennaio del 2012  aveva dato ragione ai ricorrenti sostenendo che il termine cittadino doveva essere inteso con riferimento al soggetto appartenente in maniera stabile e regolare alla “comunità”. A questa definizione non potevano sfuggire, dunque, gli stranieri regolarmente residenti. E nella sentenza, infatti, si legge che il servizio civile nazionale, “dopo la sospensione della leva militare obbligatoria, trova il suo ancoramento nel dovere di solidarietà sociale”, come previsto dall’articolo 2 della Costituzione. A questo punto, la controparte presentò il ricorso (respinto dalla Corte d’Appello di Milano il 20 dicembre 2012) perchè “il dovere di difesa della patria può essere ben adempiuto anche attraverso comportamenti di tipo volontario”. L’argomentazione portata è dunque fondata sul fatto che la “difesa della patria” può anche essere di carattere civile, e non solo militare, e che l’appartenenza alla “patria” stessa prevede il requisito della cittadinanza. Ed è proprio questo il punto su cui, ribaltandolo, fa leva la sentenza della Corte. Essa sostiene che il “servizio civile non è più qualificabile come sostitutivo del servizio militare per gli obiettori di coscienza, una volta che il primo sia stato soppresso” e che le finalità di quell’attività “non si esauriscono nella difesa della patria con mezzi ed attività non militari” ma se ne devono considerare delle altre volte a “favorire la realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale, promuovere la solidarietà e la cooperazione a livello nazionale e internazionale”. Ed è a queste attività di “collaborazione civica” che anche la persona straniera può partecipare, potendo così adempiere al “dovere di solidarietà” previsto dalla nostra Costituzione.  
 
 
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