Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

30 marzo 2015

Banlieue d’Italia
Livorno, Cremona e La Spezia: qui l’integrazione è più difficile
Male anche l’Emilia Romagna «Di fronte ai migranti è chiusa»
Corriere della sera, 30-03-2015
Goffredo Buccini
Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera». Alla faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne. Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo). E hanno infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da mille manine solerti. Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo: «Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo. Città di mare a misura d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio di pesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia. Ecco dunque l’ultima graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo metropolitano miope ed egoista.
Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto. Incrociando indicatori come il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborandone i valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123. Napoli a 76,7. Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3. La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. Il modello emiliano e la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca.
«Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” — spiega Abis — molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
«Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste». Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale). «La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” — sostiene De Masi — nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto».
Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognarsi della loro patria.



Il mondo si incontra alla Magliana, ecco la scuola dell'integrazione
In via Vaiano l'associazione "Insensiverso" organizza corsi di lingua italiana per migranti. E i residenti fanno gli insegnanti volontari
la Repubblica, 30-03-2015
STEFANO PETRELLA

ROMA - "Questa per me non è solo una scuola, è tutta la mia vita in Italia, una nuova famiglia". Mohamed, egiziano 26enne, ancora ringrazia le coincidenze che un anno e mezzo gli hanno fatto conoscere il centro culturale "Insensinverso", l'associazione in via Vaiano 7, nel cuore della Magliana, dove dal 2009, in quello che un tempo era un centro anziani, ora centinaia di migranti imparano l'italiano grazie ai corsi tenuti da volontari d'ogni età.
Quella "speciale disperazione". Ma la scuola con il passare degli anni - l'idea nasce nel 2006 - è diventata soprattutto il punto di riferimento per i migranti dell'intero quadrante sud della città, dei tanti che a Roma arrivano segnati da un "marchio speciale di speciale disperazione", cantava in "Smisurata preghiera" Fabrizio De André, a cui è dedicata la coloratissima piazza a due passi dall'associazione.
I corsi di italiano. "Per loro è importantissimo conoscere l'italiano per rinnovare il permesso di soggiorno - spiega Ugo Sestieri, docente in pensione e fondatore di "Insensinverso" - ma anche per trovare un lavoro onesto e vivere nel nostro paese con dignità". Al momento, divisi in quattro livelli di apprendimento, la scuola ha circa 120 studenti, che in corsi serali affollano le aule dell'associazione. Tantissimi sono bengalesi, ma qui confluiscono tutte le etnie del mondo, dal Medioriente all'America Latina.
Assieme anziani e bambini. Molte mamme portano anche i loro bambini, che possono giocare insieme in una piccola stanza, mentre Michele, anziano della zona, accompagna la propria badante sudamericana Ibelise, che così riesce a seguire le lezioni senza lasciarlo solo. "I quattro livelli di apprendimento - spiega ancora Ugo - ci permettono di accogliere anche chi è appena arrivato, magari analfabeta, per poi condurlo al livello di conoscenza dell'italiano per la sopravvivenza di tutti i giorni, fino al livello richiesto dall'esame per rinnovare i documenti di soggiorno e al livello avanzato".
Il prossimo evento. "Ho scoperto la scuola 4 anni fa grazie al passaparola, perché qui si può imparare l'italiano senza pagare", racconta Bahiga, marocchina 44enne seduta tra i banchi dell'aula di livello avanzato, mentre impara il condizionale, tempo verbale per molti ostico. L'associazione, che organizza i corsi gratuitamente, non riceve nessun tipo di fondo pubblico e si sostiene solo grazie a serate di spettacolo, concerti, proiezioni e cene di autofinanziamento, che coinvolgono tutto il quartiere, attraendo l'attenzione anche degli italiani residenti nella zona. Il prossimo appuntamento è l'8 aprile, con un incontro intitolato "Oltre il Califfato" (ore 18.30), per esplorare le cause del conflitto in Siria e Iraq con gli interventi di giornalisti ed esperti. Tra i contributi, anche quello di Enzo Mangini, direttore dell'Osservatorio Iraq, e del giornalista mediorientale Fouad Roueiha.
Le attività. E chi pensa che le attività di "Insensinverso" siano assimilabili a quelle di una normale scuola di lingue si sbaglia, perché qui non esiste un convenzionale rapporto tra allievi e insegnanti, ma ognuno porta il proprio contributo. E così nascono i corsi di yoga (mercoledì e venerdì alle ore 17), di fotografia (il lunedì alle 17), il laboratorio teatrale multietnico (il giovedì alle 19), i workshop di sceneggiatura cinematografica e di cosmesi naturale, fino ai corsi di arabo (il lunedì alle 19), con gli studenti di italiano che salgono in cattedra per insegnare la propria lingua d'origine ai tanti - italiani e non - che hanno bisogno di impararla.
Catturati dall'amicizia. Insomma, chi scopre la scuola per imparare l'italiano, poi ci resta, catturato dall'amicizia, dai rapporti umani che nascono e dalle tante attività del centro. "Siamo convinti che sia questo il vero modo di fare politica - spiega l'attrice Silvana Mariniello, che tiene il corso di teatro - lontani dai partiti ma vicini alla quotidianità, alle reali problematiche della società in cui viviamo, provando a migliorarla investendo il nostro tempo e le nostre energie".



L’immigrazione la piazza, i nodi
Corriere della sera, 30-03-2015
Massimo Tedeschi
Da più parti, all’indomani di recenti gesta sanguinose del terrorismo islamico, si è invocata una reazione dell’Islam «moderato» di casa nostra, secondo modalità tipiche del nostro mondo: ad esempio con manifestazioni di piazza o cortei che esecrassero attentati, agguati, rapimenti. Nulla di tutto ciò s’è verificato, non - almeno - secondo le attese dei commentatori. In compenso il 28 marzo fedeli musulmani, e immigrati in gran parte di fede islamica, sono scesi in piazza per due iniziative di diverso segno. La prima ha visto alcuni esponenti del Centro culturale islamico schierarsi («a titolo personale», si sono affrettati a precisare) in piazza Paolo VI a fianco delle «Sentinelle in piedi» (nuovo movimento di cattolici conservatori) per dire la propria contrarietà alla legislazione che si va profilando per il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, incluse quelle omosessuali. Una scelta di campo che equivale a voltare le spalle alle ragioni e alla cultura di quella gauche così impegnata a fianco degli immigrati, e a rimarcare la visione islamica della società e della famiglia, e dunque il contributo almeno di una parte del mondo musulmano al dibattito sui diritti civili che ci accompagnerà nei prossimi anni. La seconda iniziativa di piazza, questa invece imponente, è stata la manifestazione degli immigrati che, su iniziativa della Cgil, hanno posto il problema della regolarizzazione vecchia e nuova di migliaia di stranieri residenti a Brescia. Quest’ultima si è svolta, fortunatamente, senza i temuti incidenti, il che costituisce una confortante prova di maturità per gli organizzatori, per i manifestanti, per chi ha gestito l’ordine pubblico. Certo, la conclusione di ieri è giunta dopo una settimana di tensione che lascia il segno, e qualcosa dovrebbe insegnare per il futuro. Il modo ruvido con cui le forze dell’ordine (in contatto costante con la Loggia) hanno impedito nei giorni scorsi l’accesso dei manifestanti a pezzi strategici della città è espressivo di un dato di cui tutti dovrebbero tenere conto: le istituzioni, ma prima ancora la città e il livello di convivenza raggiunto fra italiani e stranieri, non riuscirebbero a reggere - oggi - forme di protesta del passato, siano esse l’occupazione della gru, i bivacchi permanenti o i materassi ammucchiati in strada. Il secondo punto riguarda la «presa» che la protesta ha nel mondo composito e variegato dell’immigrazione: ieri la manifestazione della Camera del lavoro ha coinvolto una platea folta, variegata e pacifica di immigrati.
Non è stato sempre così, in settimana i manifestanti hanno scelto come luogo simbolo della protesta largo Formentone, quasi che il Carmine offrisse alle loro spalle una retrovia fertile di sostegno e di rinforzi. Così non è parso, e l’impressione di un isolamento dei manifestanti permanenti è difficile da cancellare. La sorte capitata ai più agitati di loro (3 immigrati portati al centro di espulsione di Bari, uno accompagnato alla frontiera, uno col foglio di via e un altro arrestato ma rilasciato in attesa di processo) accresce poi la responsabilità morale di chi li ha guidati all’assalto dei caschi blu della polizia. Al netto di tutto ciò, Brescia s’è ritrovata ancora una volta epicentro del problema-immigrazione, mettendo a nudo due questioni. La prima è il numero abnorme di respingimenti nel 2012. Quello della prefettura di Brescia fu rigoroso rispetto delle norme o vendicativo giro di vite? Forse entrambe le cose, a giudicare dalle sentenze del Tar che - come ha accertato il Corriere - sta salomonicamente accogliendo metà dei ricorsi presentati, e bocciando l’altra metà. Ma poi c’è il problema, emergente, degli immigrati che rischiano di finire in clandestinità per effetto della crisi e della fine della durata degli ammortizzatori sociali: un dato umanamente lacerante. Saldare il permesso di soggiorno al reddito e alla disponibilità di un lavoro è cosa ovvia in tempo di espansione economica e crescita occupazionale, ma diviene discrimine spietato quando padri e madri di famiglia presenti in Italia da anni perdono temporaneamente il lavoro nel Paese in cui hanno costruito i loro nuovi progetti di vita, e rischiano di diventare cittadini usa-e-getta. Uno snodo drammatico, che giustamente il sindaco Del Bono ha consegnato nelle mani dei parlamentari bresciani. Tutto ciò, però, ha un effetto distorto e induce a continuare a percepire l’immigrazione - fra sbarchi nel Sud e cortei nel Nord - come un’emergenza anziché come un dato strutturale, come un’eccezione passeggera anziché come una rivoluzione endemica che ha cambiato alla radice la nostra società. Milano ha inaugurato l’altro giorno il museo delle culture. Brescia, delle diverse culture, è crogiolo e frontiera, luogo di confronto e incontro. Il futuro passa di qui. Che ci piaccia oppure no.
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Migranti, si ricomincia da Malta
Avvenire,29-03-2015
Angela Calvini, inviato a Malta
«Nella prima settimana di maggio torneremo in mare per salvare i migranti e raddoppieremo la nostra permanenza, anche perché senza Mare Nostrum pensiamo sia nostro dovere essere più presenti: resteremo operativi fino a fine ottobre, quindi sei mesi contro i tre dell’anno scorso».
Bella, giovane e determinata. Regina Egle Catrambone è l’imprenditrice calabrese che, insieme al marito americano Christopher, l’anno scorso ha creato una piccola ong, ma dal cuore grande, interamente finanziata dalla famiglia che gestisce il Tangiers Group. La Moas (Migrant Offshore Aid Station) è nata con lo scopo di dare un primo soccorso in mare ai profughi e per questo i Catrambone hanno acquistato e approntato una nave di 40 metri, la Phoenix, di stanza a Malta, dove la coppia vive da sette anni.
«Da agosto a ottobre 2014 abbiamo soccorso 3.000 migranti. Questo ci spinge a proseguire e a cercare partner perché il nostro sogno è quello di ampliare la flotta» spiega ad Avvenire Regina, intervenuta al Copeam in occasione della 22esima Conferenza annuale del network di tv euromediterranee conclusasi ieri a Malta. L’imprenditrice racconta come l’idea sia venuta a lei e al marito mentre erano in vacanza in barca a Lampedusa: «Abbiamo visto una giacca persa in mare. Abbiamo capito che anche noi dovevamo fare qualcosa. Poi, come credente, sono rimasta colpita dalle parole di Papa Francesco a Lampedusa, dal suo invito a creare ponti col Sud del Mediterraneo».
Un invito accolto e sostenuto di tasca propria: otto milioni di dollari per acquistare e approntare la nave, dotarla di attrezzature mediche e di uno staff di 20 persone fra equipaggio, medici, ostetriche, soccorritori, cuochi. Oltre all’affitto di due droni di ultima generazione, gli stessi usati dalla Marina Militare italiana.
«Abbiamo investito nelle tecnologie perché sono più veloci dei mezzi via mare, in un quarto d’ora coprono una distanza che noi copriamo in diverse ore. Disponendo di due telecamere, di cui una termica che permette di captare meglio le immagini, possiamo subito renderci conto della situazione e preparare i soccorsi adeguati. Oppure, sulla base delle nostre informazioni, può correre in soccorso qualcuno più vicino». Il tutto in collaborazione con il Centro coordinamento di Roma della Farnesina, cui viene segnalata la posizione nelle acque internazionali, a cui si donano tutte le informazioni e da cui si attendono indicazioni.
Ovviamente tutto questo ha un costo: «Noi non siamo miliardari e abbiamo lanciato un’operazione di crowdfunding sul sito www.moas.eu e su Facebook. Senza droni, abbiamo calcolato una spesa di 250.000 euro al mese, ma sono un mezzo essenziale. L’anno scorso abbiamo speso 800.000 euro per affittarli tre mesi». Sinora i fondi raccolti online sono arrivati a 85.000 euro, cui si aggiungeranno alcuni sponsor privati e a giorni verrà annunciata la collaborazione con una importante ong. Resta da capire cosa succederà ora che l’operazione Mare Nostrum è terminata.
«L’anno scorso, su indicazione del Centro di Coordinamento, portavamo i migranti soccorsi a Pozzallo e Porto Empedocle (ne abbiamo imbarcati fino a 330 per volta), oppure li sbarcavamo sui mercantili più vicini o sulle navi militari italiane. Ora con l’operazione Triton di Frontex non sappiamo cosa succederà. Sarebbe necessario che l’Europa approntasse anche un programma di aiuti umanitari in mare e non solo di difesa dei confini».



Salvini: "Detenuti stranieri in carcere a casa loro"
"Se fossi al posto di Renzi bloccherei subito Mare Nostrum"
stranieriinitalia.it, 30-03-2015
Roma, 30 marzo 2015 - Partendo dall'omicidio di Terni di David Raggi, che per il leader della Lega "grida vendetta", Matteo Salvini ha sostenuto che "c'è troppa gente che non dovrebbe più essere qua e che invece ne combina di tutti i colori, quindi se fossi al posto di Renzi bloccherei subito Mare Nostrum e lavorerei per far scontare a casa loro la pena dei detenuti irregolari e di altre nazionalità.
E' chiaro - ha aggiunto Salvini in Umbria per la fiera dell'agricoltura - che non puoi mettere un poliziotto sotto ogni albero, però la certezza della pena e il blocco dell'invasione clandestina, sarebbero sicuramente due deterrenti importanti".

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