Quando gli altri eravamo noi

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane.
Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina.
Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro.
I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali».

Dalla relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani, Ottobre 1912.

Foto scattate a The Ellis Island Immigration Museum, New York

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando eravamo clandestini
Vittorio Emiliani
È un film drammaticamente attuale ed efficace, anche se un po' “melò”, Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi. Una storia degli anni del dopoguerra quando noi italiani eravamo ancora fra i protagonisti assoluti dell’emigrazione in Europa, nelle Americhe, in Australia. Emigrazione con tanti clandestini. Insomma, i migranti di Rosarno o di Castel Volturno eravamo noi.


 

 

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