Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 maggio 2014

L’importanza di quel portale integrazione per gli stranieri
l'Unità, 15-05-14
Italia-razzismo
Da qualche anno il ministero del Lavoro ha attivato il Portale Integrazione Migranti in cui è disponibile l’elenco dei servizi
attivi sul territorio a favore di persone straniere. L’intento del Portale, infatti, è proprio quello di agevolare l’accesso a tali servizi assicurando una corretta informazione come presupposto per facilitare l’integrazione nella società italiana. Nel Portale ci sono diverse sezioni tematiche: dall’educazione al lavoro, dall’alloggio alle istituzioni territoriali, dai minori alle seconde generazioni. Vengono, inoltre, messe in evidenza le più importanti novità sul piano della normativa, delle iniziative istituzionali e delle attività intraprese a livello nazionale, regionale e locale. Il materiale disponibile nel
sito è tradotto in dieci lingue.
È attiva anche una «Linea Amica Immigrazione» a cui l’operatore, tra le altre cose, risponde a quesiti inerenti alla normativa in materia di immigrazione. Il servizio è composto da un’equipe di operatori specializzati di Front Office che rispondono in italiano, inglese, francese e spagnolo. Quando l’istanza è più complessa, viene trasmessa in tempo reale a un team di esperti che prendono in carico il problema.
Negli ultimi tre mesi a usufruire di questo servizio non sono stati solo gli stranieri. Risulta infatti dalla rielaborazione dei dati raccolti dal ministero che il 48% delle telefonate sia giunta da cittadini italiani, che hanno posto quesiti per conto di un loro familiare o di un loro dipendente immigrato. Il restante 52% è suddiviso per lo più tra persone provenienti da un paese africano, dal Sud America e da uno stato dell’Asia. E le richieste hanno riguardato i permessi di soggiorno (oltre il 48%), la possibilità di studio e di lavoro in Italia (oltre 25%), la cittadinanza (16,07%), il ricongiungimento familiare (8,61%) e il matrimonio (1,32%).
Questi dati confermano l’importanza del servizio messo a disposizione del ministero dettata anche dalla sua versatilità nelle modalità di utilizzo. Il fatto di non limitarsi a dare delle risposte standardizzate a richieste comuni in un’area del sito, è indice del vero interesse a essere un servizio prima di tutto utile all’integrazione delle persone straniere in Italia. Perché questo processo, reso sempre più complicato dalle normative inmateria, per essere realizzato ha bisogno di essere fondato su valide informazioni. Ed è su questo aspetto che dovrebbe basarsi l’accoglienza di persone appena arrivate in Italia: fornire giuste indicazioni su cosa fare e come fare per ottenere un titolo di soggiorno, la tessera sanitaria, un posto in un centro di accoglienza e molto altro. Oltre a questo, però, bisogna che sia garantito un accesso semplice alle procedure da effettuare per vivere in Italia. Un passaggio che sarebbe sicuramente facilitato se venissero apportati dei cambiamenti all’attuale normativa
sull’immigrazione. Senza questo, sarà sicuramente complicato portare a compimento un percorso che si concluda con l’integrazione.



Bloccare all`origine la rotta di Lampedusa
Corriere della sera, 15-05-14
ALDO CAZZULLO
Le drammatiche testimonianze degli uomini dello Stato impegnati nell`operazione Mare Nostrum non possono essere ignorate. I marinai che lunedì scorso hanno salvato 240 naufraghi e recuperato almeno 17 salme - raccontano una situazione insostenibile. Basta ascoltare la denuncia dell`elicotterista Vincenzo Romano, raccolta sul Corriere da Andrea Pasqualetto: «Qui è un inferno, bisogna esserci per rendersene conto. È un inferno di proporzioni enormi che solo chi fa il nostro lavoro può capire».
Non è possibile fare come se tutto questo non stia accadendo. Lampedusa è al centro di una vera e propria crisi internazionale. Che va affrontata e risolta. Invece finora la reazione prevalente è l`ipocrisia. Salviamo i migranti dal mare e lasciamo che spariscano, verso il cuore di un`Europa pilatesca che si disinteressa di quel che avviene nel Canale di Sicilia e nel luogo
dove la crisi ha origine: la sponda africana e mediorientale del Mediterraneo.
Salvare i naufraghi è un dovere. Ma non basta. Bisogna chiudere la rotta di Lampedusa. Invocare la povertà dei migranti non è sufficiente. La carità va sempre praticata. Ma la dignità non è un valore meno importante. Il divario tra Nord e Sud del mondo non si colma salendo su un barcone, mettendo la propria vita e quella dei propri cari nelle mani degli scafisti, cioè di mercanti di carne umana, e affidandosi ai capricci del caso e aí cavilli del diritto, per cui approdare inun lembo di terra vicino alle coste africane dà accesso al mondo che va dalla Sicilia alla Scandinavia.
Un mondo che è certo infinitamente più ricco, ma che in questo momento non ha bisogno di manodopera (anzi ha un eccesso di
manodopera), e che prima rinchiude i disperati in campi strapieni e disumani, per poi destinarli spesso al ruolo di manovali della malavita o del lavoro nero. Non è in discussione il diritto di asilo per i profughi. A maggior ragione peri profughi della guerra siriana, da cui l`Occidente ha distolto gli occhi. Ma la dignità di un profugo non può essere affidata a un mercante di schiavi. I Paesi al confine della Siria, a cominciare dalla Turchia, ospitano già milioni di siriani. Salvare loro
la vita è un dovere della comunità internazionale.
Ma la salvezza non passa dalle carrette che percorrono il Canale di Sicilia. Non si tratta ovviamente di rimpiangere
Gheddafi, e tanto meno i suoi aguzzini, che per anni hanno esercitato sui migranti e sui profughi ruberie e violenze. Ma è chiaro che Frontex, l`impotente agenzia europea che dovrebbe fermare i flussi clandestini, non può prescindere da una politica molto più ambiziosa rivolta a stabilizzare i nuovi governi nordafricani e a costruire con loro partnership e accordi seri. La tragedia che si consuma tra la Libia e Lampedusa è uno dei frutti avvelenati del collasso di Stati - non da ultimo la Somalia
- in cui si sono insediati gli estremisti islamici, che approfittano della debolezza del potere centrale per occupare intere regioni e imporre la propria legge, sollevando ondate di fuggiaschi. Si tratta di una questione epocale, che richiede un impegno lungo e difficile, e _anche un consenso convinto dalle opinioni pubbliche. Oggi questo consenso non c`è.
L`aria tira semmai verso il disimpegno e l`isolazionismo. Le notizie dei morti in mare generano tentativi di strumentalizzazione, che sfruttano da una parte ìl senso di colpa, dall`altra l`indifferenza e l`allarme sociale per l`immigrazione.
Se la lotta per stabilizzare il Sud del Mediterraneo appare oggi difficilissima, da qualche parte bisognerà pur cominciarla. Fermare la rotta di Lampedusa, non sbarrando la porta nell`ultimo miglio ma chiudendola sulle coste da cui parte il traffico di vite umane, è il primo passo. Rimandarlo non è più possibile.



GRAZIE EUROPA
QN, 15-05-14
Giovanni Morandi
DAL MOMENTO che si chiama Mare Nostrum, non dico l`operazione di salvataggio degli immigrati ma il mare, e dal momento che si
chiama Mare Nostrum non perché c`è l`Europa ma perché c`è l`Italia e dal momento che è certo che ci sia l`Italia così come
c`era fin dal tempo in cui decisero di chiamarlo in quel modo mentre non possiamo dire che quel nostrum si riferisse al
resto del continente, faremmo bene a prendere atto che il problema degli immigrati è esattamente quello che
sappiamo cime e. ovvero un problema nostro e solo o almeno in massima parte solo nostro.
Gli altri sanno solo stare a guardare o poco più. E dunque grazie; non importa. Dal momento che l`Italia è certo che
esista, nonostante il parere contrario di qualche valligiano, mentre non altrattanta certezza si possa esprimere a proposito
dell`Europa e dal momento che è invece certo che semmai l`Europa esista vien da pensare che sia solo quella interessata
al denaro non altrettanto alla solidarietà, allora usiamola per quello che fa di tutto per sembrare, uno sportello di
cassa. Ai diritti umani non sembra altrettanto interessata, tant`è che Renzi dice che quest`Europa fa morire donne e bambini. Si faccia avanti chi ha le prove per smentirlo.
E ALLORA poiché esiste questa sola Europa, quella dei bilanci in regola e che preferisce licenziare anziché dare occupazione, allora se esiste solo l`Europa interessata al denaro -`francamente immaginiamo che ce ne sia anche un`altra che rappresenta
un`unità culturale e un modello sociale a cui guarda il mondo ma di questi tempi non fa molto per farsi vedere al punto da
sollevare il sospetto che quest`Europa qui sia morta -, e dunque se esiste solo l`Europa col portafoglio dia prova di esserci anche di fronte ad un problema epocale come quello dell`immigrazione clandestina e metta mano alla carta di credito e ci dia quel che riterrà decente darci e chiudiamola lì, noi non dobbiamo chiedere altro e a tutto il resto ci penseremo da soli, come del resto abbiamo sempre fatto e come sicuramente continueremo a fare. Sull`entità del contributo facciano loro, basti dire che
l`operazione di salvataggio con le navi della marina italiana ci costa 300 mila euro al giorno, qualcosa come 10 milioni al
mese.
NON AVVERTIAMO però la necessito di vedere in quel mare, in (luci tratto del Mediterraneo tra la Sicilia e le coste africane, navi battenti bandiera europea, anzi siamo fermissimamente contrari alle sceneggiate ipocrite che non rappresentino la verità per quella che è, e dunque è bene che quelle navi che navigano da quelle parti alla ricerca di traballanti barconi strapieni di
disperata umanità che giunge dall`Africa continuino ad essere le nostre e continuino ad avere la bandiera italiana. Altro
discorso è l`opportunità che l`Europa si faccia carico di dare asilo a quei naviganti, quest`anno ne sono già arrivati 42 mila, ovvero 1`830 per cento in più dell`anno scorso, anche perché è difficile immaginare possano essere stipati tutti a Lampedusa e dintorni. In conclusione, questa dell`immigrazione clandestina ci pare una buona causa per dare una prova di orgoglio nazionale e a chi sta solo a guardarci diciamo: grazie Europa.



L'immigrazione vista da Bruxelles
Avvenire, 15-05-14
Giorgio Ferrari
?Ci fosse stato Jacques Delors – ci confida un’alta fonte diplomatica a Bruxelles – avrebbe fatto un appello personale a tutti i capi di Stato e di governo e li avrebbe costretti, sì: costretti, a impegnarsi in prima persona di fronte al problema degli sbarchi nel fronte meridionale d’Europa. Ma purtroppo, qui, Delors  non c’è più. Al suo posto c’è una Commissione debole e peraltro lasciata sola dalla politica». Spiegazione più spietatamente esatta della latitanza dell’Europa, della sordità di molti Stati membri, del fastidio con cui taluni Paesi nordici considerano l’allarme che sale dal Mare Nostrum, quasi fosse un problema “di cortile” di cui non si ha tempo né voglia di sentir parlare, non sapremmo trovare.
La tragedia degli sbarchi, la vergogna di quella strage infinita che finora ha lasciato sul fondo del Mediterraneo almeno ventimila anime è un macchia nera nel cuore dell’Unione Europea. E non stiamo gettando la croce addosso alla Commissione Barroso, e nemmeno alla commissaria agli Affari Interni Cecilia Malmström, né addosso a chi ha stabilito – un po’ scelleratamente, invero – che la sede di Frontex (l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri operativa dal 2005) fosse a Varsavia e non in uno dei punti caldi del Mediterraneo, dov’è l’epicentro dell’immigrazione incontrollata e mortale. Ciascuno (Commissione, commissari, agenzia, governo italiano) ha fatto la sua parte e ciascuno ha al tempo stesso la responsabilità di aver fatto poco, soprattutto visto che già nell’ottobre scorso era chiaro a tutti cosa sarebbe accaduto a primavera e cosa sarebbe stato necessario mettere in campo.
Ma al tempo stesso non possiamo accettare che il bollettino di Frontex (che ieri annunciava che nei primi mesi del 2014 c’è stato un aumento del 823% – ottocentoventitré per cento! – di arrivi di migranti verso l’Italia rispetto allo stesso periodo del 2013) si limiti a radiografare l’esistente, né che non gli sia consentita una riserva di fondi extra-budget 2014 (cioè oltre gli 89,19 milioni di euro stanziati) «perché la questione non è prevista dalle procedure».
Perché accade tutto ciò? Essenzialmente per due ragioni: una culturale, l’altra politica. Nella consuetudine dei Paesi nordici l’allarmismo delle nazioni che si affacciano sul Mediterraneo appare quasi sempre ingiustificato, figlio del melodramma, del temperamento latino, del vittimismo greco, iberico, italiano. Peraltro nella percezione nordica il Mare Nostrum non è un’entità dai connotati profondamente radicati nella civiltà continentale come lo è per noi, ma semplicemente – per ridirla con Metternich – «un’espressione geografica». Capofila di questo moralismo sussiegoso e assai poco conciliante è la Germania, forte di un dato numerico inconfutabile, anche se usato in modo farisaico: nel solo 2013 i tedeschi hanno ricevuto 125mila richieste di asilo, la Francia 75mila, la Svezia 54mila, il Regno Unito 30mila e l’Italia “solo” 28mila. I primi tre Paesi da soli – fa sapere la Malmström – ricevono più del 50% di tutte le richieste di asilo in Europa. Di cosa ci lagniamo, si domandano?
Noi invece ci domandiamo se esista ancora la parola solidarietà, sostantivo che si staglia pomposo fra le pieghe del Trattato di Lisbona e nelle varie Carte che ispirano la Ue, ma pare inabissarsi con le migliaia di “senza nome” e senza più patria morti in mare e di fronte alla muraglia di incomprensioni e di rimbalzi vicendevoli di responsabilità in una vergognosa strage di esseri umani e di diritti dell’uomo, come di nuovo, ieri, ha ammonito Papa Francesco.
E qui veniamo al problema politico.
Il capitolo immigrazione fa tremare le cancellerie europee, perché ad esso è legata gran parte della protesta che rischia di addensarsi attorno ai partiti euroscettici. Dunque, meglio parlarne il meno possibile. Né purtroppo, come si diceva all’inizio, esiste oggi in Europa una figura paragonabile a Delors per ispirazione e determinazione: nazioni timorose di perdere potere e sovranità hanno favorito esecutivi deboli e fatto latitare quella guida politica senza la quale nessun Frontex, nessun budget, nessuna agenzia potrà mai funzionare a dovere. E paradossalmente il semestre di presidenza italiana che si apre il 1° luglio rischia di non cambiare granché le cose, visto che saremo costretti a mediare, smussando spigoli e attenuando anche le "nostre" istanze. E, allora, bisogna cominciare a dire che la svolta nella gestione della grande emergenza umanitaria del traffico di essere umani attraverso il Mediterraneo non è affatto una "nostra" istanza. E un duro, amarissimo peso sulla coscienza dell’Unione. Esulla sua non-politica.



«Il barcone affondato dagli scafisti»
Arrestate due persone. L`agenzia Ue: in Italia sbarchi aumentati dell`823%
Corriere della sera, 15-05-14
Andrea Pasqualetto
CATANIA - Prima l`appello di papa Francesco: «Preghiamo per le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo; si mettano al primo posto i diritti umani e si uniscano le forze per prevenire queste stragi vergognose». Poi l`allarme di Frontex, l`agenzia europea per la gestione delle frontiere dell`Unione: «Nei primi quattro mesi del 2014 i migranti verso l`Italia sono aumentati
dell`823% rispetto allo stesso periodo del 2013 (25.650 in Sicilia e 600 fra Puglia e Calabria). È necessaria un`azione immediata», con il seguito di una lettera di 46 deputati italiani (primi firmatari Marco Di Lello e Pia Locatelli) che chiedono
al presidente del parlamento di Bruxelles Martin Schulz di aprire subito una conferenza europea sull`emergenza.
Mentre il premier Renzi attacca la Ue: «L`Europa ci spiega tutto su come si deve pescare il pesce spada, ma gira la testa quando andiamo a soccorrere persone in difficoltà».
Infine l`atto d`accusa e il monito del procuratore capo di Catania, Giuseppe Salvi, che disponendo il fermo dei due presunti scafisti del barcone naufragato lunedì scorso provocando la morte di 17 persone, fra cui 12 donne e due bambine, ha aperto un`indagine senza precedenti ipotizzando un reato che apre sinistri scenari sul futuro dei flussi migratori: «Pensiamo che
abbiano provocato volontariamente l`affondamento della barca. Gli scafisti hanno cambiato mentalità, creano le situazioni
di pericolo per rendere obbligatorio l`intervento dei soccorsi in mare. Se non si agisce sui punti di partenza ci saranno
grossi problemi». Tradotto in codice penale: concorso in omicidio volontario plurimo, naufragio e favoreggiamento dell`immigrazione clandestina.
Secondo quattro testimoni, tre siriani e un marocchino, lunedì scorso gli scafisti avrebbero prima spento il motore del barcone e poi provocato una falla nello scafo. Hanno «deliberatamente determinato un`avaria a seguito della quale l`acqua penetrava nell`imbarcazione fino a provocarne il capovolgimento e il naufragio», scrive il pm nel provvedimento di fermo. «Un`accusa molto grave e tutta da dimostrare - ha replicato l`avvocato Francesco Turrisi che difende i due accusati, il marocchino Hamid
Bouchab e il tunisino Haj Hammouda Radouan, entrambi di 23 anni -. Perché si sarebbero dovuti autoaffondare rischiando di morire? E vero che a volte determinano la rottura del motore per andare alla deriva fino a che vengono soccorsi dalle navi italiane. Ma la falla non è detto cioè che sia volontaria».
Per capire un po` cosa stia succedendo sul Mediterraneo era sufficiente ieri entrare al palazzetto dello sport di Catania, dove sono stati accolti i 206 migranti superstiti della sciagura, e salire un paio di gradoni. Lì c`era la giovane naufraga siriana che ha sorpreso tutti per aver deciso di sfidare il pericolo con un bimbo in grembo. Aveva il volto bianco di crema antiustione, l`abito nero che le copriva i capelli e, più giù, l`anomalo pancione. Era seduta solitaria e diceva «nine»
mostrando le nove dita delle mani.
Nono mese di gravidanza, forse un record per chi affronta deserti, terre, popoli e lingue sconosciute e pure le sinistre acque del Canale di Sicilia che ha la fama di tomba dei fuggitivi. «Voglio andare in Germania», sorrideva mescolando l`inglese all`arabo. Ma perché correre un rischio così alto? «Perché voglio far nascere mio figlio in un Paese dove non c`è la guerra. Anche mio marito è andato via dalla Siria».
Diceva di aver viaggiato da sola. «Yes, alone». E parlava di Libano, di Turchia, di Egitto, di Libia. Ha attraversato le alture siriane, ha raggiunto la Turchia e da lì, in aereo, Il Cairo. Poi il deserto con camion e mezzi di fortuna e infine il Mediterraneo libico. «Viaggio molto lungo», e si accarezzava il grembo. Ha rischiato tutto, anche di far nascere la sua creatura sul rimorchio di un camion o nell`inferno del mare. Ha rischiato di morire con lei, pur di scappare da quella terra. Come un`altra mamma, questa annegata con i suoi due figli, lasciando per sempre i due fratellini che urlavano fra i disperati del barcone.



"Il naufragio è stato voluto" Gli scafisti indagati per omicidio
Secondo i pm i due fermati hanno aperto un falla nella barca per essere soccorsi
La Stampa, 15-05-14
Non è stato un incidente. Ma un naufragio provocato. Un «omicidio volontario plurimo». Questa è l`ipotesi di reato nei confronti dei due scafisti, fermati ieri mattina dagli agenti della squadra mobile di Catania. Sono due ragazzi di 23 anni, un tunisino e un marocchino. Mai visti prima in Italia. «Sconosciuti alle forze dell`ordine». Diversi sopravvissuti li hanno identificati senza incertezze: «Erano loro al timone». Gli investigatori sospettano che abbiano provocato appositamente
l`affondamento del barcone. Prima spegnendo il motore, e quindi le pompe di scarico. Poi, aprendo una falla per accelerare la pratica. Avevano incrociato un mercantile francese. Volevano essere soccorsi. Il panico ha fatto il resto. A bordo c`erano 223 migranti stipati all`inverosimile.
Le condizioni meteo erano buone, ma il barcone si è rovesciato sotto il peso della paura. E tutti gridavano in mezzo al mare. Diciassette persone sono morte annegate, anche un bambino di cinque anni e una bambina di otto. Non è stata una sventura, ma qualcosa di molto più spaventoso. «E l`ipotesi a cui stiamo lavorando», dice il procuratore capo di Catania Giovanni Salvi. «Diverse testimonianze vanno in questa direzione - spiega -. Del resto, è il quadro generale ad essere cambiato. Ormai i trafficanti di uomini organizzano attraversate a basso costo. Gli scafisti non puntano più al viaggio intero. L`obiettivo è farsi soccorrere il prima possibile». Erano ottanta miglia al largo di Lampedusa, quando l`affondamento volontario ha aggiunto 17 morti al tragico bilancio dell`annata 2013-2014. Eccolo: 366 morti il 3 ottobre, 268 morti 1`11 ottobre, 40 morti 1`11 maggio, 17 morti lunedì. E sono sempre cifre imprecise. Mancano i dispersi. Un`ecatombe raccontata per difetto.
Per capire quello che sta succedendo, bastano i dati pubblicati ieri da Frontex, l`agenzia europea per il controllo delle frontiere. Nei primi quattro mesi del 2014, c`è stato un aumento dei flussi verso l`Italia del 823%. Da gennaio a febbraio sono sbarcati 25650 migranti sulle coste siciliane. Altri 660 sono arrivati in Puglia e Calabria. Anche ieri, altri avvistamenti. Altro lavoro per gli equipaggi della Marina Militare, impegnati nell`operazione Mare Nostrum. Ieri Papa Francesco, durante la catechesi dell`udienza generale, ha detto: «Si mettano al primo posto i diritti umani e si uniscano le forze per prevenire queste stragi vergognose». Anche il premier Renzi è stato duro: «L`Europa ci spiega tutto su come si deve pescare il pesce spada, ma gira la testa quando andiamo a soccorrere persone in difficoltà».
L`Italia è sola. A sbarcare salme e scampati. Ieri, qui a Catania, gli operatori sociali hanno dovuto parlare con due bambini eritrei di 8 e 10 anni. Sono fratelli e sanno quello che è successo: «La mamma è morta nel mare - hanno detto - c`erano anche le nostre due sorelle sulla barca. Papà, invece, è rimasto in Eritrea». Non sono soli, come si era pensato in un primo momento. Fra gli scampati c`è anche una zia. Piangendo, ha spiegato: «Volevamo andare tutti insieme in Germania. Volevamo raggiungere dei parenti che lavorano e stanno bene». Tutti sognano di andare oltre l`Italia. Vogliono il Nord Europa.
E questo è un altro problema. Ma adesso è difficile persino ricomporre i lutti. Mancano notizie. Mancano persone all`appello. All`obitorio del cimitero di Catania ci sono diciassette salme.
I bambini morti sono un maschio e una femmina. Hanno età incompatibili. Dove sono, dunque, le due piccole sorelle eritree? I poliziotti scattano foto ai visi dei morti. Hanno bisogno di fare i riconoscimenti. Vanno e vengono con parenti e amici. Qualcuno scoppia a piangere e fa segno di sì con la testa. Altri restano sospesi, senza risposte.



Stupri, frustate e omicidi Già 200 scafisti in cella ma poi la fanno franca
il GiornALE, 15-05-14
Valentina Raffa
Ragusa «Una sera, dopo essere stata costretta a uscire dal capannone in cui tenevano il mio gruppo segregato, mi hanno ripetutamente violentata. Erano in tre». Lascia di stucco il racconto di una giovane appena maggiorenne sopravvissuta al tragico sbarco del 3 ottobre a Lampedusa, in cui persero la vita quasi 400 immigrati. Ecco come gli scafisti trattano gli immigrati che traghettano come bestie da una sponda all'altra del Mediterraneo nelle pause tra una partenza e l'altra: «Mi hanno bloccato le braccia, m'hanno versato in testa della benzina che mi bruciava il cuoio capelluto, il viso, gli occhi. È a quel punto che hanno abusato di me».
Fanos, eritrea, malgrado tutto si sente fortunata. «Una volta rientrò solo una delle due ragazze costrette a uscire per soddisfare i bisogni dei carcerieri». Il libro nero della imprese dei mercanti d'uomini è un racconto dell'orrore: stupri, percosse, torture con scosse elettriche, e poi le privazioni, l'impotenza dinanzi ai soprusi e alle violenze in capannoni che fungono da campi di concentramento prima dell'imbarco. È il volto nascosto dei viaggi della speranza in mano ai «soldati» di gruppi criminali che affermano la loro supremazia sugli immigrati, tra cui donne e bimbi che, di fatto, sono prigionieri.
«Eravamo più di 500 in un capanno. I libici ci picchiavano senza motivo, neanche il più stupido. Sono armati di pistole, bastoni e fucili». Cerca quasi una giustificazione alla violenza un immigrato sudanese che racconta il suo calvario alla Squadra mobile di Ragusa. Gli aguzzini usano a loro piacere i prigionieri prima che il potere passi agli scafisti sui barconi fatiscenti che salpano alla volta dell'Italia. «Partiremo solo quando saremo al completo» hanno intimato i timonieri alle centinaia di immigrati stipati nella stiva del barcone giunto martedì a Pozzallo, dove sono stati rinchiusi per cinque giorni, al buio e nell'aria fetida di respiri, vomito, escrementi e carburante. I due nocchieri devono rispondere anche di sequestro di persona.
«I libici ci picchiavano per farci salire sul gommone. Ricordo un ragazzo colpito al collo e in testa stramazzare al centro del gommone». L'eritreo Mostafa è morto a 25 anni. Lo hanno calpestato i compagni di sventura per trovare posto sul natante, poi sono stati costretti a sedergli sopra. Malgrado il regime di terrore instaurato dagli scafisti, gli immigrati si sono ribellati quando i timonieri volevano gettare il corpo in mare. E ancora, la Squadra mobile di Catania e il Gruppo interforze di contrasto all'immigrazione clandestina di Siracusa ricordano di un giovane morto per le esalazioni di vapori idrocarburi del gommone: «Ho il ventre ustionato dalla benzina di alcuni bidoni», aveva raccontato.
La traversata è terrificante. La paura instillata nei passeggeri previene possibili ribellioni. Le privazioni da acqua e cibo li provano anche psicologicamente. L'aspetto fisico più sano dei traghettatori di vite umane a volte li tradisce con la polizia. Saltano all'occhio i calli, i segni delle cime, il grasso dei motori rappreso sotto le unghie, tipico di chi «vive» in barca. Gli investigatori prestano attenzione all'odore degli sbarcati. Poi ci sono gli sms sui cellulari degli scafisti di avvenute transazioni per il lavoro svolto. Per quei soldi non guardano in faccia a nessuno. «Via», urlavano nella loro lingua ai disperati che non volevano tuffarsi perché non sapevano nuotare. E giù cinghiate fino a liberarsi di tutti. In 13 morirono al Pisciotto, nelle acque di Montalbano. «Ho visto annaspare mio cugino, poi l'ho perso - dice un immigrato -». Pochi giorni fa un barcone si è capovolto a Sud di Lampedusa. Sono 17 i corpi recuperati. I due scafisti arrestati devono rispondere oltre che di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di naufragio e omicidio volontario plurimo.
L'operazione Mare Nostrum avrà salvato 28mila vite, come vanta il governo, ma i morti sono tanti. Le organizzazioni criminali, consapevoli che ci saranno i soccorsi, mettono a disposizione natanti fatiscenti, sovraccaricandoli. E ci sono stragi silenti di cui nessuno è al corrente. Affiorano dalle testimonianze dei clandestini. Si parla di un gommone che prese fuoco mentre era diretto alla nave madre. Degli immigrati soltanto una parte fu tratta in salvo. Poi la nave partì.
Un paio di giorni fa Palazzo Chigi ha tirato le somme dell'operazione «Mare Nostrum». Stando ai dati forniti dal Viminale, negli ultimi 7 mesi 207 sarebbero stati gli scafisti arrestati. Ma quando si va a vedere come sono finiti in passato i processi, ne vien fuori una realtà che fa a pugni con l'ottimismo algebrico del governo.
Esempi: nel maggio del 2012 il Tribunale di Agrigento ha assolto 3 egiziani accusati d'aver sbarcato a Lampedusa, un anno prima, 213 clandestini. Pochi mesi più tardi i giudici agrigentini hanno restituito la libertà a due palestinesi: erano stati fermati al largo delle coste lampedusane, lì dove non arrivava la giurisdizione italiana. E non è che il «tana libera tutti» scatti solo in Sicilia: ad ottobre, per dire, il Tribunale di Bari ha assolto altri 5 egiziani habitués della rotta adriatica per non aver commesso il fatto. Perché in genere non è facile provare che chi stia al timone sia consapevole di stare commettendo un reato, e perché a volte chi punta il dito contro gli scafisti lo fa anche (o solo) per strappare un permesso di soggiorno. E se tra i presunti responsabili qualcuno a processo neppure ci arriva, perché prosciolto al termine delle indagini (come i tunisini che nel gennaio 2009 avevano scaricato 228 migranti a Pozzallo), non manca chi dopo la permanenza in cella decide di farsi risarcire l'ingiusta detenzione, come di recente ha fatto il tunisino Hichem Ben Chalbi, ospite delle patrie galere per più d'un anno.
«Mare Nostrum»? Più che altro, loro. Ad aprile proprio a Pozzallo la Polizia ha arrestato 7 scafisti, mentre il più anziano urlava ai compagni: «State tranquilli, in Italia non ci succederà niente: ci staremo pochi giorni. Poi saremo fuori».



Lampedusa, l`orrore in fondo al mare ecco come muore un migrante
Migranti, le foto mai viste dei morti in fondo al mare
3 ottobre 2013: davanti all`isola annegano 366 persone Il video shock della strage che l`Europa non vuole vedere
la Repubblica, 15-05-14
ATTILIO BOLZONI  
GUARDATE cosa c`è oltre le nostre parole, i nostri articoli, le storie che raccontiamo ogni volta che s`inabissa un barcone. Guardate questi corpi che si abbracciano, in fondo al mare. È tutto quello che resta di loro. Corpi. ,
SU UNO sfondo azzurro, bello, dove intorno sembrano nuotare anche i pesci o forse sono solo piccole boe trascinate giù dalle correnti. Guardate e poi ripensate alle parole: naufragio, migranti, Mediterraneo. Scivolano cosìvelocemente che neanche ce
ne accorgiamo, le ripetiamo o le scriviamo sempre il giorno dopo, un reportage, un titolo, un numero -120, 285, 366 che
riferisce la portata della «tragedia».
È un`altra di quelle parole: tragedia, tragedia del mare. Ci siamo abituati, siamo addestrati a riportare con dovizia di particolari le dinamiche degli affondamenti, ogni dettaglio curioso, ci siamo specializzati nel ricostruirelevite degli altri
che non ci sono più.
Khaled del Marocco che ha perso il figlio al largo di Zarzis, Samir che si è salvato fra Cala Creta e Cala Croce, la ragazza
somala senza nome che ha partorito mentre moriva a poche miglia da Porto Empedocle. È diventata la nostra normalità, siamo noi l`Italia che ha imparato tutto sui migranti che affogano e su come affogano, sappiamo da dove vengono e dove vogliono arrivare, quali sono i loro sogni, cosa hanno lasciato. Sappiamo tutto di loro. In molti proviamo pietà, alcuni provano o dicono di provare fastidio. In molti soffriamo, altri s`incazzano perché sono morti qui, proprio qui da noi, in quell`Italia che non li
vorrebbe mai né vivi e né morti. Politicamente corretti e politicamente scorretti, pregiudizi, ideologie, razzismi, stupidità che diventa malvagità. E c`è chi prega, chi dichiara, c`è chi promette e chi minaccia.
Ma li avete visti, li avete visti davvero questi corpi?
Guardateli da vicino per favore, guardateli e diteci se abbiamo visto bene anche noi, diteci se c`è un uomo che stringe
con le sue braccia una donna, se ci sono due neri stesi sulla sabbia - chissà a quale profondità - che sembrano dormire, se c`è un ragazzo a testa in giù e a piedi in su che cerca disperatamente un appiglio per resistere un altro secondo, se c`è una ragazza che non ha volto ma una cintura che luccica anche in fondo al mare. Sembra in posa, come una modella.
Una modella morta. Non avrei mai immaginato di ritrovarli così, quelli di cui tanto ho scritto in questi ultimi quindici anni senza sapere nulla e tutto di loro, dei loro viaggi, delle loropaure. Non avrei maiimmaginato di ritrovarmeli davanti agli occhi incastrati a prua o a poppa, immobili come manichini, come se stessero ostentando la loro naturale morte. Sì, si può ostentare anche la morte per coloro che sanno di morire, che stanno morendo senza una patria che li ricordi o una famiglia` che li pianga, senza una tomba dove riposare e con le scarpe ai piedi.
È quello che gridano nel loro silenzio gli uomini e le donne di queste foto, è quello che gridano questi corpi. Non l`avrei mai immaginato. Nemmeno quando là domenica del 15 settembre del 2002 stavo su un gommone di fronte alla spiaggia di Realmonte e i sommozzatori sollevavano i cadaveri degli etiopi rimasti intrappolati sul loro barcone, a mezzo miglio dalla costa, davanti allo scoglio degli "ziti", gli innamorati. I cadaveri - erano decine - li vedevo issare a bordo eppure mi sembrava "logico", normale anche quello: erano annegati, morti per asfissia. Un vigile gridava: «Tira, Rosario tira». L`altro tirava e una volta risaliva una ragazzina nuda, un`altra volta un vecchio o un bambino riccio. Più di loro, inanimati, già rigidi, più della loro morte mi aveva colpito cosa custodivano nelle tasche dei giubbotti: bacche. Si nutrivano solo di bacche mentre attraversano il grande mare. Ma non riuscivo a vederli, a immaginarli giù, quando erano ancora sotto. Dove erano morti. Non riuscivo a capire come erano morti e come avevano scelto di morire, in quale posizione, da soli, vicini a qualcuno o lontano da tutti.
Non l`ho immaginato neanche il 4 ottobre scorso, la mattina dopo che avevano trasportato questi stessi corpi che vediamo adesso nelle foto nel grande hangar dell`aeroporto di Lampedusa, una morgue sterminata dove mi sono aggirato come in trance fra bare ancora vuote, teloni rigonfi di cadaveri, necrofori. I morti sembravano manichini che imploravano, che maledivano noi che eravamo ancora vivi. Ogni tanto scorgevo un seno che spuntava da un telone, un gomito, un ginocchio, un piede, una scarpa. Ma non avevo capito nemmeno quella volta. Non avevo capito come si muore in mare. Prima, quando si muore davvero. Quando finisce la vita. Quell`istante.
Delle tragedie, dei naufragi nel "cimitero Mediterraneo" ecco cosa ci consegnano queste fotografie crude della Guardia Costiera: loro, solo loro. Con gli ultimi gesti d`amore o di terrore, con quei fogli che spuntano dai jeans quanti ne abbiamo visti, pieni di numeri di telefono, di nomi, di indirizzi in Germania o in Francia, amici, parenti, passeurs e trafficanti di uomini - con le loro magliette a righe o a torso nudo, con le braccia strette sotto la pancia o allargate a più non posso e le unghie che scavano nella sabbia.
È tutto quello che ci rimane dei migranti che arrivano. Forse intuiamo come hanno voluto morire quando sapevano che sarebbero sicuramente morti, scegliendo un legno al quale aggrapparsi o abbandonandosi sul fondo, tutti in qualche modo composti, dignitosi nell`offrirci la loro fine. Cosa dovremo allora scrivere la prossima volta? Quali parole e quali aggettivi dovremo usare per rappresentare la loro morte? Cosa dovremmo dirci più di quanto questi corpi ci stanno dicendo?
Lampedusa, le immagini in esclusiva del naufragio all'Isola dei Conigli - VIDEO


Majid, una morte silenziosa
Corriere delle migrazione, 11-05-14
Tenda per la Pace e i Diritti
Se ne facciano una ragione i politicanti di verde vestiti, che continuano a propagandarli come hotel a 5 stelle.
Se ne renda conto quella massa acritica che al muro di Gradisca d’Isonzo e agli altri muri d’Italia si è rapidamente abituata.
Di Cie si muore. E il 30 aprile 2014 un ragazzo è morto. Non si è mossa foglia attorno a lui per mesi.
Una parvenza di attenzione suscitò la notizia della sua caduta dal tetto del “mostro di Gradisca”, ad agosto. Era l’8 del mese, una notte d’estate in cui una pioggia di lacrimogeni cadde sui migranti “colpevoli” di voler festeggiare la fine del Ramadan all’aperto.
Furono notti in cui i detenuti salirono sul tetto del Cie per vedere il cielo, sfuggire all’aria impestata dai CS (la sostanza illegale utilizzata per i gas) e gridare ad una cittadina indifferente che non ne potevano più di quell’isolamento. Per un attimo sembrò che le vite dei reclusi senza nome del centro potessero avere un valore mediatico: perché quella notte Majid è caduto dal tetto ed ha battuto la testa.
Per un attimo solo i riflettori si sono accesi sul Cie di Gradisca mostrandolo per quello che è, un luogo di negazione, non solo di diritti ma della vita stessa. Poi però il sipario è velocemente calato.
Calato su quei successivi giorni di caldo e ansia, in cui i compagni di sventura di Majid hanno cercato in ogni modo di rintracciare la sua famiglia in Marocco, perché sembrava che le autorità avessero altro a cui pensare, o forse non era così importante dire ad una madre che suo figlio giaceva in coma in un paese straniero.
Calato sull’ospedale di Cattinara, a Trieste, dove i finalmente rintracciati cugini di Majid, residenti in Italia, hanno cercato di fare visita al loro congiunto e si sono trovati di fronte un muro di burocrazia e negligenza. Perché, disse loro una solerte dottoressa, “dall’ispettore del Cie” arrivava l’ordine di non fare entrare nessuno in quella stanza. Perché i cugini andavano identificati, non fosse mai che due finti cugini cercassero di vedere un ragazzo in coma per chissà quali loschi fini.
Nessuno si curò di renderlo noto, come se fosse normale che la longa manus del Cie arrivasse addirittura fin dentro ad un ospedale, come se Majid fosse un sorvegliato speciale, come se ci fosse un interesse superiore da tutelare nel tenerlo isolato.
Nessuno si curò neanche di facilitare la venuta del fratello di Majid dal Marocco. Perché si sa, quella frontiera che l’Europa difende a costo di migliaia di vite è invalicabile, se non si possiede un visto. E quel visto, ai familiari di Majid in Marocco, nessuno ha pensato di concederlo.
I mesi sono passati, e il silenzio è stato il fedele compagno della lotta di Majid in un letto d’ospedale. Luci spente, perché gli ultimi non saranno mai i primi, non in questa vita.
Nel frattempo, a novembre, dopo manifestazioni, interpellanze, visite di parlamentari, ma soprattutto grazie alle rivolte pagate a caro prezzo, il Cie sospendeva la propria attività. Nella caserma Ugo Polonio, (la struttura in cui è stato realizzato nel 2006) restava funzionante solo il Cara e si parlava con insistenza della chiusura del Cie. In tal senso sembravano improntate le intenzioni delle autorità locali e regionali, in parte dello stesso governo nazionale allora in carica. Ad oggi nulla trapela dalle intenzioni del ministero dell’Interno. La gestione del centro è complessa per le stesse forze dell’ordine, sul capo dell’ente gestore e di quelli che erano al vertice della prefettura preme una indagine per l’utilizzo opaco dei fondi destinati al funzionamento. 13 persone sono indagate in tal senso. Intanto Majid restava aggrappato alle macchine nel suo letto di ospedale, le speranze di sopravvivenza erano pressoché nulle, ma quando si provò a riparlarne sui giornali locali, fra i commenti ci fu anche chi ebbe il coraggio di scrivere che bisognava lasciarlo morire, che quelle macchine dovevano servire per gli italiani, che farlo sopravvivere era un costo inutile per il sistema sanitario. Uno dei volti ripugnanti prodotto da anni di campagne xenofobe.
Sei giorni prima della sua morte, abbiamo chiesto al nuovo Prefetto di Gorizia se un’indagine fosse mai stata aperta su quanto accadde la sera della caduta dal tetto. La risposta, laconica, è stata: “Non mi risulta”. Lo stesso Prefetto non ci ha saputo spiegare come mai la famiglia di Majid sia stata avvisata della morte con una settimana di ritardo e come mai sia stata disposta un’autopsia senza interpellare nessuno dei famigliari.
Abbiamo visto Majid qualche giorno prima che morisse, i suoi occhi guardavano un punto intangibile di uno spazio a noi sconosciuto. Quel ragazzo descritto dai cugini come una forza della natura stava ancora lottando, e sicuramente non ha smesso di farlo fino all’ultimo.
Noi sommessamente abbiamo lottato per lui in questi mesi, ma non è servito a tenerlo in vita.
Continueremo a farlo con ogni mezzo, impedendo la riapertura del centro, mobilitandoci per avere verità e giustizia per Majid anche per vie legali. Il 12 maggio è stato presentato un esposto alla procura della Repubblica di Gorizia per chiedere conto dei maltrattamenti subiti dai cittadini lì detenuti. Il medesimo testo, firmato da attivisti, giuristi, rappresentanti politici e della società civile, assieme alla campagna LasciateCIEntrare, è stato successivamente presentato a Roma.



A Istanbul tra i profughi siriani in fuga
Avvenire, 15-05-14
Ilaria Sesana
Sawsan ha trent’anni anni e un neonato tra le braccia. Con pudore, scosta un lembo della veste e allatta il bambino. Dopo qualche minuto si ricompone e torna a tendere la mano ai passanti e ai turisti diretti verso Istiklal Caddessi, la strada dello shopping e delle vetrine griffate nel cuore di Istanbul. «Veniamo dalla Siria, da Aleppo», spiega la ragazza in un inglese elementare. Accanto a lei siede la nipotina di cinque anni che tiene in mano il passaporto blu della zia per dimostrare che sono veramente profughi in fuga. «Mio marito è morto, gli hanno sparato. Io sono scappata con la famiglia di mia sorella: chiediamo l’elemosina perché non c’è altro che possiamo fare», aggiunge.
Tendere la mano per mendicare è l’ultima delle umiliazioni per una ragazza che, fino a poco tempo fa, aveva un lavoro e poteva andare in vacanza con il marito. Una vita normale che nel giro di poco più di un anno è diventata un vero incubo.
Per incontrare gli occhi di Sawsan, di Hossein, di Mariam e di tanti altri basta distogliere lo sguardo dai monumenti di Istanbul e rivolgerlo verso il basso. Tante le donne sole, tanti i bambini come Mariam, 16 anni, e i suoi cinque fratelli e sorelle. La più piccola, cinque anni appena, tiene tra le mani un cartello: «Siamo siriani scappati dalla guerra. Aiutateci, Dio ve ne renderà merito». Stanno seduti in gruppo all’ingresso del parcheggio degli autobus a Eminonu, vicino all’imbarco dei traghetti che solcano il Bosforo e il Corno d’Oro. Un venditore ambulante regala ai bambini un sorriso e un sacchettino di semi di girasole.
I numeri di un’emergenza
In questi mesi, il numero di profughi siriani che ha trovato accoglienza in Turchia ha quasi raggiunto il milione, mettendo in difficoltà il sistema di accoglienza del governo Erdogan. A fine aprile 2014 erano circa 722mila i rifugiati registrati ufficialmente dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, di cui circa 250mila accolti all’interno dei 22 campi gestiti dall’Afad, ente governativo deputato alla gestione di disastri ed emergenze. «Il problema è che i campi sono ormai saturi», commenta Oyku Tumer, avvocato dell’Helsinki citizen assembly, associazione impegnata per la tutela dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. Ai numeri ufficiali bisogna poi aggiungere quanti non hanno ottemperato alla richiesta del governo di registrarsi presso le autorità.
Inoltre per Ankara i siriani non sono richiedenti asilo ma “ospiti temporanei” la cui accoglienza è basata su tre pilastri: frontiere aperte per agevolare la fuga dalla guerra, il principio del non-respingimento e assistenza sanitaria gratuita. «In teoria questo meccanismo funziona. A differenza degli altri rifugiati, ad esempio, i siriani hanno anche la possibilità di chiedere il permesso di lavoro», aggiunge Nur Ozkut, dell’Helsinki citizen assembly. «Cosa succederà in futuro non lo sappiamo – conclude Oyku Tumer –. Non sappiamo fino a quando il governo potrà mantenere fede alle promesse di accogliere i siriani».
Senza casa e lavoro nero
Chi ha abbastanza soldi, amici o familiari in Turchia riesce ad affittare un appartamento. Spesso a prezzi molto più elevati rispetto a quelli di mercato. Una situazione che sta creando non poche difficoltà, in città come Gaziantiep, Kilis e Salinurfa che hanno accolto dai 20mila ai 50mila profughi ciascuna. Per Istanbul non esistono dati ufficiali, ma si stima che i siriani siano circa 200mila. Ma è difficile individuarli in una megalopoli che conta più di 13 milioni di abitanti.
Nel quartiere di Sulthanameth i turisti affollano Santa Sofia e la Moschea Blu. In una piazzetta, un ragazzo di 25 anni cerca di vendere fazzoletti di carta ai passanti: «Di solito riesco a raccogliere 25-30 lire al giorno, che bastano per dar da mangiare ai miei quattro bambini». L’uomo da circa una settimana vive a Istanbul dove dorme per strada in attesa di trovare un’occupazione che gli permetta di raccogliere abbastanza soldi per pagare il viaggio della speranza alla moglie, che è rimasta ad Aleppo.
Ma trovare un lavoro in regola e adeguatamente remunerato è molto difficile. Una ricerca del “Migration policy centre” di Firenze evidenzia fenomeni di sfruttamento e lavoro nero nell’edilizia, nelle fabbriche e in agricoltura, dove la paga media è 15 lire al giorno, circa 5 euro. Uno sfruttamento incoraggiato dalle stesse autorità che, quando si avvicina la stagione del raccolto, permettono ai profughi di uscire dal campo per andare a lavorare.

 

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