Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

30 maggio 2014

Milano. Sabato 21 giugno - La nostra Europa non ha confini: un treno per violare le frontiere europee
No borders train. Ore 14.00. Da ogni parte d’Italia verso la Stazione Centrale di Milano e poi oltre i confini europei
Melting Pot Europa, 30-05-14
Questa ennesima “emergenza immigrazione”, con migliaia di persone in fuga da guerre e violenze in approdo sulle coste italiane, porta con sé, come sempre, tutto il suo corollario di violazioni, prassi illegittime, deroghe ai diritti, ipocrisie e speculazioni. Accade nel mare del sud, dove ancora si muore, alla faccia di Mare Nostrum, così come alle frontiere interne dell’Europa che ingabbiano migliaia di persone nel primo paese d’approdo, passando per il “piano di accoglienza straordinaria” del governo, una nuova occasione per fare affari sulla pelle dei migranti. Si tratta di uno scenario che il risultato delle recenti elezioni europee rischia solo di aggravare trasformando l’Europa in un vero e proprio campo di battaglia in cui i confini giocano un ruolo determinante.
Chi arriva sulle coste italiane oggi fugge da violenze e persecuzioni. Per questo rivendichiamo la necessità di mettere in campo l’unica soluzione possibile per evitare le morti in mare e la speculazione dei trafficanti: la costruzione di percorsi di arrivo autorizzati e sicuri in Europa. Di fronte a questo le istituzioni europee e quelle nazionali tacciono.
Ma il viaggio in mare non è l’unica occasione in cui i migranti sono costretti a sfidare i confini europei. Perché un’altra odissea inizia una volta raggiunta l’Europa. Per chi rimane, il dispositivo dell’accoglienza messo in campo dal governo non è in grado di garantire null’altro se non mesi di attesa e assistenzialismo speculativo, aggravato dal fatto che ancora una volta sono stati aggirati i circuiti ufficiali dello SPRAR procedendo alla “distribuzione” dei profughi al miglior offerente.
Non è un caso che migliaia di rifugiati abbandonati dalle istituzioni di questo paese siano costretti ad occupare casa come unica possibilità di assicurarsi un tetto, mente il governo, con il decreto Lupi, vorrebbe sottrargli anche il diritto alla residenza ed alle utenze.
Per questo, per costruire e conquistare dal basso i diritti che altri continuano a negare, proponiamo a tutti di dar vita ad una rete di supporto. Una mappa di luoghi e contatti a disposizione di chi si muove per raggiungere altri Stati e di chi rimane e rischia di veder negata la sua domanda d’asilo, o vive in condizioni di accoglienza indegne in attesa di sapere cosa sarà del suo futuro dopo il 30 giugno, data di scadenza delle convenzioni del Ministero con i centri.
Ma oggi la questione dell’asilo e delle migrazioni interroga nell’immediato, come non mai, anche l’Europa, le sue geometrie, gli egoismi degli stati, la nostra possibilità di costruire uno spazio europeo che non sia dominato da austerity, precarietà e esclusioni. Nulla a che vedere con gli schiamazzi del Ministro Alfano che, mentre invoca la revisione di Dublino, continua a respingere verso la Grecia i rifugiati ai porti dell’Adriatico.
Gran parte dei migranti che arrivano in Italia mirano ad andarsene per raggiungere altri paesi. Ma mentre nel Vecchio Continente merci e finanze circolano liberamente, i confini bloccano e dividono, selezionano le persone rivelando tutta la loro ipocrisia.
Così migliaia di “profughi” sono privati del loro diritto di scelta, costretti a rimanere ingabbiati in Italia oppure a pagare profumatamente gli sciacalli che sulle regole dell’Europa stanno facendo fortune.
Il 26 e 27 giugno prossimi il Consiglio europeo si riunirà a Bruxelless per discutere di frontiere, pattugliamenti e nuove regole operative. Negli stessi giorni arriverà nella capitale belga la “Marcia dei rifugiati” a cui parteciperemo insieme a centinaia di migranti ed attivisti da tutta Europa. Poco dopo, l’11 luglio, a Torino, i leader dei paesi europei si ritroveranno a discutere invece di (dis)occupazione giovanile.
Questa agenda ufficiale è anche l’occasione per i movimenti (tutti) di costruire insieme un’ agenda programmatica di lotte e conflitti, di battaglie e percorsi di condivisione, per continuare a tessere le fila di un movimento europeo di trasformazione.
Per questo invitiamo tutti a sfidare i confini dell’Europa insieme ai migranti ed ai rifugiati ingabbiati in questo Paese. Perché quello che sta avvenendo intorno alle frontiere che dividono l’Italia dalla Francia, la Svizzera e l’Austria ha bisogno di una risposta immediata.
Per mettere fine alla violenza ed all’ipocrisia del confine, per sostenere la marcia dei rifugiati, per dare concretezza a quanto affermato nella Carta di Lampedusa, perché le frontiere dell’Europa sono un pezzo della nostra precarietà, tanto più oggi, quando la libertà di movimento è messa in discussione anche per gli stessi cittadini degli Stati membri.
Sosteniamo il no borders train. Per fermare l’ingiustizia dei confini europei
Invitiamo tutti a raggiungere la Stazione Centrale di Milano, il prossimo sabato 21 giugno, alle ore 14.00, con carovane grandi e piccole, per poi partire in treno verso le frontiere europee, e violarle collettivamente, alla luce del sole, in tanti, rivendicando, insieme ai migranti, la nostra EUROPA senza confini.



Istat: immigrati i più colpiti dalla crisi
Cronache di ordinario razzismo, 29-05-14
La crisi aggrava sempre di più la situazione dei cittadini stranieri: lo afferma l’Istat nel suo Rapporto Annuale 2014 sulla Situazione del Paese, presentato oggi.
Con un tasso di disoccupazione del 17,3 per cento (11,5 per cento quello degli italiani), sale il divario tra cittadini di origine straniera e italiani, che se nel 2008 era di due punti nel 2013 è di ben sei.
La comunità che sembra risentire maggiormente di questa situazione è quella marocchina: dal tasso di disoccupazione del 10,7 per cento del 2008 si trova nel 2013 con un indicatore al 27,2 per cento, che arriva addirittura al 38,8 per cento per le donne. Per quella che l’Istat definisce “vulnerabilità occupazionale delle donne marocchine” una grande responsabilità risiede nella mancanza di “sostegni familiari per la cura dei figli”: un aspetto, questo, che evidenzia come ancora oggi in Italia i lavori di cura e assistenza gravino soprattutto sulle reti familiari, piuttosto che su servizi statali di welfare.
La comunità marocchina – insieme a quella albanese – è anche quella con la più grande riduzione del tasso di occupazione, con una flessione di 19 punti e un valore dell’indicatore che si attesta intorno al 60,5 per cento.
Tra le donne scendono soprattutto i tassi di occupazione delle cittadine moldave, filippine e ucraine (con cali rispettivamente di -11,0, -9,3 e -8,5 punti percentuali e valori dell’indicatore pari a 64,8, 78,3 e 68,1).
In generale, tra il 2008 e il 2013 il tasso di occupazione relativo alla popolazione di origine straniera si ̬ ridotto di 9 punti, attestandosi al58,1 per cento. Sul totale dei lavoratori Рitaliani e stranieri Рla riduzione registrata ̬ invece di 3 punti.
I dati relativi agli occupati di origine straniera segnalano una dinamica negativa in tutti gli anni della crisi, con un’accentuazione a partire dal 2012. Tra il 2008 e il 2013 l’indicatore si è ridotto di 14,0 punti per gli uomini e 3,4 punti per le donne (pari al 67,9 per cento e 49,3 per cento).
Per quanto riguarda il ritmo di crescita dell’occupazione straniera, nell’ultimo anno è decisamente rallentato, con un incremento di appena 22 mila unità, esclusivamente femminili. Alla base di questo c’è il fatto che le donne di cittadinanza straniera trovano prevalentemente impiego nell’unico settore che ha conosciuto un incremento occupazionale, ossia i servizi di assistenza e cura alle famiglie.
La situazione è ancora più critica nei casi di famiglie con capofamiglia di cittadinanza straniera: rispetto al 2008 le famiglie straniere senza pensionati e redditi da lavoro sono più che triplicate, passando da 98mila alle 311mila del 2013, che pesano per il 14,9 per cento sul totale delle famiglie – italiane e straniere – che versano in queste condizioni. Nel 2008 il loro peso relativo sul totale era del 7 per cento.
Sul totale delle famiglie straniere con almeno un componente in età lavorativa, la quota di quelle senza redditi da lavoro arriva al 15,5 per cento (era il 7,4 per cento nel 2008): il picco si trova nel Mezzogiorno, dove raggiunge il 27,0 per cento.
Aumentano le famiglie straniere economicamente più deboli, e specularmente si registra un calo di quelle più forti: la quota delle famiglie straniere plurireddito scende dal 29,6 per cento del 2008 al 24,2 per cento del 2013.
I cittadini stranieri seguono la tendenza degli italiani ad avere un unico occupato in famiglia: il 58,7 per cento delle famiglie straniere con almeno un componente in età lavorativa rientra in questo modello. Si registra in questo una differenziazione tra sud e nord Italia: nelle regioni settentrionali la componente femminile sembra compensare la perdita di occupazione degli uomini, visto che, se da una parte si rileva un netto calo delle famiglie sostenute da un unico uomo occupato (dal 44,7 per cento del totale del 2008 al 36,6 per cento del 2013), dall’altra si registra l’incremento di quelle sostenute da una donna (dal 16,3 al 23,0 per cento). La stessa cosa non si può allargare al resto del Paese.



L'Italia? Per gli immigrati è da apartheid
Chi vive e lavora nel nostro Paese, così come i ragazzi della 'seconda generazione', è soggetto a mille limitazioni. Dall'impossibilità di accedere a molti impieghi della PA a quella di partecipare ai concorsi. Per non parlare della tutela sul lavoro o del diritto di sciopero. O persino della possibilità di giocare a pallone
L'Espresso, 30-05-14
MIchele Sasso
Italia, anno 2014. Un Paese a due velocità e con due corsie separate. Come nel Sud Africa della segregazione, dove norme liberticide sancivano la divisione razziale elevata a regolamento.
Nella società sudafricana spaccata in due si discriminava sul lavoro, a scuola, nei luoghi pubblici. Perfino i bagni erano per “white” da una parte e “colored” dall’altra. Un equilibrio sbilanciato per sottomettere la maggioranza della popolazione: l'incertezza come condizione di vita per gli abitanti di colore e stabilità come diritto acquisito per i bianchi.
Oggi è in una condizione per alcuni versi simile che vivono i cinque milioni e 186 mila migranti che vivono regolarmente nel nostro Paese. Pagano le tasse, contribuiscono al Prodotto interno lordo ma vengono discriminati dallo Stato: secondo la legge Bossi-Fini sono fantasmi pronti a fare la valigia per tornare a casa quando non c’è più bisogno di loro.
Nella corsa ad ostacoli della vita quotidiana i migranti non possono scioperare né ammalarsi senza il rischio di essere espulsi. Non possono partecipare a un concorso pubblico e neppure giocare a pallone senza scontrarsi con una assurda burocrazia che vieta il tesseramento per chi è nato oltre frontiera. Per fare parte della società la domanda è sempre la stessa: i documenti ci sono?
SE PROTESTI TI DENUNCIO
Gli immigrati non protestano, lavorano e basta. E chi protesta per chiedere rispetto degli orari, salari in regola e condizioni dignitose finisce nel mirino della Procura. È il destino dei facchini che lavorano in subappalto a Bologna. Il caso è scoppiato un anno fa, quando davanti ai cancelli dell’Interporto si decidono picchetti, presidi e scioperi. In questa distesa di camion e container ogni giorno migliaia di braccia invisibili fanno il lavoro sporco della logistica spostando tonnellate di merci. Per il colosso del latte Granarolo lavorano due cooperative che impiegano egiziani, tunisini, marocchini. In nome della crisi lo stipendio si taglia: da 1050 euro a 500 euro, per dodici ore al giorno. In 51 vengono messi alla porta. È troppo e si passa all’azione: uno, due, tre, quattro scioperi per chiedere buste paga regolari e rispetto del contratto nazionale.
Vengono bloccati i camion con tonnellate di latte in uscita dai cancelli e la situazione degenera velocemente fino allo sgombero della Polizia con cariche e manganellate. Partono anche le indagini della procura bolognese contro i protagonisti delle lotte nella logistica. Le ipotesi di reato sono violenza privata e blocchi stradali per 170 persone, ma la protesta va avanti per un anno intero: due volte alla settimana, con una tregua solo in estate. Passano i mesi e la rabbia riesplode. Lo scorso gennaio va in scena un altro blocco e in quattro vengono arrestati dopo botte, cariche e uso di spray urticante.
L’accusa del sindacato SiCobas che sostiene la protesta è senza appelli: «È intollerabile che chi sciopera venga fermato e trattenuto» spiega Aldo Milani, coordinatore nazionale SiCobas: «Inoltre le aziende usano il rinnovo del permesso di soggiorno come una clava. Sono costretti ad accettare le condizioni che offrono, dicono, perché se non trovano lavoro entro sei mesi diventano clandestini».
Di tutt’altro avviso il procuratore aggiunto Valter Giovannini:«I blocchi selvaggi sono un reato e danneggiano prima di tutto i lavoratori, perché con queste premesse è impossibile concludere accordi ragionevoli per tutti». Loro però resistono, nonostante le pressioni e le denunce (alla fine arrivano a 368, ognuno ne ha collezionate tre-quattro). Finalmente, in questi giorni, una buona notizia: il reintegro per tutti con un contratto nazionale vero e proprio. Il diritto di scioperare non sarà più messo in discussione.
L’AUTISTA DI COLORE
Ad aprile è caduto un tabù in vigore dal ventennio fascista: solo gli italiani possono guidare i mezzi pubblici.
A scontrarsi per primo con un divieto durato più di ottanta anni è Amir, rifugiato politico dal Congo, quattro abilitazioni diverse di guida, una moglie e due figlie.
Nel 2010 il comune di Torino gli sbarra la strada per partecipare alle selezioni per diventare autista di autobus. Il bando ammetteva solo candidati italiani o al massimo cittadini europei. Così, nonostante il capoluogo piemontese conti 143mila immigrati, nessuno di loro poteva aspirare a un impiego nella municipalizzata.
Amir non si arrende e presenta un ricorso contro l’assurda norma di epoca fascista mai completamente abrogata. A ottobre, tre anni dopo, arriva la vittoria ma con la beffa: ha superato i 40 anni e addio a quel concorso che non ammette deroghe sull’età.
La vera giustizia sarebbe stata se i giudici avessero riconosciuto la discriminazione nei suoi confronti dandogli la possibilità di partecipare a un’altra selezione in tempi utili. «Perché – dice Amir – ho sposato una donna italiana, ho due figlie italiane ma a loro, a differenza dei loro concittadini, è stato negato il diritto ad avere un marito e un padre lavoratore».
Per anni casi-fotocopia si sono verificati ovunque. A Milano nel 2009 Mohamed Hailoua, marocchino di 18 anni, regolarmente residente e diplomato da elettricista, si è candidato come operaio al reparto manutenzione della società che gestisce tram a metro, l’Atm, che senza appelli risponde: «Occorre la cittadinanza italiana».
Del resto, scrisse in una memoria difensiva l’Atm, non era opportuno che un marocchino svolgesse un servizio “particolarmente esposto al rischio di attentati”. Dopo una causa, i giudici dissero invece che il giovane aveva tutto il diritto di concorrere al bando, riconoscendo la discriminazione collettiva. L’elettricista nel frattempo si è messo a fare altro ma grazie a lui i nuovi italiani possono partecipare senza ostacoli alle selezioni.
Alberto Guariso dell’associazione studi giuridici è l’avvocato che aveva difeso i diritti di Mohamed Hailoua: «Chiediamo che la parità di accesso sia estesa a tutto il mondo del lavoro. La situazione del trasporto pubblico, già superata dalle sentenze e ora abrogata con una legge, è risolta. Ma rimangono aperte altre questioni».
Tra queste, il capitolo più importante riguarda il pubblico impiego. «Prima occorreva avere il passaporto italiano o europeo» continua Guariso «e dal settembre 2013 può fare domanda anche chi ha un permesso di soggiorno di lungo periodo, ma c’è ancora una gran confusione di paletti e impedimenti».
Nella burocrazia della nostra PA, infatti, il requisito obbligatorio della cittadinanza italiana spunta un po' ovunque.  Ad esempio tra le caratteristiche per fare i consulenti del lavoro a Milano, per iscriversi alla scuola infermieri a Trieste o a un corso di specializzazione in Medicina  a Udine, per svuotare i cestini come operatore ecologico a Firenze e infine, a Modena, per fare le ostetriche in ospedale.
VIETATO FARSI MALE
Le storie di ordinaria discriminazione si assomigliano tutte. Mohamed Abogooda ha vent’anni quando sbarca a Lampedusa dopo la primavera araba in Egitto. Dopo un lungo periodo di impieghi al nero, fuori dalle regole, trova lavoro come carpentiere nel cantiere della Pedemontana Lombarda, un'opera miliardaria per creare una lingua d’asfalto tra Varese e Bergamo. Stipendio e permesso di soggiorno assicurato, anche se è un subappalto di un subappalto per montare la gabbia in ferro che serve per costruire le gallerie. Il primo agosto del 2012 Mohamed Abogooda rimane incastrato sotto tonnellate di ferro: portato in ospedale, gli viene diagnosticato un grave trauma da schiacciamento.
È l’inizio della sua personale via crucis. Resta mesi senza poter lavorare, poi un anno dopo viene lasciato a casa. Partono le indagini e si scopre che un incidente simile c’era già stato mesi prima e si poteva evitare.
Lui intanto ha danni permanenti al collo e alla schiena con una invalidità del 7 per cento. Non può più arrampicarsi e piegare ferro per dieci ore al giorno e ora rischia l'espulsione dall'Italia per assenza di redditi minimi.
Chi chiede il rinnovo del permesso di soggiorno, infatti, deve certificare che è in grado di mantenersi. L’ha scoperto sulla sua pelle anche il signor H., che chiede di non essere nominato. E' tornato dalla Tunisia dopo le vacanze, a gennaio. Al porto di Genova lo hanno fermato con un decreto di espulsione in mano: troppo pochi i 1.700 euro di versamenti di contributi in due anni per restare in Italia. Prima lavorava solo in nero, come migliaia di altri migranti. Nell’edilizia, nella logistica, questa è la prassi quotidiana. Quando è riuscito a 'emergere' dal lavoro nero è riuscito anche a prendere il sospirato permesso. Che però non è un diritto acquisito. Un anno dopo, al rinnovo, ha scoperto la beffa: «Lo straniero non può dimostrare la disponibilità di un redditto sufficiente al proprio sostentamento» si legge nel decreto di espulsione. Da 'regolare' il signor H. è destinato a ritornare ancora una volta clandestino, se il Tar non accetta il suo ricorso.
BALOTELLI? NO, GRAZIE
Il razzismo tocca anche i figli dei migranti che giocano a pallone. A cui viene insegnato il rispetto e i valori universali dello sport sui campi, per poi negare il tesseramento e la possibilità di partecipare ai campionati.
«Fino a quando hanno 14 anni, pur con parecchie difficoltà burocratiche, questi ragazzi riescono a giocare» spiega Mauro Valeri, sociologo e responsabile dell’osservatorio antirazzismo calcio: «Poi, verso i 15-16 anni, scompaiono. Tranne i rarissimi che arrivano alla serie B e alla A».
A sbarrargli la strada sono le regole ottuse del tesseramento: obbligatorio il rinnovo del permesso di soggiorno dei genitori, il certificato di residenza e il “transfer” internazionale che attesta che l’atleta non sia mai stato tesserato nel paese d’origine.
Nonostante alcune sentenze che hanno imposto alle società uguali diritti, gli ostacoli rimangono e in molti preferiscono appendere gli scarpini al chiodo prima del tempo. La Federazione Calcio si giustifica dicendo che bisogna evitare che accadano episodi di abuso su ragazzini prelevati con il sogno di diventare professionista e poi sfruttati. Una preoccupazione che nasconde una visione superata della società, bloccando i futuri campioni o i semplici appassionati con la negligenza.
«C’è un paradosso di fondo: i vertici dello sport italiano non hanno ancora capito che siamo un Paese di immigrazione. E quindi devi rimodulare le norme anche su questo» conclude amareggiato Valeri. Per ora dobbiamo accontentarci di Mario Balotelli, Angelo Ogbonna e Stefano Okaka. Nati da genitori africani ed emersi grazie alla loro classe purissima. Tre sole 'seconde generazioni' arrivate nel campionato di serie A sono comunque una goccia nel mare, per un Paese dove scendono in campo ogni domenica più di 14 milioni di appassionati tra professionisti, semiprofessionisti e amatori.
Altro problema sono le divisioni minori: qui è previsto solo uno straniero per squadra. Come fossero tutti fuoriclasse. Dopo richieste infinite e solo dallo scorso settembre, per la prima volta, grazie a una modifica dei tesseramenti, si è acconsentita una deroga. E finalmente l’Afro-Napoli United si è iscritto al campionato di terza categoria. La squadra multietnica è nata nel 2009 per iniziativa di Antonio Gargiulo e dei senegalesi Sow Hamath e Watt Samba Babaly, con l’obiettivo di combattere la discriminazione e favorire la convivenza tra napoletani e migranti. «Far parte di una squadra di calcio significa far parte di una società che ti accetta e fa passare in secondo piano le diversità razziali» spiegano i fondatori. I calciatori sono nati in Senegal, Costa D'Avorio, Nigeria, Capo Verde, Niger, Tunisia e abitano nei quartieri popolari del centro storico di Napoli.
Alcuni non lavorano e c'è chi ancora fatica a parlare l’italiano ma tutti conoscono il linguaggio universale del pallone: sudore, passione e gioco di squadra. E se le gambe non mancano (più di 40 calciatori si contendono un posto) dopo la gavetta nei tornei amatoriali è arrivato finalmente il sospirato campionato ufficiale.
La loro storia presto diventerà un film (“Loro di Napoli”), la narrazione di un Paese che cambia attraverso le mille difficoltà di un campionato minore giocato ad ogni costo. Il secondo posto, per ora, può bastare alla squadra arcobaleno.



L’ispettrice in cantiere: «Torni in Perù, ci sarà lavoro per i nostri»
Il Secolo XIX, 29-05-14
Dario Freccero
Genova - Premetto subito: il fatto descritto è avvenuto nel mio alloggio, alla presenza mia e di altri testimoni che possono confermare.
Settimana scorsa, poco dopo le 9 di mattina. Alla porta della casa in ristrutturazione a Caricamento bussano due donne. Sono dell’Ispettorato del Lavoro. In quel momento nel cantiere c’è l’impresa albanese che lavora, un peruviano che ha una ditta di cartongessi e un giovane albanese che ha già un altro lavoro ma è venuto a chiedere se c’è lavoro extra per arrotondare.
Quando il sottoscritto arriva, si trova nel bel mezzo del confronto tra la mezza dozzina di stranieri e le due donne. L’impresa albanese non è contenta, un mese prima ha già subito un’ispezione identica dal medesimo Ispettorato del Lavoro e chiede spiegazioni.
Le due donne rispondono: «Noi facciamo controlli casuali, non sappiamo mai se altri colleghi sono già passati in un cantiere...».
Io me ne sto in un angolo, non so come funzionano queste cose ma non ho nulla da nascondere: ho fatto un contratto con l’impresa albanese, le pago regolari fatture che detrarrò e sono il primo interessato a sapere se in casa mia si lavora in sicurezza.
Emerge che c’è un problema di subappalti: sono presenti più ditte insieme, nello specifico tre individuali, mentre nel mio contratto è previsto che lavori solo l’albanese. Questo è un problema perché con più imprese - ci spiegano le ispettrici - serve un piano di coordinamento della sicurezza che invece manca.
Spieghiamo, in questo caso anch’io, che il cartongessista peruviano è stato chiamato due giorni prima perché non erano previste controsoffittature. Delle altre due ditte invece non so nulla e lo chiarisco: sono due parenti che ero convinto lavorassero per la stessa ditta, non due individuali. Le ispettrici, gentilmente, mi spiegano la differenza.
Gli interrogatori proseguono mentre io trattengo mia figlia di 3 anni che gironzola per il cantiere facendo foto e video con l’iPad.
Vengo poi attirato da una discussione sgradevole. L’ispettrice P., quella che dev’essere più in alto in grado, dice al peruviano: «...io in casa mia non farei mai fare lavori ad extracomunitari!».
Il peruviano è un tipo piccolino e orgoglioso. Replica: «Perché mi deve dire questa cosa? Io sono qui da tanti anni, pago le tasse, non accetto di sentirmi dire che sono diverso». E insiste: «Cosa dovrei fare allora? Mi sta dicendo che per lavorare me ne devo tornare a casa mia? Se sono nato nella comunità europea vado bene, altrimenti no? Che discorsi sono?!».
L’ispettrice replica sarcastica: «Se ne torni pure a casa così magari ci sarà più lavoro per i nostri...».
Il peruviano non ci vede dalla rabbia: «Ma questa è politica, cosa c’entra con il mio lavoro? Io pago le tasse, non accetto che mi si parli così, non è giusto...». E lei: «Non la faccia tanto lunga, sono qui per lavorare».
«Anch’io sono qui per lavorare! È lei che sta mancando di rispetto a me e a tutti gli extracomunitari che vogliono solo lavorare...».
Poi sbotta: «Sa cosa le dico: avevo deciso ai Mondiali di tifare Italia perché sono qui da anni ma il suo atteggiamento mi disgusta e tiferò Brasile!». La tizia gli risponde: «Tifi un po’ per quello che le pare ma la finisca che mi ha stancato».
Tutto questo dialogo avviene davanti al sottoscritto, all’altra dipendente dell’Ispettorato e a tre lavoratori extracomunitari (albanesi) che restano in silenzio ma ovviamente infastiditi.
Il sottoscritto trascorre alcuni minuti nel dubbio sul da farsi: faccio finta di niente o gliene dico quattro? Temo di esagerare e di aggravare le conseguenze dei controlli: so che avere o non avere le scarpe da lavoro piuttosto che la targhetta sulla divisa o altre cose, comporta sanzioni pesanti per questa gente.
Quando viene il mio turno per rispondere come “committente” esibisco i miei documenti (sulla carta d’identità è scritto che faccio il giornalista) e la signora cortesemente mi imbocca le risposte. Alla fine chiedo una piccola aggiunta. «Prego, dica». «Voglio dichiarare che ho trovato grave che lei, nel suo ruolo, abbia fatto considerazioni sugli extracomunitari che hanno offeso i presenti e dato la sensazione di un’evidente discriminazione». Apriti cielo. «Ma questo è vietato! Cosa crede che in un verbale uno scrive quello che vuole? Io non lo scrivo!» ribatte. Mi impunto, c’è un battibecco. L’ispettrice capisce che insisterò e ci prova: «La sua è un’intimidazione...». Poi aggiunge: «Io ho solo espresso un’opinione personale, non ha nulla a che vedere con l’ispezione».
Alla fine mi accontenta e scrive una frasetta scarna usando il verbo “avrebbe detto” che faccio correggere in “ha detto”. A quel punto interviene la sua collega: «Ma cosa fai, scrivi sta cosa? Ma siamo matti! Non si può! Non farlo».
Al che intervengono gli operai albanesi: «Certo che deve scrivere, è ora di finirla, è sempre la stessa cosa, venite solo da noi per non farci lavorare, non dite mai chi vi manda ma è chiaro che c’è qualcuno dietro...».
L’ispettrice ora è paonazza: «Non è vero, ieri siamo andati da una ditta italiana!». La tiritera va avanti circa 20 minuti. Pensando di non commettere irregolarità, con l’iPad fotografo il mio verbale e riapriti cielo. «Ma è vietato! Non si può! Passerà dei guai per questo!». Il film finisce con l’ispettrice che sulla porta fa dietrofront, dà la mano al peruviano e gli dice: «Senta, se si è offeso, mi scuso, non volevo offenderla». Il peruviano, da gentleman, dice: «Accetto le scuse ma non quello che mi ha detto prima». La donna: «Adesso c’è qualcun altro che mi dovrebbe delle scuse...» riferendosi al sottoscritto. Fingo di non sentire. Le due si congedano: «Ci vediamo a giugno». Il 10 è fissato il “processo”.


Grecia, migranti "trattati da criminali" nei centri di detenzione
Si calcolano essere circa 6 mila le persone, tra cui minori e richiedenti asilo, che sono costrette a passare fino a 18 mesi detenuti in condizioni precarie, esposti a malattie, maltrattamenti e stress altissimo
Redattore sociale, 30-05-14
ROMA – La legge greca prevede la detenzione dei migranti senza documenti fino a 18 mesi, una vera e propria pena carceraria, aggravata da condizioni di vita precarie. Cattiva alimentazione, luoghi di detenzione insalubri e mancanza di servizi igienici adeguati, questa la situazione in cui si trovano reclusi gli immigrati irregolari che vengono fermati in Grecia, come denuncia il rapporto “Invisible suffering” di Medici senza frontiere. n questo documento si mettono in evidenza il pesante impatto che la detenzione sistematica e prolungata ha sulla salute fisica e mentale dei migranti: infezioni respiratorie, malattie della pelle e gastrointestinali, così come ansia, depressione e disturbi psicosomatici.
“Nel 2012 si presero misure per ripulire le strade dai migranti, attraverso una politica basata sulla detenzione di massa indiscriminata” racconta Ioanna Kotsiani, responsabile del rapporto medico di Msf, al quotidiano spagnolo El País. E prosegue: “La Grecia ha applicato questa legislazione dal 2012, ma il problema è molto più ampio. L’immigrazione illegale è criminalizzata in tutta Europa”. Frequenti sono le vessazioni che i detenuti sono costretti a subire da parte dei poliziotti che gestiscono i centri, minacce, percosse e abbandono al proprio destino in caso di malattie gravi. Emblematico è il caso di I.S., un iracheno di 22 anni, fuggito dal proprio Paese in seguito alle minacce di morte ricevute per aver collaborato con gli statunitensi, che dopo un lungo viaggio approda sulle coste della Grecia, dove viene intercettato e mandato in un centro detentivo.
“Non riuscivo a capire perché mi tenessero lì così tanto tempo. Alla fine andavo fuori di testa, mi picchiavano e mi mettevano in isolamento” e denuncia: “ci davano da mangiare solo una volta al giorno, potevamo solo scaldare un po’ d’acqua per far lavare alcuni di noi e dovevamo corrompere la polizia perché ci comprasse qualcosa fuori dal centro”.
L’ultimo centro dove è stato portato è una vecchia scuola di polizia, chiusa perché fatiscente e riaperta come centro detentivo. La struttura ospita 1200 migranti, e alcuni dei padiglioni sono inagibili e con i bagni fuori uso, l’acqua calda c’è solo per un’ora al giorno e le celle sono sovraffollate. “I centri per immigrati sono  carceri, e vengono trattati come criminali” racconta la Kotsiani, e ribadisce Julia García Gozalbes, medico spagnolo per Msf: “Ho lavorato in Pakistan e in Sudan e non mi aspettavo quello che ho trovato qui. Questo è il lato oscuro dell’Europa”.
“Una donna (…) incinta di 10 settimane ha perso il bambino per lo stress dovuto alla detenzione” e in questi centri vengono portati anche gli adolescenti che la Grecia considera adulti a causa della mancanza di prove che attestino il contrario.
Alcuni di questi ragazzi sono stati liberati, grazie ad alcune Ong che sono riuscite a dimostrare la loro minore età attraverso certificato medico, ma la situazione resta grave. La Grecia, da luogo di passaggio diventa, per molti di questi migranti, un vero e proprio carcere. (hélène d’angelo)

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SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

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Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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