Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

23 maggio 2013

“Occuparsi di migranti e profughi, la crisi non può essere un alibi”
Corriere della sera, 23-05-2013
Monica Ricci Sargentini
Diritti umani |Non è un mondo migliore quello che viene fotografato da Amnesty International nel rapporto annuale 2013 pubblicato oggi  che descrive la situazione dei diritti umani in 159 Paesi e territori, nel periodo tra gennaio e dicembre 2012.  L’80% di questi ha torturato o maltrattato i propri cittadini mentre ben 101 Stati hanno represso il diritto alla libertà di espressione. Globalmente, nella metà dei Paesi esaminati si sono svolti processi iniqui mentre i diritti dei 214 milioni di migranti “non sono stati protetti né dai loro governi né dagli Stati in cui si sono trasferiti”. La mancanza di un’azione globale a favore dei diritti umani e l’incapacità del Consiglio di sicurezza dell’Onu di attuare azioni internazionali e politiche unitarie in caso di conflitti fa sì che siano sempre di più i milioni di persone in fuga dai propri Paesi.
Ne è una dimostrazione la Siria: sono un milione e 400 mila i siriani rifugiati all’estero e 4 milioni gli sfollati interni. Lo scorso anno il mondo è stato a guardare mentre le forze di sicurezza di Damasco continuavano a compiere attacchi indiscriminati e mirati contro i civili.
    “Il rispetto per la sovranità degli stati non può essere usato come scusa per non agire. Il Consiglio di sicurezza deve adoperarsi per fermare gli abusi che distruggono le vite umane e costringono le persone a lasciare le loro case. Deve farlo, rigettando la teoria, ormai logora e moralmente corrotta, che gli omicidi di massa, la tortura e le morti per fame non devono riguardare nessun altro Stato” dice la direttrice generale della sezione
    italiana di Amnesty Carlotta Sami.
Di fronte al crescere dei migranti aumenta il numero dei Paesi che adottano norme per il controllo dell’immigrazione. “Nel 2012 — scrive Amnesty — è stato più difficile per i rifugiati varcare le frontiere che per le armi alimentare la violenza nei luoghi dai quali cercavano di allontanarsi”. La speranza è che l’adozione, quest’anno, di un Trattato delle Nazioni Unite sul commercio delle armi possa fermare questa vergogna.
Nell’Unione europea, Italia in prima fila, prende sempre più piede una retorica populista secondo la quale rifugiati e migranti sono responsabili delle difficoltà in cui s’imbattono i governi nazionali. Ma la crisi non può essere un alibi. «Anche le violazioni dei diritti umani costano e spesso più della loro tutela» ci ricorda Antonio Marchesi, presidente dell’associazione in Italia. I casi di feminicidio, di omofobia, di xenofobia e la disastrosa situazione delle carceri vanno affrontati subito. “In Italia – dice sempre Marchesi – c’è una progressiva erosione dei diritti umani, ritardi e vuoti legislativi non colmati, violazioni costanti e forse in aumento». Al governo Letta, dunque, il compito di approvare quel pacchetto di riforme proposto da Amnesty e sottoscritto dai maggiori partiti in campagna elettorale.


 
Amnesty denuncia: «Mondo pericoloso per rifugiati»

Rapporto annuale 2013: «L’assenza di soluzioni dei conflitti sta creando una sottoclasse globale»
l'Unità, 23-05-2013
U.D.G.
La mancanza d’azione a livello globale in favore dei diritti umani sta rendendo il mondo sempre più pericoloso per i rifugiati e i migranti. È questo l’argomentato j’accuse lanciato da Amnesty International in occasione della presentazione del suo Rapporto annuale 2013, che descrive la situazione dei diritti umani in 159 Paesi e territori, nel periodo tra gennaio e dicembre 2012. I diritti di milioni di persone in fuga da conflitti e persecuzioni, o in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita per se stesse e le loro famiglie, sono stati violati da governi che hanno mostrato di essere interessati più alla protezione delle frontiere nazionali che a quella dei loro cittadini o di chi quelle frontiere oltrepassava chiedendo un riparo o migliori opportunità. «L’assenza di soluzioni efficaci per fermare i conflitti sta creando una sottoclasse globale. I diritti di chi fugge da quei conflitti non vengono protetti. Troppi governi stanno violando i diritti umani in nome del controllo dell’immigrazione, agendo ben al di là delle legittime misure di controllo alle frontiere», sottolinea Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia, presentando a Roma l’edizione italiana del Rapporto pubblicata da FandangoLibri. «Queste misure – aggiunge non colpiscono solo le persone in fuga dai conflitti. Milioni di migranti sono trascinati in un ciclo di sfruttamento, lavori forzati e abusi sessuali dalle politiche contro l’immigrazione». Gran parte dei 214 milioni di migranti hanno lavorato in condizioni che possono essere definite di lavoro forzato o assimilabili alla schiavitù, poiché i governi li hanno trattati da criminali e le grandi aziende erano interessate più ai profitti che ai diritti dei lavoratori.
J’ACCUSE
Nel 2012, una lunga serie di emergenze dei diritti umani ha spinto alla fuga numerosissime persone, dalla Corea del Nord al Mali, dalla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, costrette a cercare riparo all’interno dei loro Stati od oltrefrontiera. Un altro anno è andato perso per la popolazione della Siria, dove poco o nulla è cambiato se non il sempre più alto numero delle vite perse o distrutte. Milioni di siriani sono stati costretti a fuggire dal conflitto. Il mondo è stato a guardare, mentre le forze armate e di sicurezza di Damasco continuavano a compiere attacchi indiscriminati e mirati contro i civili e a sottoporre a sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziarie sospetti oppositori e, a loro volta, i gruppi armati proseguivano a catturare ostaggi e a compiere esecuzioni sommarie e torture, seppur su scala minore. «Il rispetto per la sovranità degli Stati – afferma ancora Sami non può essere usato come scusa per non agire. Il Consiglio di sicurezza deve adoperarsi per fermare gli abusi che distruggono le vite umane e costringono le persone a lasciare le loro case. Deve farlo, rigettando la teoria, ormai logora e moralmente corrotta, che gli omicidi di massa, la tortura e le morti per fame non devono riguardare nessun altro Stato». Nel corso del 2012, Amnesty International ha documentato specifiche restrizioni alla libertà d’espressione in almeno 101 Paesi, torture e maltrattamenti in 112 Paesi. Metà degli abitanti del pianeta è costituita da cittadini di seconda classe per quanto riguarda la realizzazione dei loro diritti, poiché molti Paesi non hanno agito nei confronti della violenza basata sul genere. Alcuni, tragici indicatori: militari e gruppi armati hanno commesso stupri in Ciad, Mali e Repubblica Democratica del Congo; i talebani in Afghanistan e Pakistan hanno ucciso donne e ragazze; in Cile, El Salvador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, a donne e ragazze rimaste incinte dopo stupri o la cui gravidanza poneva a rischio la loro salute è stato negato l’accesso a servizi sicuri di aborto. In tutta l’Africa conflitti, povertà e violazioni dei diritti umani da parte di forze di sicurezza e gruppi armati hanno messo in evidenza la debolezza degli strumenti regionali e internazionali per la difesa dei diritti umani. Nella regione Asia e Pacifico la libertà d’espressione è stata repressa in Cambogia, India, Maldive e Sri Lanka e i conflitti armati hanno danneggiato la vita di decine di migliaia di persone in Afghanistan, Myanmar, Pakistan e Thailandia. In Medio Oriente e Africa del Nord, nei Paesi in cui sono terminati regimi autocratici si è assistito a un aumento della libertà d’informazione, a crescenti opportunità per la società civile, ma anche ad attacchi alla libertà d’espressione per motivi legati a morale e religione. In tutta la regione, attivisti politici e per i diritti umani hanno continuato a subire la repressione, tra cui arresti e torture.



Migranti, sono 214 milioni. "Vita per gente di serie B"
Lo sottolinea Amnesty International in occasione del lancio del Rapporto annuale 2013, che descrive la situazione dei diritti umani in 159 paesi e territori nel periodo tra gennaio e dicembre 2012 e che quest'anno è dedicato a Malala Yousafzai, la ragazzina pachistana aggredita e gravemente ferita dai talebani perché voleva andare a scuola
la Repubblica, 23-05-2013
EMANUELA STELLA
ROMA - Il  mondo sta diventando sempre più pericoloso e inospitale per rifugiati e migranti, in assenza di una azione globale in favore dei diritti umani. Lo sottolinea Amnesty International in occasione del lancio del Rapporto annuale 2013, che descrive la situazione dei diritti umani in 159 paesi e territori nel periodo tra gennaio e dicembre 2012 e che quest'anno è dedicato a Malala Yousafzai, la ragazzina pakistana aggredita e gravemente ferita dai talebani perché voleva andare a scuola.
I migranti, persone di serie B. Sono 214 milioni i migranti nel mondo. Coloro che vivono fuori dal proprio paese, senza uno status sociale, in assenza di condizioni di benessere minime, sono le persone più vulnerabili del pianeta e sono spesso condannate ad una vita disperata, nell'ombra, come gente di serie B. "L'Unione Europea ha posto in essere misure di controllo alle frontiere che mettono a rischio la vita dei migranti e dei richiedenti asilo e non garantiscono la sicurezza delle persone che fuggono da conflitti e persecuzione - si legge nel rapporto. - In varie parti del mondo, migranti e richiedenti asilo finiscono regolarmente nei centri di detenzione e persino in container per la navigazione o gabbie metalliche".
Nessuna tutela in partenza né all'arrivo. I diritti di un'ampia parte di migranti non sono tutelati né dai loro governi né dagli stati in cui si trasferiscono. "Milioni di essi hanno lavorato in condizioni che possono essere definite di lavoro forzato o assimilabili alla schiavitù, poiché i governi li hanno trattati da criminali e le grandi aziende si sono mostrate interessate più ai profitti che ai diritti dei lavoratori. I migranti privi di documenti sono quelli  maggiormente a rischio di sfruttamento e di violazioni dei diritti umani", si legge nel rapporto.
La protezione dei diritti a prescindere dalla latitudine. "La protezione dei diritti umani deve riguardare tutti gli esseri umani, a prescindere da dove si trovino", ha sottolineato Carlotta Sami, direttore generale della sezione italiana di Amnesty International, nel corso della presentazione del rapporto (pubblicato da Fandango Libri). "Troppi governi stanno violando i diritti umani in nome del controllo dell'immigrazione, agendo ben al di là delle legittime misure di controllo alle frontiere. Questa situazione chiama in larga parte in causa una retorica populista secondo la quale rifugiati e migranti sono responsabili delle difficoltà in cui versano i governi nazionali".
Le armi varcano le frontiere più facilmente delle persone. Chi ha cercato, nel corso del 2012, di fuggire da conflitti e persecuzione attraversando i confini ha trovato di fronte a sé tremendi ostacoli. È stato più difficile per i rifugiati varcare le frontiere che per le armi alimentare la violenza nei luoghi dai quali cercavano di allontanarsi (anche se l'adozione nell'aprile 2013 di un trattato delle Nazioni Unite sul commercio di armi fa sperare che le forniture di armi che possono essere usate per commettere atrocità vengano fermate). Nel 2012 una lunga serie di emergenze - conflitti, povertà, violenza contro le donne, tortura, discriminazioni - ha spinto alla fuga numerosissime persone, dalla Corea del Nord al Mali, dalla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, costrette a cercare riparo all'interno dei loro stati oppure oltrefrontiera. Un altro anno è andato perso per la popolazione della Siria - sottolinea il rapporto - dove poco o nulla è cambiato se non il sempre più alto numero di vite perse o distrutte. Il pretesto che i diritti umani sono "una questione interna" è stato usato per bloccare ogni azione internazionale sull'emergenza in Siria.
Le torture in 112 paesi. Nel corso del 2012 Amnesty International ha documentato restrizioni alla libertà d'espressione in almeno 101 paesi, torture e maltrattamenti in almeno 112. Metà degli abitanti del pianeta è tuttora costituita da cittadini di seconda classe, per quanto riguarda la realizzazione dei diritti, poiché molti paesi non hanno agito nei confronti della violenza basata sul genere. Militari e gruppi armati hanno commesso stupri in Ciad, Mali e Repubblica Democratica del Congo; i talebani in Afghanistan e Pakistan hanno ucciso donne e ragazze; in paesi quali Cile, El Salvador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, a donne e ragazze rimaste incinte a seguito di stupro, o la cui gravidanza poneva a rischio la loro salute o la loro vita è stato negato l'accesso a servizi sicuri di aborto. Un segnale positivo viene però dal fatto che, a livello globale, la pena di morte ha continuato la sua ritirata, nonostante alcuni passi indietro, come le prime esecuzioni in Gambia, dopo quasi 30 anni, e la prima impiccagione di una donna in Giappone dopo 15 anni.
Amnesty punta il dito anche sull'Italia. Il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, ha commentato il capitolo relativo all'Italia segnalando "una progressiva erosione dei diritti umani, ritardi e vuoti legislativi non colmati, violazioni gravi e costanti": "Una situazione con molte ombre, tra cui l'allarmante livello raggiunto dalla violenza omicida contro le donne, gli ostacoli che incontra chi chiede verità e giustizia per coloro che sono morti mentre si trovavano nelle mani di agenti dello stato o sono stati torturati o maltrattati in custodia, la stigmatizzazione pubblica sempre più accesa di chi è diverso dalla maggioranza per colore della pelle o origine etnica".
E' il momento di mantenere le promesse. "La situazione dei diritti umani nel nostro Paese - ha detto ancora Marchesi - ci ha spinto, all'inizio del 2013, a lanciare un vero e proprio 'pacchetto di riforme', l'Agenda in dieci punti per i diritti umani in Italia, sottoponendola ai leader delle coalizioni in corsa per le elezioni politiche e a tutti i candidati. I leader delle formazioni politiche che compongono l'attuale governo hanno aderito all'Agenda, così come 117 neo-deputati e senatori. È stato un risultato importante, ma ora è arrivato il momento di mantenere le promesse: ci aspettiamo che coloro che hanno firmato l'Agenda, in tutto o in parte, tengano fede agli impegni specifici presi con Amnesty International e con coloro che si sono informati, durante le elezioni, sulle loro posizioni in materia di diritti umani", ha ammonito Marchesi.
Per aiutare Amnesty. E' possibile devolvere il proprio 5 x 1.000 ad Amnesty International indicando sulla denuncia dei redditi il codice fiscale 03 03 11 10 582.



Qual è la situazione dei diritti umani?
La Stampa, 23-05-2013
maurizio ternavasio
Ieri Amnesty International ha presentato il Rapporto annuale 2013 sui diritti umani nel mondo. Che cosa è emerso in particolare?  
Il fatto agghiacciante che ben 112 Paesi, su 159 presi in considerazione, hanno torturato i loro cittadini. In 80 Stati si sono svolti processi iniqui e in 50 le forze di sicurezza sono state responsabili di uccisioni illegali in tempo di pace.
In quanti Paesi nell’ultimo anno sono state eseguite delle condanne a morte ?  
In 21 Stati, anche perché più di due terzi dei Paesi del mondo sono abolizionisti per legge o nella pratica. In 31 Paesi però le persone sono state vittime di sparizioni forzate e in 36 uomini, donne e bambini hanno subito sgomberi forzati.  
E per quanto riguarda la libertà di espressione?  
Il diritto alla libertà di espressione, rileva il Rapporto, è stato represso in 101 Paesi, mentre in 57 i «prigionieri di coscienza» sono rimasti in carcere.
E che cosa stanno facendo i Governi?  
Ben poco. Troppi, denuncia il Rapporto, stanno violando i diritti umani in nome del controllo dell’immigrazione, agendo ben al di là delle legittime misure di verifica alle frontiere. Misure che non colpirebbero solo le persone in fuga dai conflitti, ma milioni di individui trascinati in un ciclo di sfruttamento, lavori forzati e abusi sessuali dalle politiche contrarie all’immigrazione.  
Quindi il 2012 è stato un anno estremamente negativo…  
Gli ultimi 12 mesi sono stati «all’insegna delle violazioni dei diritti umani nel mondo». Lo denuncia Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia. «Metà della popolazione del nostro pianeta e soprattutto le donne sono considerate di serie B, e i governi stanno tradendo i diritti dei loro cittadini».
Qual è invece la situazione in Italia?  
Nel nostro Paese si starebbe assistendo ad una progressiva erosione dei diritti umani, a ritardi e vuoti legislativi ma anche a violazioni gravi e costanti. Secondo il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, è «una situazione con molte ombre, tra cui l’allarmante livello raggiunto dalla violenza omicida contro le donne; gli ostacoli che incontra chi chiede verità e giustizia per coloro che sono morti mentre erano nelle mani di agenti dello stato o sono stati torturati o maltrattati in custodia; la stigmatizzazione pubblica sempre più accesa di chi è diverso dalla maggioranza per colore della pelle o origine etnica».  
Quali sono le condizioni dei centri di accoglienza nel nostro Paese?  
Ben al di sotto degli standard internazionali. Per di più i rom continuano a subire discriminazioni, a essere segregati in campi, sgomberati con la forza e lasciati senza casa. Sistematicamente, le autorità non hanno protetto i diritti di rifugiati, di richiedenti asilo e di migranti che hanno continuato a vivere in condizioni difficili e d’indigenza.  
Che cosa si potrebbe fare in concreto per migliorare la contingenza italiana?  
«È giunto il momento di fare riforme serie nel campo dei diritti umani - rimarca Marchesi - Non regge l’alibi della crisi. Anche le violazioni dei diritti umani costano, e spesso di più della loro tutela».  
 Cosa accade invece in Europa?  
In Europa emerge «preoccupazione» per la discriminazione di Lgbt in Russia, dove proseguono gli «attacchi alla libertà di espressione, di manifestazione pacifica e di associazione», compresi atti di «intimidazione» ai danni dei difensori dei diritti umani. Nel mirino di Amnesty sono finite anche «le politiche e prassi restrittive» nei confronti dei migranti in diversi Paesi Ue, Grecia in testa.  
Qual è la posizione di Amnesty riguardo alla Siria?  
Sostiene che la situazione sta peggiorando giorno dopo giorno e non è più ammissibile non affrontare l’emergenza. Duro il suo attacco contro la scusa che i diritti umani sono «una questione interna», usata per bloccare ogni azione internazionale sulle emergenze dei diritti umani. La Siria è segnata da «diffuse violazioni, crimini di guerra e contro l’umanità, esecuzioni extragiudiziali, torture, attacchi alla stampa». E le forze governative hanno commesso «la stragrande maggioranza delle violazioni», delle quali si sono macchiati, «in scala minore», anche i ribelli.  
Cosa succede nel resto del mondo?  
Critica la situazione in Corea del Nord, Sudan, Mali, Repubblica Democratica del Congo. Ma anche in Iraq, Bahrein, Israele ed Iran, fino alle torture e maltrattamenti, ormai «endemici», in Libia ed Egitto. In Asia i conflitti armati hanno rovinato la vita di decine di migliaia di persone in Pakistan e Afghanistan dove nel 2012 il numero di civili uccisi ha raggiunto il suo picco. Mentre in America Latina «la violenza sulle donne resta un grave problema».  



La legge sulla cittadinanza, bambini in sala d’aspetto
C0rriere della sera, 23-05-2013
Risponde Sergio Romano
Le scrivo a proposito del dibattito in corso sullo «ius soli» da introdurre in Italia, al quale lei era apparso favorevole argomentandone in una delle sue recenti risposte. Anche se personalmente ritengo che sia una delle questioni meno urgenti da affrontare dall'attuale governo (visti i gravissimi problemi che invece farebbe meglio a gestire), mi chiedo che cosa ne direbbero gli altri Paesi dell'Unione Europea. Concedere la cittadinanza italiana a bambini nati sul nostro territorio, infatti, significherebbe automaticamente che essi saranno cittadini europei, quindi potranno trasferirsi in un qualsiasi Stato dell'Unione. Migliaia di immigrati che potrebbero arrivare senza nessun problema in Germania, Francia, Spagna, Olanda, Belgio ecc. Che cosa ne direbbero i nostri partner europei di questa possibilità?
Chiara Giacomini, Milano
Cara Signora,
Quella dello «ius sanguinis» è una categoria piuttosto semplice. Nasce «nazionale» il bambino che viene al mondo nel Paese di cui i suoi genitori (o almeno il padre) sono cittadini; ed è «nazionale», generalmente, anche se la famiglia, in quel momento, vive in un altro Paese. Nel caso dello ius soli tutto è molto più complicato. Come ha già spiegato Gian Antonio Stella sul Corriere del 7 maggio, molti Paesi, in questi ultimi anni, hanno adottato lo ius soli e hanno riconosciuto ai bambini, in linea di principio, il diritto alla cittadinanza del Paese natale. Ma hanno disegnato percorsi che variano da uno Stato all'altro. Accanto all'articolo di Stella, il Corriere ha pubblicato uno schema da cui risultano alcuni dei criteri adottati nei Paesi dell'Unione Europea. In Spagna è cittadino chi nasce nel Paese da genitori di cui almeno uno è nato sul posto; ma si può acquisire la cittadinanza anche dopo dieci anni di residenza o un anno dal matrimonio con un cittadino spagnolo. In Irlanda è cittadino il figlio di genitori stranieri che risiedono nel Paese da almeno tre anni. Nei Paesi Bassi la cittadinanza si acquista al compimento dei diciotto anni. In Francia il bambino è immediatamente francese se nasce da genitori stranieri ma nati in Francia. In Germania, vale a dire nel Paese che in passato fu maggiormente caratterizzato dallo ius sanguinis, il bambino è tedesco se uno dei genitori vive nel Paese da almeno otto anni e ha un permesso di soggiorno da tre. In Italia, infine, vale la regola dei diciotto anni, come nei Paesi Bassi, ma l'apolide e il rifugiato politico possono ottenere la cittadinanza entro cinque anni e i figli di cittadini della Ue entro quattro.
Per lo Stato italiano, quindi, il problema non è quello di passare dallo ius sanguinis alla ius soli, ma di rendere quest'ultima categoria meno restrittiva di quanto sia attualmente. Certo, come lei scrive, i problemi più urgenti del Paese sono altri. Ma non vedo perché il ministro dall'Integrazione (quando esiste, come nel caso del governo italiano) dovrebbe rinunciare ad aggiustare una legge che non risponde più alle caratteristiche di un Paese in cui la popolazione cresce ormai soltanto grazie alla presenza di una forte comunità straniera.



La lezione di Strasburgo
l'Unità, 23-05-2013
Luca Landò
LA SOSPENSIONE DI MARIO BORGHEZIO DAL PARLAMENTO EUROPEO È UNA NOTIZIA TALMENTE BUONA CHE È QUASI PESSIMA. Buona perché il coro di proteste dopo le ignobili frasi pronunciate contro la ministra Kyenge dimostra che non c’è solo un giudice a Berlino: c’è anche un Parlamento in Europa per il quale democrazia, diritti e lotta contro il razzismo non sono parole da pronunciare ma politiche da difendere e applicare. Pessima, perché è triste che a costringere l’europarlamentare a chiedere scusa sia stata l’Europa e non l’Italia.
È vero, la slavina europea che è scivolata addosso a Borghezio è nata, firma dopo firma, da una petizione lanciata sul sito Change.org dall’associazione italiana Articolo 21 per chiedere l’espulsione di Borghezio dal Parlamento europeo e che nel giro di poche ore ha raccolto oltre 130 mila adesioni. Ma la svolta, come altro chiamarla, è arrivata dopo che quelle firme sono state portate e consegnate ai parlamentari europei di varie nazioni e dopo che Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, ha parlato espressamente di parole inaccettabili. È allora, solo allora che Borghezio ha fatto marcia indietro, per quanto sia possibile cancellare frasi come «governo del bonga bonga» e «nominarla è stata una scelta del cazzo» rivolte dalla radio pubblica italiana alla ministra della Repubblica italiana Cecile Kyenge.
Perché l’Europa e non l’Italia, dunque? Perché Borghezio, a Roma o Milano, è un personaggio colorito da intervistare, mentre a Strasburgo è un politico da censurare? Il sospetto ma vorremmo che qualcuno lo fugasse per davvero è che il razzismo, da noi, è ancora una zona grigia dove tutto è permesso, dove la battuta da bar alla fine arriva sempre, dove dire «neger» all’immigrato o «negretto» a Balotelli fa tanta simpatia.
La notizia bella, anzi ottima, è che l’Europa ci ha ricordato che non è così, che il razzismo non è uno scherzo e non fa per nulla simpatia. La notizia brutta, anzi pessima, è l’aver avuto bisogno dell’Europa. E si eviti, per carità, di dire che il leghista Borghezio è un europarlamentare che risponde solo alle regole del Parlamento europeo.
C’è un altro punto che non può essere ignorato. Nel presentare il suo «ravvedimento», Borghezio ha detto testualmente che «se la signora si è sentita offesa per il contesto o come donna perché ho usato il termine “casalinga”, le chiedo scusa». Un modo sprezzante, diciamo pure fascista, per ribadire il proprio disgusto nei confronti di una donna per di più nera (ma come, ti offendi?).
Già, perché Borghezio è uno che non molla mai, in pieno accordo con quel celodurismo che per decenni (ora un po’ meno) ha fatto le fortune di quel partito, la Lega, che lo ha spedito in Europa anche grazie a quelle frasi che ha collezionato anno dopo anno e che Corradino ha ricordato proprio ieri su queste colonne: «Noi ai clandestini bastardi gli diamo il mille per mille di calci in culo con la legge Bossi-Fini», «Per noi il Meridione esiste solo come palla al piede che portiamo dolorosamente appresso da 150 anni», fino all’indimenticabile: «Quelle espresse da Breivik sono parole condivisibili» con riferimento all’estremista di destra che nel 2011 in Norvegia uccise 77 ragazzi. L’ultima frase l’ha pronunciata pochi giorni fa alla radio, ma questa volta ad ascoltare non c’era solo l’Italia. C’era anche l’Europa.



Buu! Quelle curve della vergogna dove il razzismo è di casa
Gli ululati contro Balotelli riportano d’attualità il tema dell’intolleranza nello sport
Proprio mentre si riapre il dibattito sulla cittadinanza attraverso lo “Ius soli”
la Repubblica, 23-05-2013
Michele Serra
La multietnicità è un fatto un fenomeno ineludibile frutto di movimenti globali che non si può contestare come se fosse un’opinione
Uno degli obiettivi reconditi di tutte le sconcezze e scemenze che piovono dagli spalti è quello di far girare le telecamere dal campo verso di loro
Lo slogan “non esistono negri italiani”, tra i prediletti degli ultras di estrema destra che seguono la Nazionale azzurra, esprime con involontaria ma a suo modo magistrale precisione la matrice profonda del razzismo, che è il ripudio della realtà come dimensione sgradita, come luogo inospitale.
In questo senso il razzismo, psicologicamente e culturalmente, è apparentabile a quel più vasto fenomeno psicologico, difensivo a oltranza, che è la negazione dell’evidenza. Tecnicamente, lo slogan “non esistono negri italiani”, specie se pronunciato in presenza di un “negro italiano” di innegabile consistenza come Mario Balotelli, rimanda a quei pittoreschi circoli inglesi anticopernicani – chissà se di buontemponi o di mattoidi – sostenitori che la Terra è piatta e non sferica (risate!); o alla composita galassia dei negazionismi odiosi (non c’è mai stato lo sterminio degli ebrei) o ridicoli (non c’è mai stato lo sbarco sulla Luna). Chi per reale sofferenza sociale – non è attrezzato per capire e dunque accettare la realtà – chi per stravaganza o sfizio, sono molti gli umani, individui e gruppi, che decidono di NON assumere la realtà come terreno del comune sentire, o anche del comune dissentire.
Esempio: se il multiculturalismo è un’opzione politica tra le tante, dunque legittimamente contrastabile, la multietnicità non lo è. La multietnicità (compresi ovviamente i “negri italiani”) è un fatto, un fenomeno ineludibile, il prodotto degli spostamenti umani sul pianeta (plurimillenari, e oggi accelerati). E dunque, se è lecito dissentire dal multiculturalismo, per esempio pretendendo, come in Francia, che le leggi dello Stato debbano sempre prevalere sugli orientamenti religiosi delle singole etnie; non è lecito, invece, negare la multietnicità, che è un fatto e non un’opinione.
Anche l’afroitaliano Mario Balotelli è un fatto e non un’opinione. Afroitaliano: come afroamericano o come italoamericano, il più facile, il meno forzato tra i tanti neologismi cui ci costringono i mutamenti della storia e degli assetti sociali. Ma in quel laboratorio del peggio che sono, da molti anni, gli stadi italiani, ricettore e al tempo stesso fonte degli umori (specie giovanili) più grezzi e offensivi, possiamo ben dire che quel fatto (la Terra è rotonda) è troppo evidente e di conseguenza troppo disturbante per essere accettato.
Nei nostri stadi la Terra è ancora piatta, così come è piatto l’espediente polemico (da scuola materna) di ritorcere attraverso il “buu” la presunta minorità di linguaggio del “negro”, in molti casi (Seedorf, Eto’o, Zebina, Thuram) molto più evoluto culturalmente dei suoi odiatori. L’italiano di curva degli indigeni italiani è molto più rudimentale dell’italiano eloquente di parecchi immigrati. E dunque, come è già stato osservato, il “buu” risuona come una confessione: attraverso il buu, le nostre curve di stadio mettono in scena se stesse, la loro impotenza, il loro disadattamento. E il giovane signore dalla pelle scura ricco, integrato e in genere con molte fidanzate che corre sul prato verde è il destinatario più illogico per il dileggio dei disadattati. Se davvero volessero e sapessero dare una forma compiuta alla loro frustrazione e alla loro impotenza, dovrebbero rivolgere la loro ostilità non al nero, ma al ricco (nero e bianco).
Il ghetto è la curva, non il campo di gioco dove tutti i protagonisti, di ogni colore, sono illuminati da cento telecamere. Al punto da far sospettare che uno degli obiettivi reconditi dei “buu”, e di tutte le altre scemenze o sconcezze che piovono dalle curve, sia far girare verso quei ghetti almeno qualche telecamera.
Quanto a lui, Mario, che pure non ha il piglio intellettuale di un Thuram e non si occupa di arte contemporanea come Zebina, e tra le librerie e le discoteche non si dubita che preferisca le seconde, si esprime, anche su Twitter, con una complessità che non è alla portata delle bande sue nemiche. Spiega l’assurdo non-luogo etico e giuridico nel quale il pavido, debole governo del calcio lo ha ficcato: se resto in campo quando sento gli insulti razzisti, non mi sento a posto con la mia coscienza. Ma se me ne vado, danneggio la mia squadra. Che devo fare, allora?
Che debba decidere lui per tutti, a ventidue anni, non è normale e non è giusto. Come non è normale e non è giusto che alle curve che gli latrano contro si conceda il dubbio che non è il “negro” che stanno fischiando, ma il calciatore Balotelli spesso incline a comportamenti poco sportivi. Dice la vecchia e precisa battuta di un comico americano: «il razzismo sarà finito quando potremo dire che anche un negro è stronzo». Dunque il razzismo, almeno in Italia, non è finito.



Parla Lilian Thuram, campione e autore di un libro sul tema
“Tifosi da punire senza se e senza ma”
la Repubblica, 23-05-2013
Anais Ginori
Lo spettacolo non deve continuare a ogni costo sospendere la partita Roma-Napoli e sanzionare la società è stato un buon segnale. Ma
deve diventare una regola applicata sempre e dovunque
«Il gioco non deve, e non può continuare ad ogni costo». A suo tempo, quando viveva in Italia alla fine degli anni Novanta, Lilian Thuram era bersaglio di cori razzisti negli stadi, quegli stessi buu che oggi perseguitano Mario Balotelli. «Ora però mi pare di intravedere una graduale presa di coscienza sul problema, sembra persino che stia finendo una ambiguità dei dirigenti sportivi rispetto a questi episodi», commenta Thuram che alla battaglia contro il razzismo ha dedicato Le mie stelle nere, appena pubblicato da Add editore e del quale discuterà al Festival di Repubblica a Firenze, il 9 giugno.
Di quale ambiguità sta parlando?
«Qui non si tratta di dare opinioni su quel che è accaduto ma di stabilire regole chiare. Ci sono cori razzisti? Bene, anzi male: si sospende la partita, come è stato giustamente deciso durante Milan- Roma. Lo considero un ottimo segnale e speriamo sia d’insegnamento per tutti gli arbitri. È stato positivo anche che i giudici sportivi abbiano chiesto una sanzione per la curva Sud della Roma, con la sospensione di un turno. So benissimo che gli interessi economici sono tanti, le esigenze del business premono.
Ma lo spettacolo non può continuare ad ogni costo».
Dunque serve maggiore repressione?
«Tutte le persone che sono dentro il mondo del calcio devono riflettere a quali sono i modi migliori di punire questi atteggiamenti dei tifosi. Intanto parlarne, denunciare ogni singolo episodio di intolleranza, come accade oggi, è già un modo di cambiare le mentalità. E’ un lungo cammino. A poco a poco, le società, gli arbitri, i giocatori, la stampa saranno costretti essere inflessibili. La repressione deve essere accompagnata dal dibattito pubblico e da un cambiamento culturale: nessuno nasce razzista».
Intanto Balotelli vuole abbandonare il campo in caso di nuovi insulti e sostiene che è “inumano” impedirglielo.
«Il problema non è decidere se lui ha diritto o meno di disertare il gioco ma eliminare le condizioni che possono provocare una tale scelta. Anziché richiamare Balotelli al suo dovere di rimanere in campo, l’arbitro deve sospendere la partita, o comunque prendere i provvedimenti necessari contro i tifosi che lo insultano. Non spetta certo alle vittime del razzismo far rispettare le leggi. È compito di un garante superiore, ovvero dell’arbitro in campo e poi del giudice sportivo dopo la partita. Se ci saranno misure severe ogni volta che accade, Balotelli non avrà più ragioni di abbandonare la partita».
Il ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge, sostiene che i cori contro Balotelli non sono sempre dovuti al razzismo. C’è il rischio di vittimizzare troppo il calciatore?
«Mi sembra l’ennesima ipocrisia. Certo, bisogna fare chiarezza su ogni episodio, capire quali sono i contenuti degli insulti, senza generalizzare. Esiste il diritto di contestare un giocatore per la sua prestazione sportiva, comunque con rispetto. Ma quando i tifosi fanno a Balotelli il verso della scimmia significa una cosa precisa: si tenta di riproporre una visione storica, una presunta inferiorità di alcune razze».
Il fatto che il campione del Milan abbia comportamenti poco sportivi, talvolta provocatori, complica ulteriormente la faccenda?
«Ci sono tanti giocatori che non si comportano bene ma non vengono attaccati per il loro colore della pelle. Bisogna avere l’onestà di riconoscere che la maniera di contestare un calciatore nero non è la stessa di quella che tocca a un giocatore bianco. Le parole hanno un significato. Se si fa buu, imitando il verso della scimmia, oppure si dice “sporco negro”, allora si sta facendo riferimento al colore della pelle. Provare a dire, come ha fatto Zeman, che Balotelli è contestato per colpa dei suoi atteggiamenti, e non per razzismo, è molto pericoloso: non si può mascherare la discriminazione con motivazioni caratteriali o soggettive. Il razzismo, invece, è qualcosa di oggettivo. Semplificando al massimo si può definire come il tentativo di classificare le persone in base al colore della pelle».
Balotelli ha dovuto aspettare 18 anni prima di poter essere “italiano”. La mancanza dello ius soli nel nostro paese rende più difficile il cambiamento culturale?
«Sarebbe più corretto dire che Balotelli era già italiano e ha ottenuto la cittadinanza solo a 18 anni. La nazionalità non si passa attraverso il sangue. Spero che l’Italia approverà la legge sullo ius soli. È una scelta di buon senso. Anche chi è contrario non sa spiegare bene perché, ha argomenti spesso confusi. La verità è che ognuno di noi ha bisogno di essere riconosciuto dalla propria comunità. La cosa peggiore che possa capitare è sentirsi esclusi. L’esclusione provoca la rabbia. Dare la cittadinanza a chi, nei fatti, è già italiano è un modo di costruire una società più giusta e pacifica».



Dietro la solidarietà agli immigrati si nascondono episodi d’intolleranza
Come dimostrano le tre notti di guerriglia nei sobborghi della capitale
Il mito della Svezia felix brucia con le banlieue
la Repubblica, 23-05-20131
Anais Ginori
Non ci sono più favole da raccontare, come quella del piccolo “yugo” che molti disprezzavano nel sobborgo di Malmo e poi, magicamente, è diventato un campione miliardario con bionda moglie al seguito. L’icona di Zlatan Ibrahimovic, seppur con molte contraddizioni, sbiadisce ogni giorno nelle nuove periferie-ghetto della Svezia. «Veniamo chiamati “scimmie”, “ratti”, “negri”, siamo continuamente sottoposti a insulti razzisti» racconta Rami al-Khamisi, studente in legge che ha fondato la controversa organizzazione Megafonen per difendere i diritti degli immigrati ma è sospettato di aizzare gli scontri con le forze dell’ordine.
È stata la terza notte di battaglia urbana intorno a Stoccolma, e nessuno sa ancora prevedere come andrà a finire. La capitale è ormai circondata da rivolte di bande di giovani incappucciati. Nell’ultima notte, tra martedì e mercoledì, i ragazzi senza volto né
speranza hanno incendiato una trentina di automobili, assaltando con molotov persino scuole e un centro culturale. Tutto è cominciato a Husby, anonima periferia a nord della città, abitata dai tanti immigrati che il paese scandinavo ha generosamente accolto in diverse ondate, seguendo le guerre degli ultimi vent’anni: prima dai Balcani, poi dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Somalia, dalla Libia, ora dalla Siria. Nessun altro paese al mondo ha la stessa concentrazione di culture e origini in così poco spazio.
Ma come insegnano i noir scandinavi che sbancano in libreria, dietro all’idilliaca cartolina, a quell’utopia di tolleranza e fratellanza, si nasconde anche un lato oscuro. A Husby, il 13 maggio la polizia ha ucciso un sessantenne che era asserragliato dentro al suo appartamento. Secondo le autorità, l’uomo minacciava gli agenti con un machete, ma i rivoltosi sostengono invece che si stava ribellando alla “brutalità” delle forze dell’ordine. La magistratura locale ha aperto un’inchiesta. I risultati rischiano di arrivare comunque troppo tardi per i ragazzi di Husby, e di altri nove sobborghi toccati dagli scontri nelle ultime ore.
Dopo Parigi e Londra, ora un’altra capitale europea rischia di non controllare la rivolta della gioventù no-future delle periferie. Il livello di intensità degli scontri non raggiunge ancora quelli che ha conosciuto la Francia con le banlieue nel 2005. In questo caso, però, accade nel paese un tempo ammirato come modello di integrazione in Europa. Negli ultimi anni, episodi di intolleranza e conflitto tra immigrati e forze dell’ordine si sono moltiplicati, soprattutto nel sud, a Malmo. Le violenze nei dintorni della capitale sono il segnale di un’ulteriore escalation. «Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima», minaccia il rappresentante di Megafonen. «È quel che accade quando non c’è eguaglianza tra i cittadini». Husby, che ha solo 12mila abitanti, è uno dei quartieri con il tasso di disoccupazione giovanile più alto della Svezia: un ragazzo su cinque non studia e non lavora.Dopo Parigi e Londra, ora un’altra capitale europea rischia di non controllare la rivolta della gioventù no-future delle periferie. Il livello di intensità degli scontri non raggiunge ancora quelli che ha conosciuto la Francia con le banlieue nel 2005. In questo caso, però, accade nel paese un tempo ammirato come modello di integrazione in Europa. Negli ultimi anni, episodi di intolleranza e conflitto tra immigrati e forze dell’ordine si sono moltiplicati, soprattutto nel sud, a Malmo. Le violenze nei dintorni della capitale sono il segnale di un’ulteriore escalation. «Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima», minaccia il rappresentante di Megafonen. «È quel che accade quando non c’è eguaglianza tra i cittadini». Husby, che ha solo 12mila abitanti, è uno dei quartieri con il tasso di disoccupazione giovanile più alto della Svezia: un ragazzo su cinque non studia e non lavora.
Il primo ministro Fredrik Reinfeldt ha convocato una conferenza stampa per smentire qualsiasi alibi politico o sociale alle violenze. «Sono solo teppisti» ha detto Reinfeldt, liberale che dal 2006 ha spodestato la lunga egemonia del partito socialdemocratico.
Dal 2010 il governo conservatore deve fare i conti con l’ascesa dei Democratici svedesi, partito xenofobo che è riuscito a entrare nel parlamento con il 5% dei seggi, quota già raddoppiata nei sondaggi. «Abbiamo una tradizione di accoglienza di cui sono fiero» ha spiegato Reinfeldt. L’anno scorso, la Svezia ha dato asilo a oltre 44mila profughi. In proporzione alla popolazione, è un record mondiale. Ma secondo l’Ocse, il paese scandinavo è anche tra quelli che ha più aumentato le disuguaglianze. Negli ultimi quindici anni, la povertà è salita dal 4 al 9%. Il governo deve reinventare il suo modello di integrazione e nel frattempo barcamenarsi tra opposti estremismi. Un compromesso non facile. Qualche mese fa, il ministro dell’Immigrazione, Tobias Billstrom, è stato protagonista di una clamorosa gaffe. «Gli immigrati — ha detto — non sono tutti biondi con gli occhi azzurri». Poi si è corretto e scusato. Ma intanto lo squarcio sul lato oscuro della Svezia si è aperto un po’ di più.

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